Una parola vale l’altra

linguaggioTempi n.27 14 luglio 2010

Da “diritti riproduttivi” a “sviluppo sostenibile”. viaggio nel vocabolario creato dalle istituzioni internazionali, pieno di espressioni che possono voler dire tutto e il contrario di tutto

di Laura Borselli

Lo smarrimento all’indomani della caduta del muro di Berlino, l’ansia sacrosanta e insieme lievemente isterica di ripartire, di ricominciare e di farlo con le parole giuste. Perché se dare un nome alle cose è il primo segno di coscienza per un essere che viene al mondo, lo stesso accade per una società frantumata da decenni di divisione. «È allora che, a partire dal linguaggio, la nuova etica globale ha conosciuto un punto di svolta», spiega Marguerite Peeters, direttrice di Dialogue Dynamics, istituto di Bruxelles che studia i concetti chiave, i valori e i meccanismi operativi della globalizzazione.

I primi anni Novanta inaugurano un’era di infinite possibilità, per godere della quale occorre intendersi sui termini per dialogare in futuro e raggiungere un consenso ampio su una serie di concetti basilari. È questo l’obiettivo di una lunga serie di conferenze internazionali organizzate dall’Onu, come il summit del Cairo dedicato alla salute riproduttiva e quello di Pechino sulla “gender equality” (letteralmente “uguaglianza di genere”). È così che dal 1990 al 1996 viene compilato il vocabolario di norme, valori e priorità necessari alla cooperazione internazionale della nuova era.

Marguerite Peeters è andata a sfogliare quel vocabolario culturale e linguistico, per capire chi lo ha compilato e che cosa vi ha scritto dentro. Quel che racconta non è nuovo, le parole che usa non sono astruse. “Sviluppo sostenibile”, “diritti riproduttivi”, “democrazia partecipativa”: sono espressioni che chiunque ha sentito decine di volte. «È proprio questo il punto – spiega la Peeters. Quel vocabolario noi lo usiamo già, molto spesso senza comprenderlo».

Eppure il linguaggio è una tappa fondamentale della costruzione della civiltà, cartina di tornasole dei cambiamenti e insieme loro motore. «Si tratta di una nuova etica globale – scandisce. Dove l’espressione significa che c’è un tipo di etica che non c’è mai stata prima, pur essendo snodo di una rivoluzione culturale iniziata già con la Rivoluzione Francese. È un’etica postmoderna ed è globale. Globale significa che se andiamo in Africa sentiamo Ong che parlano alle donne africane di diritti riproduttivi, di qualità della vita. Concetti nati in Occidente e calati in un nuovo contesto, in una sorta di neocolonialismo che mira a scalzare quel Dio portato insieme al colonialismo vero e proprio».

I paradigmi messi in atto spaziano dalla salute femminile, alla parità tra i sessi, fino al rispetto dell’ambiente. «Ma questo non significa che non vi sia un principio comune ed è la libertà di scelta assoluta». Prima ancora che scomodare opzioni religiose o politiche, la professoressa invita a guardare al linguaggio stesso. «Consideriamo il caso di un’espressione come “sviluppo sostenibile”. Essa non ha una definizione chiara e puntuale, anzi può essere interpretata in modi diversi e opposti a seconda che ad avervi a che fare sia un socialista o un liberale. C’è una instabilità semantica assoluta che viene quasi trasformata in un principio, in un valore.

Il linguaggio non serve più a dare un nome alle cose, processo fondamentale per conoscere la realtà ed entrarvi in rapporto, ma a tracciare dei confini di ambiguità, a definire uno spazio di interpretazione libera. Per questo dico che il linguaggio ha giocato un grande ruolo nella rivoluzione culturale globale, perché è tramite il linguaggio che si è trasformata la realtà in processo di scelta. Dunque è vero che il linguaggio non esprime più una realtà chiara, identificabile, ma può servire per permettere all’individuo di scegliere di non impegnarsi mai».

La tentazione della genericità

Si tratta di una tentazione atavica, più che di un progetto costruito a tavolino, secondo Giovanni Gobber, docente di Linguistica tedesca e di Linguistica generale all’Università Cattolica di Milano. «Vi è una sorta di imperativo sotteso al linguaggio adottato delle organizzazioni internazionali, quello della genericità». Una tentazione che secondo Gobber prende le mosse dall’obiettivo di costruire il consenso e il dialogo. «Si tratta di una necessità reale, pensiamo alla comunicazione interculturale.

Ora, il punto è come si risponde a questa necessità e il dramma è che sempre di più si pensa che per comunicare con chi è diverso da me devo eliminare da me stesso gli elementi di diversità». Non è dunque il progetto di una presunta “spectre” internazionale, ma una convinzione genuina, il che per certi versi è ancora peggio.

«Ci sono aspetti dell’esistenza – riprende Gobber – in cui si chiede al linguaggio di essere il più possibile neutro, generalmente questo accade quando sono implicate delle opzioni morali, sempre foriere di divisioni». Ecco allora che il termine “aborto” lascia spazio all’espressione “interruzione volontaria di gravidanza”, o la parola eutanasia viene parafrasata come “dolce morte” con riferimento alla sua radice greca.

«Gran parte delle nuove parole che ci troviamo per le mani sono vuote o edulcorate. Dove si avverte la violenza si cambia la parola, ma in questo modo non si elimina la violenza che c’è nella realtà. La realtà non è mai asettica o neutra. Né può esserlo il linguaggio».

I diritti prima di tutto

Quello dei diritti delle donne è uno dei campi più “a rischio”, secondo la professoressa Peeters. «Prendiamo un’espressione come “diritti riproduttivi”. La definizione è stata elaborata a porte chiuse da esperti di Ippf (International Planned Parenthood Federation), Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) e Unfpa (United Nations Fund for Population Activities) ed è un paragrafo che lascia aperte tutte le interpretazioni possibili: dall’aborto alla maternità, dalla sterilizzazione forzata alla contraccezione ormonale, fino alla fecondazione in vitro».

La salute riproduttiva, recita infatti la definizione che ha trovato la sua sintesi compiuta e formale durante la conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo (1994) «è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto assenza di malattia o infermità, in tutti i contesti riguardanti il sistema riproduttivo, le sue funzioni e i suoi processi. La salute riproduttiva quindi implica che le persone siano in grado di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e la libertà di decidere se, quando e quanto riprodursi.

In quest’ultima condizione è implicito il diritto degli uomini e delle donne di essere informati e di avere accesso a metodi di pianificazione familiare sicuri, efficaci, disponibili e accettabili secondo la loro scelta così come altri metodi per la regolazione della fertilità che non siano contrari alla legge». È facile andare con la mente all’utopia distopica del Brave New World di Aldous Huxley, dove momento unitivo e procreativo sono separati da tempo: nel mondo nuovo dello scrittore inglese i bambini nascono in vitro e il sesso è libero e innocuo.

«Rievocare queste immagini può sembrare esagerato. In fondo le espressioni del nuovo linguaggio appaiono giuste: chi può dire che sia sbagliato aspirare a una migliore qualità della vita? Quale donna africana, dove spesso partorire significa ancora morire, può rinunciare alla “maternità sicura” promessa dai famosi diritti riproduttivi?».

Ecco perché, sottolinea di nuovo la Peeters, questo linguaggio seducente non risparmia i cristiani, le Ong di ispirazione cristiana e la Chiesa stessa. «Molti cristiani confondono i paradigmi di questa nuova cultura con quelli della dottrina sociale della Chiesa. Spesso inconsapevolmente, senza porsi problemi ideologici. Pensano che sviluppo sostenibile sia sinonimo del rapporto tra uomo e natura descritto dalla Chiesa. Ma dietro questo concetto si può celare un neopaganesimo strisciante, in cui l’uomo non è considerato il custode della natura e della creazione, ma semplicemente un animale come tutti gli altri».

La parola del nuovo millennio

Per questo secondo la professoressa si apre una sfida particolarmente stimolante e urgente per la Chiesa: non solo quella di non confondersi, ma soprattutto quella di continuare a dire che cosa è la libertà. «L’ignoranza – scriveva diversi mesi fa la stessa Peeters sull’Osservatore romano – espone i cristiani al rischio di un amalgama tra la nuova etica e la dottrina sociale della Chiesa. È questo stesso amalgama che ha portato i cristiani occidentali al dissalamento della loro fede, in particolare dopo la rivoluzione culturale degli anni Sessanta.

Resta un enorme lavoro da fare per formulare la risposta che il Vangelo e la dottrina sociale danno alle sfide antropologiche e teologiche della postmodernità. Di fronte alle sfide di un’etica che, nei suoi aspetti radicali, vuole imporre alle culture la trascendenza del diritto di scelta dell’individuo al di fuori del disegno di Dio, i cristiani devono mettere nuovamente in luce la trascendenza della rivelazione divina. Il servizio più grande che la Chiesa può rendere all’umanità è infatti essere se stessa».