“Guerra giusta” e “pacifismo”: la dottrina della Chiesa

Dal sito Il giudizio cattolico

27 Settembre 2012

di Massimo de Leonardis

 Nella cultura recente di buona parte del mondo cattolico la dimensione strategica occupa uno spazio assai ridotto e l’uso della forza militare in politica internazionale è guardato con molto sospetto (solo in parte attenuato, non senza contraddizioni, da quando si parla di peacekeeping e di “ingerenza umanitaria”); quando esisteva il servizio militare di leva, tra i giovani cattolici “impegnati” l’obiezione di coscienza, era alquanto diffusa (e non per motivi meramente opportunistici).

I militari: «ministri della sicurezza e della libertà dei popoli»

All’inizio degli anni ‘90 si assistette alla pubblica polemica tra il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, che aveva definito gli obiettori di coscienza «i nostri giovani migliori», e l’arcivescovo Ordinario Militare, mons. Giovanni Marra, sceso in campo, è il caso di dire, in difesa delle sue pecorelle in divisa.

Nel 2001 in occasione del conflitto in Afghanistan, nella Chiesa si confrontarono apertamente posizioni assai diverse, anche nella gerarchia: ad esempio da un lato il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, affermò che «non si può pensare che un popolo che ha subito una tale strage possa porgere l’altra guancia (…) L’America ha diritto di difendersi e san Francesco, pur essendo un esempio di santità, non può sostituirsi ad un ministro della Difesa», mentre quello di Caserta, mons. Raffaele Nogaro, ha scritto che mai un politico cattolico può in coscienza autorizzare l’uso della forza militare. Regna dunque una certa confusione, almeno a livello di mass media, sui concetti di liceità della guerra e di guerra giusta e sull’atteggiamento cristiano verso la condizione militare.

In questi casi, una volta valeva l’adagio «Roma locuta est, causa finita est». La parola definitiva Giovanni Paolo II, figlio di un ufficiale dell’Esercito austro-ungarico, l’aveva pronunciata in più di un’occasione. Ad esempio il 2 aprile 1989, visitando la città militare della Cecchignola a Roma, il Papa ricordò che «fra i militari e Gesù Cristo (…) ci sono stati incontri molto significativi. Pensiamo alle parole che ogni volta ripetiamo avvicinandoci alla santa comunione “Io non sono degno …”. Esse sono parole di un militare, di un centurione romano che così ha espresso la sua fede (…) Ma non solo questo. Se prendiamo gli Atti degli Apostoli, è significativo che il primo convertito sotto l’influsso dello Spirito Santo − convertito non ebreo ma pagano − sia stato un militare, un centurione romano che si chiamava Cornelio».

Nella stessa linea sono le parole pronunciate il 19 novembre 2000 dal Santo Padre al Giubileo dei Militari e delle Forze di Polizia. Nell’omelia della Santa Messa, il Sommo Pontefice si era tra l’altro così rivolto alle molte migliaia di uomini e donne presenti in uniforme: «Chi meglio di voi, carissimi militari e membri delle Forze di Polizia, ragazzi e ragazze, può rendere testimonianza circa la violenza e le forze disgregatrici del male presenti nel mondo? Voi lottate ogni giorno contro di esse: siete infatti chiamati a difendere i deboli, a tutelare gli onesti, a favorire la pacifica convivenza dei popoli. A ciascuno di voi si addice il ruolo di sentinella, che guarda lontano per scongiurare il pericolo e promuovere dappertutto la giustizia e la pace. Vi saluto tutti con grande affetto».

Il saluto particolarmente caloroso si era ripetuto nella preghiera dell’Angelus al termine della Santa Messa, quando ricordando l’episodio della visita di san Pietro al centurione Cornelio (At 10, 2), il Papa esclamò: «I primi pagani battezzati da Pietro furono dunque i membri della famiglia di un militare (…) anch’io sono figlio di un militare, perciò mi sento vicino a tutti voi». Proprio il centurione Cornelio, appartenente alla coorte italica, è stato proclamato qualche anno fa Patrono dell’Esercito Italiano.

Giovanni Marra

Il Nuovo Testamento, come notava nel 1991 il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, alla IV settimana di formazione per i cappellani militari, «sembra nutrire una evidente simpatia per i centurioni», poiché nelle sue pagine ben quattro di questi ufficiali dell’esercito romano sono citati con connotazione positiva. Oltre a Cornelio, si ricordano infatti il centurione di Cafarnao, del quale Gesù loda l’eccezionale intensità della fede e le cui parole, «Domine non sum dignus ut intres sub tectum meum …» (Mt 8, 5-13 e Lc 7, 1-10) sono entrate nella liturgia e vengono ripetute al momento della Comunione, come ricordato dal Papa, quello comandato a dirigere la crocifissione del Signore, che è il solo con i suoi soldati a riconoscere nel condannato del Golgota il vero figlio di Dio (Mt 27, 54 e Mc 15, 39), e il centurione Giulio che, nel naufragio di Malta, si prodiga per salvare la vita a San Paolo, da lui trattato «con benevolenza» (At 27, 43).

La Chiesa, pur condannando le guerre ingiuste, non ha mai mancato di mostrare la sua sollecitudine per chi porta le armi al servizio dell’autorità legittima e qualunque opinione che volesse considerare la vocazione alla vita militare come non coerente con il Vangelo è del tutto infondata. Mons. Giuseppe Mani, allora Ordinario Militare per l’Italia, nella Lettera di Presentazione degli Atti del Primo Sinodo della Chiesa Ordinariato Militare in Italia scrive infatti: «Ho visto dei veri cristiani in armi che hanno dato, con la loro vita, una risposta chiara, una risposta che supera la domanda: non solo si può essere soldati e cristiani, ma persino soldati e santi».

Sempre l’Arcivescovo Castrense, il 25 ottobre 1996 nell’omelia ad Assisi in occasione dell’indizione del Sinodo, riferendosi al contingente italiano in Bosnia, esclamava: «Mentre accogliamo rispettosamente le motivazioni di chi in coscienza non si sente di portare le armi, riteniamo che essi non siano più pacifici dei nostri giovani impegnati nello sminare quelle terre. In questo momento voglio ricordare quella splendida e generosa gioventù, animata dai nostri cappellani, con i quali ho condiviso la gioia della Pasqua e che ho definito “uomini della Resurrezione”».

Nei documenti sinodali troviamo poi questa riflessione: «Il mondo militare, così come la liturgia, valorizza i segni e per loro mezzo si esprime simbolicamente». Nella stessa linea il Padre Lacordaire, rifondatore dell’ordine domenicano in Francia nel secolo XIX, nell’Elogio funebre del Generale Drouot osservava: «Di tutte le analogie morali, nessuna è più viva dell’analogia del religioso e del soldato. La medesima disciplina il medesimo sacrificio». «Militia super terram vita hominis est», per il cristiano la vita è un combattimento, contro il peccato; il soldato, se la causa per cui combatte è giusta, lotta anche contro il peccatore, l’aggressore ingiusto.

Nell’occasione del Giubileo, il Santo Padre, citando la Costituzione Pastorale Gaudium et spes (n. 79) definì anche i militari «“ministri della sicurezza e della libertà dei popoli” che “concorrono…alla stabilità della pace”», e ricordò che «la pace è un fondamentale diritto di ogni uomo, che va continuamente promosso, tenendo conto che “gli uomini in quanto peccatori sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta del Cristo” (Gaudium et spes, n. 78). Talora questo compito, come l’esperienza anche recente ha dimostrato, comporta iniziative concrete per disarmare l’aggressore».

Con sano realismo cristiano, il Sommo Pontefice richiamò dunque brevemente le condizioni in cui oggi conserva validità la dottrina cattolica sulla “guerra giusta”.

Quando la guerra è giusta

Nei primi tre secoli dell’era cristiana «molti cristiani servirono come ufficiali o soldati nelle legioni romane (…) senza che la Chiesa rivolgesse loro alcun rimprovero per questo motivo: molti di questi furono anzi canonizzati. La cosa è resa più significativa dal fatto che il servizio militare nell’Impero Romano non era né universale né obbligatorio, salvo situazioni eccezionali (…) Gli ufficiali e soldati cristiani che furono martirizzati in quest’epoca non furono messi a morte per aver rifiutato come cristiani di servire nell’esercito, ma per aver rifiutato di partecipare a cerimonie pagane imposte dai persecutori, ossia per aver rifiutato di compiere atti di idolatria e di apostasia» (R. de Mattei).

Naturalmente da sant’Agostino in poi, i teologi si sono affaticati a identificare le condizioni per le quali una guerra può essere permessa e avere un suo valore etico. Dal Concilio di Arles del 314, che comminò la scomunica per i disertori, alla lettera di sant’Ambrogio a Paterno del 393 per il quale «Hostem ferire victoria est, reum æquitas, innocentem homicidium», da sant’Agostino che legittima l’omicidio in guerra o contro un criminale fino al secolo XX vi è una mirabile continuità di fondo nella dottrina cattolica. Si pensi al Catechismo Maggiore di San Pio X: «È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si esegue per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa contro un ingiusto aggressore».

Riguardo all’obiezione di coscienza, la dottrina tradizionale afferma che «non è normalmente il cittadino ordinario che deve giudicare se la guerra è giusta o no: come principio il cittadino deve su questo punto attenersi alla decisione del potere politico, il quale ha la responsabilità del bene comune della nazione. L’obiezione di coscienza incondizionata – o rifiuto totale ed assoluto di prendere le armi – non può perciò essere legittimamente sostenuta da una coscienza retta».

Riassumendo un plurisecolare dibattito, a metà del secolo XX, il padre gesuita Angelo Brucculeri identificava cinque condizioni in base alle quali la guerra «può essere permessa e avere un suo valore etico»: Auctoritas principis (solo il potere sovrano ha diritto di dichiarare la guerra), Iusta causa (ovvero la necessità di difendere un diritto di sommo rilievo, il diritto all’esistenza, alla libertà, al proprio territorio, ai propri beni, al proprio onore; la causa deve proporzionarsi ai gravi mali, che si affrontano nella guerra, deve essere certa, deve esservi fondata speranza che i vantaggi prevarranno sui danni), Ultima ratio (se sono falliti i mezzi pacifici di soluzione della controversia), Intentio recta (l’intenzione dei belligeranti, dice san Tommaso, deve essere di fare il bene e schivare il male), Iustus modus (l’uso della violenza deve essere diretto contro le forze armate nemiche, tutto ciò che non è richiesto per la rivendicazione del diritto è illecito).

Il Codice di morale internazionale, approvato dal cardinale Van Roey, Primate del Belgio, uno dei testi più completi espressione della dottrina cattolica sull’argomento, ammette «il ricorso immediato alla forza (…) in tre ipotesi:

  1. allorquando si tratta per uno Stato di respingere un’aggressione inopinatamente sferrata dall’avversario;
  2. allorché uno Stato si porta a soccorso d’un altro Stato ingiustamente aggredito, essendosi obbligato ad assisterlo;
  3. allorché l’avversario, rifiutandosi di sospendere i suoi preparativi bellici, prolunga i negoziati per aver tempo a rinforzare i suoi apprestamenti di guerra e frattanto la comunità organizzata delle nazioni si rifiuta d’intervenire per eliminare l’imminente minaccia di guerra».

«Si giustificano dinanzi alla ragione – prosegue il documento – la guerra difensiva (…) la guerra offensiva, alla quale [uno Stato] ricorre per essere reintegrato in un diritto ingiustamente violato; la guerra infine d’intervento che apporta ad un belligerante, impegnato nella lotta, il concorso armato d’una potenza alleata ed amica (…) Lungi dal riprovare in maniera assoluta la guerra, le S. Scritture e la Tradizione abbondano in testi che affermano la legittimità del ricorso alla forza allorquando essa si presenta quale mezzo unico di far rispettare la giustizia e il diritto».

A proposito delle obiezioni pacifiste, il testo afferma: «Anche limitata alla guerra moderna, l’intransigenza d’un tale pacifismo non è sostenibile (…) rifiutare, in ogni ipotesi, al diritto il concorso della forza, che cosa può essere se non permettere alla forza di scavalcare il diritto e abbandonar l’umanità al disordine assai più pernicioso della violenza morale?».

Infine, riguardo alla teoria della guerra preventiva, secondo la quale uno Stato avrebbe il diritto di attaccare, al solo titolo preventivo, un altro Stato, anche inoffensivo e pacifico, ma che la consapevolezza della sua accresciuta potenza potrebbe un giorno trascinare ad un’ingiusta aggressione, il Codice non la ammette come «dottrina», ma solo in caso di «una precisa minaccia reale e imminente».

Un altro fondamentale compendio della dottrina cattolica sul nostro argomento afferma: «La guerra giusta (a). – Il precetto divino della pace ci obbliga non solamente a rispettare, ma a proteggere e difendere i beni essenziali che ci permettono di conseguire il nostro fine, naturale e soprannaturale. È fuori dubbio che si ha il diritto, e spesso il dovere, di difenderli, se essi sono gravemente ed ingiustamente minacciati (…) Di fronte ad un aggressore del quale la slealtà è certa, si può essere costretti ad iniziare per primi le ostilità, ad “attaccare”, senza per questo essere “aggressore”. La Crociata (e). – Tra i beni da rispettare e difendere, come i più essenziali, bisogna includere i beni spirituali, ed il più importante di tutti, la fede, che ci permette di raggiungere il nostro fine soprannaturale: Dio. È perciò cosa legittima, ed alle volte è un obbligo, difendere questo bene, in caso di attacco o grave minaccia, se è necessario, anche con le armi» (Insegnamenti pontifici, a cura dei Monaci di Solesmes).

L’azione della Chiesa per contenere le guerre

La Chiesa deplora la guerra, ma ne constata l’esistenza come giusto castigo, espiazione utile, preparazione provvidenziale. La Chiesa autorizza le guerre giuste e cerca almeno di porre limiti a quelle ingiuste, elaborando sia uno jus ad bellum, per evitare lo scoppio dei conflitti armati, sia uno jus in bello, per renderli meno cruenti se comunque esplodono.

Il Medioevo fu il tempo in cui, come si espresse Leone XIII, «la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato, quando la religione di Gesù Cristo posta solidamente in quell’onorevole grado che le conveniva, cresceva fiorente all’ombra del favore dei Principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il sacerdozio e l’impero». In tale quadro la Chiesa poté esercitare la sua massima influenza anche nel regolare il fenomeno della guerra, restringendone il campo di esistenza, la crudeltà e la durata.

La prima di queste misure fu la Pace di Dio, instaurata dalla fine del X secolo e progressivamente ampliata, che istituiva la distinzione tra combattenti e civili, proibendo di maltrattare le donne, i bambini, i contadini, i sacerdoti e dichiarando inviolabili le case dei contadini e le chiese.

La Tregua di Dio, instaurata a partire dall’inizio dell’XI secolo, limitava la durata della guerra, proibendo di combattere dalla prima domenica d’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dal primo giorno di Quaresima all’ottava dell’Ascensione e, durante tutto il resto dell’anno, dal mercoledì sera al lunedì mattina.

La Quarantena del Re, istituita da Filippo Augusto di Francia, imponeva un intervallo di quaranta giorni tra l’offesa ricevuta e l’apertura delle ostilità. Queste disposizioni non erano sempre rispettate, e valevano solo nelle guerre tra cristiani, ma chi le violava sapeva di esporsi a severe sanzioni, materiali e spirituali.

«In non poche regioni, i secoli centrali del Medioevo beneficiarono così, se non proprio di una totale scomparsa, almeno di una durevole marginalizzazione della guerra; e quand’anche essa aveva luogo, i suoi effetti erano più “canalizzati”». Peraltro «mai la Chiesa docente condannò indiscriminatamente la guerra, mai votò alla dannazione ogni specie di combattenti», anche se talora, nell’Alto Medioevo venivano imposte penitenze a chi uccideva un nemico in battaglia. Il pacifismo e la non-violenza erano diffusi «fra i marginali, fra gli eretici e i loro simpatizzanti»: contro i lollardi la Chiesa ribadì nel 1393 che: «combattere per la difesa della giustizia non solo contro gli infedeli ma pure contro i cristiani è cosa in sé santa e lecita» (P. Contamine). Ai chierici e ai monaci era proibito di portare le armi e di combattere, ma tale interdizione non si applicava a quei chierici che avevano responsabilità temporali e nell’alto Medioevo vescovi guidarono eserciti e morirono in battaglia; a metà del X secolo Papa Giovanni XII fu costretto a difendere Roma con le armi in pugno.

Pronunciamenti dei Papi sulla guerra giusta in età moderna e contemporanea

La coscienza del dovere di combattere per i diritti di Dio e della Chiesa è rimasta in età moderna e contemporanea. Benedetto XIV, considerato anche dai laicisti uno dei Papi più colti e “illuminati”, rappresentato letterariamente (nella commedia Il Cardinale Lambertini) come figura bonaria, elargendo speciali privilegi e benefici all’Ordine di Malta, gli esprimeva, con la lettera apostolica Quoniam inter del 17 dicembre 1743, tutta la sua benevolenza e ricordava che la Milizia dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme «combattendo, per la gloria di Cristo, contro i perduti uomini infetti dall’errore maomettano, con sommo vigore, difende assiduamente e con tutte le forze i paesi cristiani dalle incursioni di costoro» e «per sua istituzione, fa (…) guerra continua contro il comune nemico del nome cristiano (…) e (…) a tale scopo mantiene una flotta munitissima e ben dotata di materiale bellico e di ogni macchina guerresca». E ancora, sul tema della difesa armata della fede cattolica, va ricordata la lettera apostolica De periculis del 30 aprile 1767 di Clemente XIII all’Imperatore Giuseppe II, «custode e difensore dalla Chiesa cattolica», per esortarlo ad agire con «ogni zelo, ogni fatica e diligenza» per liberare in Polonia «il gregge del Signore dalle fauci e dalle zanne dell’eresia».

Il Beato Pio IX, pur con dolore, non esitò a far spargere sangue in difesa del Potere Temporale e dei diritti della Chiesa, anche di fronte a forze preponderanti che rendevano la battaglia disperata. San Pio X nell’enciclica Poloniae populum del 3 dicembre 1905 lodava la costanza e il coraggio dei polacchi che nei secoli avevano «stroncato» «l’impeto dei nemici del nome cristiano», li avevano «vinti e ricacciati».

Pio XII, nella allocuzione del 24 giugno 1944 alla Congregazione della Propaganda e alle Opere missionarie, esclamava: «Le Crociate si proponevano la liberazione della Terra Santa, e particolarmente del Sepolcro di Cristo, dalle mani degl’infedeli: fine senza dubbio quanto mai nobile ed elevato! Oltre a ciò, esse storicamente dovevano servire a difendere la fede e la civiltà dell’Occidente cristiano contro l’Islam».

Ancora Pio XII, nella lettera Sie Haben del 27 giugno 1955 al vescovo di Augsburg, ricordava tra le grandi «giornate della cultura occidentale» la battaglia di Lechfeld, nella quale il futuro imperatore Ottone il Grande sconfiggendo gli Ungari salvò l’occidente cristiano dal grave pericolo proveniente dall’oriente pagano, la vittoria di Carlo Martello a Poitiers nel 732 contro gli arabi e la vittoria di Carlo di Lorena e Giovanni Sobieski sotto le mura di Vienna contro gli ottomani.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi: il 22 agosto 1886, nell’enciclica Quod multum ai Vescovi di Ungheria, è Leone XIII a ricordare e lodare lo zelo dei magiari nel riconquistare il loro paese e nel ricacciare i «maomettani». Lo stesso pontefice, nell’enciclica Caritatis del 19 marzo 1894, ai Vescovi della Polonia ricorda le «splendide battaglie» in cui i polacchi furono «gli strenui difensori, e fedelissimi, della religione e della stessa civiltà».

Ancora Leone XIII, nell’enciclica Insignes Deo del 1° maggio 1896, in occasione del millenario dell’Ungheria, afferma che tale regno «è sempre stato stimato il più indicato per espandere le frontiere e la gloria del cristianesimo», ricorda che «molto spesso venne alle mani con feroci nemici», riportando «splendide vittorie», «per difendere e per propagare la religione di Gesù Cristo». Durante la Guerra Civile Spagnola, Pio XI, nella Allocuzione ai Rifugiati spagnuoli del 14 settembre 1936, esclamava: «La Nostra benedizione si volge in modo speciale a quanti si sono assunto il difficile e pericoloso compito di difendere e restaurare i diritti e l’onore di Dio e della Religione».

Nel discorso pronunciato in Normandia il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato, l’allora cardinale Ratzinger affermò: «Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto».

In una lettera al Presidente del Senato Marcello Pera, il cardinale Ratzinger affermava: «Sul fatto che un pacifismo che non conosce più valori degni di essere difesi e assegna a ogni cosa lo stesso valore sia da rifiutare come non cristiano siamo d’accordo: un modo di “essere per la pace” così fondato, in realtà, significa anarchia; e nell’anarchia i fondamenti della libertà si sono persi».

Tale concetto fu ribadito e precisato in un discorso pronunciato a Subiaco il 1° aprile 2005, poche settimane prima dell’elezione a Sommo Pontefice: «La pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa. Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. (…) Negli ultimi decenni abbiamo visto ampiamente nelle nostre strade e sulle nostre piazze come il pacifismo possa deviare verso un anarchismo distruttivo e verso il terrorismo».

Asceso al soglio pontificio, Benedetto XVI occupandosi specificamente del tema della pace e della guerra si è mantenuto su un piano strettamente religioso e teologico, evitando argomentazioni più direttamente politiche. Nel messaggio del Papa per la consueta Giornata della Pace del 1° gennaio 2006 era ribadito il Magistero tradizionale cattolico sul problema della pace.

Spiegando il significato del tema di riflessione scelto, Nella verità, la pace, Il Papa affermava: «Occorre tener ben presente che la pace non può essere ridotta a semplice assenza di conflitti armati», ma va compresa come «il frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore», un ordine «che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta».

«Sant’Agostino ha descritto la pace come “tranquillitas ordinis”, la tranquillità dell’ordine, vale a dire quella situazione che permette, in definitiva, di rispettare e realizzare appieno la verità dell’uomo». «E allora, − prosegue il Papa − chi e che cosa può impedire la realizzazione della pace?». La risposta va alla radice teologica del problema, ricordando l’episodio biblico del peccato originale, «la menzogna, pronunciata all’inizio della storia dall’essere dalla lingua biforcuta, qualificato dall’evangelista Giovanni come “padre della menzogna” (…) Alla menzogna è legato il dramma del peccato con le sue conseguenze perverse, che hanno causato e continuano a causare effetti devastanti nella vita degli individui e delle nazioni. Basti pensare a quanto è successo nel secolo scorso, quando aberranti sistemi ideologici e politici hanno mistificato in modo programmato la verità ed hanno condotto allo sfruttamento ed alla soppressione di un numero impressionante di uomini e di donne, sterminando addirittura intere famiglie e comunità. Come non restare seriamente preoccupati, dopo tali esperienze, di fronte alle menzogne del nostro tempo, che fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo? L’autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevolezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo e ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta». In una prospettiva cristiana, quindi, solo «il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace».

L’attuale Magistero della Chiesa

Si potrebbero moltiplicare esempi e citazioni come questi. Come indicato all’inizio, però, oggi nel mondo cattolico sembra diffuso un pacifismo quasi assoluto. Senza indagare le ragioni profonde di questa evoluzione, perché ciò porterebbe ad affrontare il discorso, per il quale non è questa la sede appropriata, dello spartiacque rivoluzionario rappresentato dal Concilio Vaticano II nella storia della Chiesa, vanno fatte almeno tre considerazioni.

1.Nessun atto del Magistero e nessuna seria riflessione teologica ha messo in discussione e sconfessato la plurisecolare dottrina sulla guerra giusta, i cui principi restano validi. Uno dei documenti più importanti successivi al Concilio Vaticano II è la conferenza dal titolo Tendenze del mondocattolico sul tema della pace e della guerra, tenuta il 20 gennaio 1992 al Centro Alti Sudi per la Difesa dall’Arcivescovo Ordinario Militare Mons. Giovanni Marra. Il Vescovo castrense affermava che «le posizioni dei pacifisti cattolici (…) non rappresentano affatto la linea direttrice ufficiale della Chiesa cattolica nella sua gerarchia e nella stragrande maggioranza del popolo cristiano» e che la Chiesa «conferma l’attitudine positiva e favorevole (…) per la professione militare».

Quanto all’obiezione di coscienza, seguendo la conferenza già citata del cardinale Biffi, mons. Marra osservava che la Costituzione Apostolica Gaudium et Spes prefigura «più che una giustificazione dell’obiezione di coscienza in se stessa e tantomeno un diritto soggettivo, la raccomandazione a trattar bene, avere comprensione per coloro che credono di doverla avanzare». Inoltre l’Ordinario Militare rilevava che «sia il Concilio sia i teologi moralisti cattolici non amano più adoperare la tradizionale dizione di “guerra giusta”», preferendo impiegare quella di «legittima difesa», le cui condizioni sono peraltro le stesse tradizionalmente indicate per la guerra giusta.

Le parole di mons. Marra trovano piena rispondenza nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che, elencando le condizioni di una «legittima difesa con la forza militare», osserva: «Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della “guerra giusta”. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune» (n. 2309). «La legittima difesa – aggiunge il catechismo – è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune» (n. 2321). Infine il Catechismo legittima pienamente l’obbligo del servizio militare e affronta il tema dell’obiezione di coscienza (nn. 2310-2311) nel senso descritto dal cardinale Biffi e dall’Ordinario Militare.

Alla luce del «rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» (Mt, 22, 21), la applicazione dei principi della «guerra giusta» nella politica internazionale e nella politica militare, rientra pienamente, come dice il Catechismo, nelle competenze degli Stati. È quindi singolare che chierici e laici che hanno sposato la piena laicità dello Stato si ergano poi a giudici in queste materie, le uniche nelle quali ritrovano una antica intransigenza, abbandonata in molti altri campi.

2. Qui si innesta la seconda considerazione. Se la «pace è dono di Dio», se «Egli è il solo fondamento stabile dell’ordine, il solo autentico garante della pace» e quindi «è impossibile stabilirla al di fuori dei principi del Vangelo» non vi potrà essere vera pace, anzi aumenteranno i conflitti nella misura in cui la Regalità Sociale di Cristo verrà sempre più ripudiata. Da un punto di vista soprannaturale, «se la pace è un dono del cielo, una grazia» (Insegnamenti pontifici), non si vede quale valore possano allora avere le preghiere per la pace che accomunano rappresentanti di diverse “religioni”, o, come si sarebbe detto un tempo, cattolici, scismatici, eretici, infedeli e financo pagani. L’utilità di tali incontri può essere al massimo solo politica o diplomatica.

3. I cattolici non devono vergognarsi dei loro antenati che in duemila anni di storia hanno impugnato le armi per difendere la fede e i diritti della Chiesa. In un recente volume sulle guerre tra cristiani e musulmani, ricordando le figure di due condottieri, difensori della Cristianità dall’Islam, Giovanni Hunyadi e il francescano san Giovanni da Capistrano, che la Chiesa ha proclamato patrono dei cappellani militari, l’autore giustamente commenta: «Nati in un’età di ferro, la loro vita avventurosa e tormentata può forse scandalizzare la maggior parte dei cristiani contemporanei, sicuramente più mansueti e pacifici: eppure la pace e la libertà che permettono questa mitezza sono conseguenza diretta di quelle battaglie».

Per concludere con la parola di un Papa, Pio XII, che si spera vedere presto elevato alla gloria degli altari: «La Chiesa deve tener conto delle potenze oscure che hanno sempre operato nella storia. Questo è anche il motivo per cui essa diffida di ogni propaganda pacifista nella quale si abusa della parola di pace per dissimulare scopi inconfessati».

Bibliografia

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