«Basta pranzi in chiesa: serve il coraggio del sacro»

La Nuova bussola quotidiana

15 Gennaio 2018

di Luisella Scrosati

Nella campagna #salviamolechiese, la Nuova BQ sta rendendo noti diversi abusi, segnalati dai lettori, relativi all’utilizzo improprio delle chiese. E’ arrivato un po’ di tutto, dalla porchetta in chiesa ai sempre più diffusi pranzi per i poveri e – come riportato proprio sabato, persino il veglionissimo di fine anno in chiesa con il parroco-clown. Echi di una dissacrazione che non cessa a vedere la fine e che viene da lontano. La Nuova BQ ne parla con il teologo ed esperto di liturgia don Nicola Bux.

Don Nicola, potrebbe indicarci come è andata delineandosi, nel corso dei secoli, la tradizione della Chiesa a riguardo, soprattutto per quanto concerne il fatto di consumare dei pasti con i poveri all’interno degli edifici dedicati al culto?

Gesù accettava l’invito ai pranzi per mostrare che egli è il Messia, il Figlio dell’uomo, venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (cfr Lc 19,10). Egli è l’ospite che offre il cibo, che moltiplica i pani, per mostrare che Dio nutre il suo popolo; ma chiede di cercare il cibo che non perisce, che è Egli stesso. Pertanto condivideva i pasti con i pubblicani, i peccatori, per indurli alla conversione e farli giungere all’Eucaristia che è il banchetto dei riconciliati; per questo la Chiesa ha istituito il catecumenato e l’iniziazione battesimale: per ammettere gli iniziati e i riconciliati all’Eucaristia. La Chiesa, quale comunità messianica, non ha altra ragione per invitare a un banchetto se non in vista dell’Eucaristia, anticipo del compimento nel regno dei cieli. Essa è il preannuncio del Giudizio universale, quando gli eletti saranno invitati al banchetto eterno del cielo.

Forse sul termine banchetto si sono creati degli equivoci.

A partire dal secolo scorso, qualche studioso ha in effetti confuso col banchetto eucaristico i pasti di Gesù con i peccatori, quasi identificandoli: c’è sotto la dottrina della giustificazione luterana, la grazia concessa al peccatore a prescindere dalla conversione. Ma da ciò segue un’idea dell’Eucaristia che non ha nulla in comune con la consuetudine della Chiesa primitiva.

Mentre Paolo definisce l’accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato come un mangiare e bere “la propria condanna” (cfr 1 Cor 11,29) e protegge l’Eucaristia dall’abuso, mediante l’anatema (cfr 1 Cor 16,22), la suddetta teoria mostra addirittura, come essenza dell’Eucaristia, che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare; essa viene interpretata come il segno della grazia incondizionata di Dio, che come tale viene offerta immediatamente anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti. Una posizione che, comunque, ha ormai ben poco in comune con la concezione che Lutero aveva dell’Eucaristia, come osserva Joseph Ratzinger (cfr Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, in Opera omnia, XI, p.423).

Secondo me, sotto l’organizzazione dei pasti nella chiesa, alberga questa convinzione: si ritiene che all’Eucaristia si possa accedere comunque in qualsiasi stato ci si trovi. Continuando a promuovere questa prassi, diverrà automatico andare a comunicarsi senza confessione, senza penitenza e senza riconciliazione. Invece, altro è il pranzo che Gesù faceva con i peccatori e diverse categorie di persone, e altra cosa è la Cena eucaristica, che è per i riconciliati. Per questo Gesù ha consumato l’ultima Cena, non con tutti ma con gli Apostoli.

Per giustificare questa prassi c’è chi si richiama alle comunità primitive.

I cristiani, fino al III secolo, erano condizionati dai costumi dei pagani, come nel caso dei fedeli di Corinto, che san Paolo ammonisce; in quella comunità, i cui membri provenivano in gran parte dai pagani, il pranzo non aveva il significato religioso che aveva per i cristiani provenienti dal giudaismo, per i quali il pasto aveva un senso messianico. Per questo, avevano atteggiamenti non compatibili con lo svolgimento della celebrazione eucaristica; così l’Apostolo consiglia di consumare il pasto a casa propria.

E’ d’accordo con questa tesi anche il noto esegeta luterano Joaquim Jeremias. Perciò affermazioni del tipo: “ma nel passato si mangiava nelle chiese…”, richiedono delle precisazioni importanti. Andiamo a vedere cosa succedeva. Nel momento in cui i pagani diventavano cristiani, portavano con sé delle usanze previe. La Chiesa, pedagogicamente, ha cercato di essere prudente, prima di passare alla distinzione e separazione tra ciò che è sacramento, sacra liturgia, e ciò che è carità. Qui c’è da aggiungere una considerazione.

Prego.

Intorno al III secolo si afferma l’agàpe, il pasto che ha come caratteristica la condivisione e come finalità l’espressione dell’amore di Cristo, in una parola la carità. E’ una istituzione tipicamente cristiana. Ne parlano la Lettera di Giuda, Ignazio di Antiochia e l’Epistola Apostolorum. Col IV secolo, come appare dai testi liturgici, quale la Traditio Apostolica, detta anche di Ippolito, questi pasti venivano realizzati non più nelle case private, ma in locali annessi alla chiesa.

L’uso proseguirà fino a quando, con la costruzione delle grandi basiliche, si riterrà incompatibile con esse l’odore delle cucine. Per cui si cercherà di allontanare il luogo della consumazione del pasto, dal luogo di culto. V’è traccia di tali cambiamenti nei Padri del IV secolo, come i Cappadoci, che non usano mai la parola agàpe nel senso di pranzo; tuttavia, san Giovanni Crisostomo, quando era ancora prete ad Antiochia, cercò di reagire alla separazione tra ricchi e poveri in questo modo: una volta ascoltata la parola di Dio e celebrati i Santi Misteri – l’Eucaristia – anziché tornare subito a casa, i ricchi dovevano invitare i poveri e si sedevano alla stessa tavola, preparata nelle chiese.

C’era una precisa finalità: l’evangelizzazione – non l’inclusione sociale, come si dice oggi – per inculcare il senso della carità di Cristo. Oggi, nelle mense per i poveri, si offre il pasto, raramente accompagnandolo con azioni atte a catechizzare ed elevare i poveri: insomma una ‘assistenza sociale’. Invece, il servizio caritativo è sempre a partire da Gesù Cristo. Non si tratta di far mangiare, ma si tratta di avvicinare a Cristo, in un percorso di conversione che avvicini i poveri al Signore, un percorso che li aiuti a passare dal cibo terreno al Cibo celeste. Come diceva Gesù nella moltiplicazione dei pani narrata da san Giovanni: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà» (Gv. 6, 26-27).

Il fatto del pranzo viene giustificato da più parti teologicamente. Per esempio, in un’intervista, mons. Barba afferma che mangiare insieme ai poveri in una chiesa è «un atto emblematico che sta a significare che la charitas cristiana scaturisce dall’altare, dall’Eucaristia, per cui ha un fondamento teologico, e il fatto che venga esercitata in uno spazio liturgico ne è l’epifania».

Ho accennato al significato messianico che avevano i pranzi per i poveri organizzati prima dagli ebrei e poi dai cristiani; quindi l’agàpee il nesso con l’Eucaristia. Uno studio specifico è stato compiuto da Adalbert Hamman in Vie liturgique et vie sociale. La domanda è: perché in seguito non è stato più fatto? La ragione c’è. Era un atto profano. Cosa significa? Un atto che non si compone con la liturgia. Si badi che gli orientali cristiani, in alcune feste, mangiano dei dolci (kollivà), e alla fine della Divina Liturgia, consumano l’antidòron (pezzi avanzati dal pane dell’offertorio). Non di più. Normalmente lo fanno in ambienti adiacenti la chiesa, perché il mangiare un pasto completo, genera atteggiamenti non confacenti e non assimilabili ai comportamenti che si devono assumere quando si partecipa all’Eucaristia.

Torno alla domanda fondamentale: perché la Chiesa, per ragioni spiegabili con l’assenza di ambienti complementari adeguati, che invece abbiamo oggi, ad un certo punto ha posto fine a questo uso, un uso che, è bene ricordarlo, non era così frequente e diffuso nell’antichità? Si tratta della volontà di distinguere l’azione sacra del culto a Dio, da quella profana per l’uomo, cioè, ciò che è divino e ciò che è umano. E’ vero che Gesù ha detto che ciò che si fa ai suoi fratelli più piccoli è fatto a lui, ma – commenta sant’Agostino – i fratelli più piccoli sono innanzitutto i cristiani; facendo intendere che, l’elemosina, senza l’annuncio evangelico, non serve. Perciò san Paolo ricorda che non giova dare tutte le sostanze ai poveri, senza la carità, ovvero la virtù che viene da Dio e a lui unisce.

Ecco, appunto. Non è che in fondo a tutte queste questioni, c’è il fatto che la distinzione sacro/profano è sparita? Diverse volte si sente affermare che con l’Incarnazione questa distinzione sarebbe terminata, avendo il Verbo assunto in sé la realtà profana e quindi la profanità in un certo senso sparisce…

Se con l’Incarnazione del Verbo il profano fosse scomparso e tutto fosse sacro, allora come catalogare il disumano e tutto ciò che è male, e continua a persistere nel mondo quel mondo che si oppone a Dio? Se l’Incarnazione avesse assorbito tutto il profano, allora qualsiasi azione dell’uomo dovrebbe essere accolta nello spazio sacro. Lo spazio sacro – il tempio (dal verbo greco: temno, recintare) – sta ad indicare uno spazio “conquistato”, per così dire, dall’Incarnazione; ma continua ad esserci uno spazio che non vuole lasciarsi prendere da questa presenza del Signore. Il sacro è un pezzo di mondo risorto in cui v’è la Presenza operante del Signore.

La teoria che tutto sarebbe sacro proviene dalla ‘teologia della secolarizzazione’, che ha preso piede nel secolo scorso e contagia non pochi ai nostri giorni. Non possiamo condividere l’idea che l’Incarnazione avrebbe fatto sparire di colpo la distinzione tra sacro e profano. Quando gli stessi sacerdoti reagiscono negativamente a certi comportamenti dei fedeli in chiesa, esprimono d’istinto che non si può fare ciò che si vuole, quindi ammettono implicitamente che il luogo del culto è particolare, anche qualora non lo ritengano ‘luogo sacro’; questo testimonia che continua ad esserci una distinzione tra ciò che è adeguato al sacro e ciò che non lo è. Oggi, se davvero si ama l’uomo, il povero, ancor più bisogna avere il coraggio del sacro.

Sembra che non custodendo la sacralità di un luogo, alla fine noi rendiamo i poveri in senso più ampio, sempre più poveri.

Molti santi hanno affermato che le chiese devono essere belle, devono essere custodite, perché già i poveri vivono spesso in ambienti disadorni, miseri. Entrando in chiesa devono poter godere della bellezza e della sacralità. Anche per questo san Francesco chiedeva ai frati che, per il Signore, si scegliesse il meglio.

Don Divo Barsotti non restò in silenzio di fronte ad una Chiesa sempre più orizzontale e sociale. Diceva: «Che cos’è una carità che lenisca tutti i dolori degli uomini, se poi questi debbono morire? Carità più grande è invece quella che immediatamente opera la salvezza soprannaturale, unendo gli uomini a Dio». Questa enfasi sulla dimensione orizzontale della Chiesa rischia di essere molto pericolosa.

Quello che lei dice, richiamando don Divo Barsotti, riporta a quella dimensione escatologica del banchetto, che deve sempre caratterizzare gli atti della Chiesa; la Chiesa non deve mai fare atti fine a se stessi, presumendo di risolvere i problemi del mondo (che nemmeno Cristo ha risolto e quindi non si risolveranno fino alla fine dei tempi). Alla radice c’è il peccato; Gesù Cristo è venuto a togliere il peccato coll’invito: «convertitevi e credete al Vangelo» (Mc. 1, 15); in tal modo, quella parte di mondo dove ci si converte a Lui cambia, diventa un pezzo di mondo salvato. Questo bisogna capirlo.

Non si può ridurre tutto alla dimensione sociale: viene prima la persona. Giustamente Barsotti richiama alla dimensione escatologica; infatti Gesù stesso dice: «I poveri li avrete sempre con voi» (Mc 14, 7), per ricordare che tutta l’attenzione possibile ai problemi del mondo non risolve la questione fondamentale: se l’uomo non si converte a Gesù Cristo tutte le migliori azioni sociali non servono a nulla.

Ecco perché la moda di profanare – nel senso suddetto – le chiese con azioni mondane che non hanno a che fare col culto (=culto, dal latino colere: coltivare, curare), il rapporto ‘accurato’ con Dio, è un ulteriore sintomo del modernismo – modus hodiernus – un piegare all’odierno, alle tendenze effimere, un luogo che per sua natura serve a fare proprio il contrario: cioè a convertire le mode passeggere all’eterno. Il luogo sacro ha senso perché l’uomo, che vive costantemente nel profano, se non peggio, ha bisogno di essere continuamente richiamato all’eterno.

Osserva Solzenicyn: “Percorrendo la Russia centrale, cominci a capire dove stia la chiave del paesaggio russo che acquieta e che dà pace: essa è nelle chiese […] Sempre gli uomini sono stati cupidi e sovente cattivi. Ma echeggiava lo scampanio della sera… Esso rammentava che bisogna abbandonare le meschine cose terrene, dedicare un’ora e i propri pensieri all’eternità. Questo scampanio innalzava la gente, impediva ad essa di chinarsi su quattro gambe”, (Viaggiando lungo l’Okà,).

Su questo è necessario soffermarsi: la chiesa serve a elevare l’uomo all’eterno, non ad essere immerso continuamente nella contingenza materiale. Ecco perché, anche dal punto di vista dell’antropologia teologica, è erroneo promuovere la consumazione del pasto nelle chiese, pur a fini caritativi, perché nella chiesa va esercitata la giustizia verso Dio, attraverso il culto, espressione della fede; mentre nel mondo, la giustizia verso il prossimo, attraverso le opere di carità.

Siamo arrivati a questi punti dopo una lunga gestazione. Pensiamo al canto liturgico: è avvenuto quello che si sta verificando adesso con i pranzi nelle chiese, cioè si prendono canti e musiche tipicamente profani, si inserisce un testo vagamente religioso e magicamente lo si fa diventare un “canto liturgico”.

Certo. All’origine c’è la ‘teologia della secolarizzazione’, il resto è venuto di conseguenza, con un effetto domino, nell’arte, nel canto, nel rito e così via. Tutto ciò che è profano è ritenuto ipso facto idoneo ad aiutare l’uomo per arrivare a Dio. Ma così non è. Se ancora oggi in Italia possiamo mostrare stupendi edifici sacri, all’ammirazione di tanti turisti che vengono a visitarli, la ragione è nell’attrattiva costituita dalla ‘diversità’ del cristianesimo.

E’ essenziale non dimenticare l’estraneità dei cristiani nel mondo: “il mondo non ci conosce” (1Gv. 3, 1), afferma san Giovanni; proprio questa estraneità, ricorda l’Epistola a Diogneto, fa sì che essi ne siano l’anima. La sacralità, ancor più la santità, che significa separatezza, indicano che il mondo con la sua concupiscenza (cf 1 Gv. 2, 17) è estraneo a Dio e attende di essere salvato. Altrimenti l’Incarnazione e la Redenzione a cosa servirebbero? La salvezza e la redenzione dureranno fino alla fine dei tempi e si compiranno solo allora. Quindi nessuno deve credere che, siccome Cristo si è Incarnato e ha salvato il mondo, il mondo profano che si sottrae alla salvezza sia egualmente ambiente sacro.

Anche Ratzinger diceva qualcosa di simile: noi abbiamo ancora bisogno delle chiese, perché di fatto la Gerusalemme celeste non è raggiunta. Non siamo nella patria, ma pellegrini verso di essa.

Sì, Ratzinger ha anche detto che, insieme ai santi, le chiese belle costituiscono la migliore ragione a sostegno della verità della religione cattolica. Di fatto, l’istinto che porta oggi molti a occuparsi dei problemi del mondo, è sintomatico del fatto che la salvezza di Cristo non è ancora arrivata dappertutto e là vi deve giungere. Il punto è che non bisogna dimenticare che questa comunicazione di salvezza non deve rinunciare a dire la verità su Cristo, sull’uomo, sul mondo, come Giovanni Paolo II spesso diceva. Bisogna dire la Verità. Ogni gesto che la Chiesa fa, deve servire a dire la verità di Gesù Cristo all’uomo, perché si converta e viva.