Dio ha bisogno dei preti

pretiTempi n.13 7 aprile 2010

Il dolore di vedere disprezzata la tonaca e attaccata la Chiesa rafforza la vocazione dei giovani seminaristi. «Diamo fastidio perché testimoniamo che nessuno si dà la felicità da solo»

di Benedetta Frigerio

Continuavo a sorridere alle persone sulle auto accanto che mi guardavano come fossi un matto». Mentre torna a casa Marco stenta a credere che don Mimmo è finalmente d’accordo, il presentimento di essere chiamato a diventare prete non era una sua fantasia. «È la stessa cosa che capita a chi aspetta da tempo il sì da una donna – racconta. Per capire che quella del sacerdote era davvero la mia strada ho dovuto lasciarci la pelle».

Marco Vignolo, oggi seminarista della diocesi di Genova, cresce in una famiglia lontana dalla Chiesa fino all’età di quattordici anni, quando incontra don Mimmo che insieme ad altri amici lo invita a un ritiro spirituale. «Lì sentii dire che se non c’era nulla che ci corrispondeva totalmente, la vita era un fallimento. “L’unico che basta è Cristo”, continuava a ripetere il prete che predicava. Capii allora che quella bellezza che mi aveva travolto attraverso i miei nuovi amici doveva essere Lui».

Quell’intuizione resta e intanto Marco si innamora ripetutamente, si prende e si lascia con diverse ragazze. Quando arriva in università invece non ha tempo di pensare alle donne. «Scelsi giurisprudenza, don Mimmo diceva che servivano cristiani in magistratura. Fu la seconda delusione che diedi ai miei genitori seguita all’avvicinamento alla Chiesa. Mio padre aveva uno studio commerciale e mi voleva con sé».

Dopo solo un anno Marco viene eletto al Consiglio nazionale degli studenti universitari. «Viaggiavo fra Genova e Roma. La vita era intensa, ma mi sembrava troppo faticosa. Don Mimmo mi assicurò che se avessi affidato tutto al Signore avrei potuto sperimentare che era Lui a sostenermi». È a quel punto, facendo il politico, che Marco capisce di voler essere prete. «La stanchezza mi costringeva a chiedermi se Cristo era reale al punto di potermi sostenere. Lo fece attraverso gli amici: c’era chi mi interrogava, chi mi passava gli appunti, chi mi dava una mano in politica. Così mi ha conquistato totalmente!».

Forse più lentamente, ma con le stesse armi Dio si prende anche Francesco Ferrari, oggi seminarista della Fraternità sacerdotale san Carlo Borromeo. Da bambino Francesco sente le cose peccare d’insufficienza, «solo in alcuni momenti intuivo che c’era una risposta alla mia inquietudine.

Un giorno mi trovai fra le mani un libro che narrava di un missionario in Cina, Le chiavi del Regno. Il protagonista si chiamava come me, era un personaggio fuori dalle righe innamorato della vita e della gente a cui ripeteva: “Non crediate che il Paradiso sia soltanto in cielo… è nella vostra casa, in un fiore che sboccia, nel palmo della vostra mano”. Era quello che volevo, ma si fermava lì fra quelle pagine. Solo in seguito capii che si trattava di un segno».

Il secondo “segno” è l’arrivo in casa di tre missionari, «una visita che sconfisse tutta l’inquietudine che trascinavo con me nelle ore passate a pretendere di essere ciò che non ero». Negli anni del liceo Francesco si innamora, la sua nostalgia sembra finalmente placarsi nel rapporto con quella «ragazza eccezionale».

«Ma all’università rimasi per la terza volta affascinato da un prete. Quel sacerdote così deciso, instancabile e lieto nel dare tutto, riaccese la scintilla portata anni prima da quei missionari». Della sua ragazza Francesco è innamorato sul serio, ma il desiderio di dare la vita a Cristo si fa via via più granitico, al punto da superare ogni altra aspirazione, «persino quella di passare la vita con lei. Bramavo cose che solo Lui poteva suscitare».

Ma se si può essere strappati dalle braccia di una donna, si può anche essere tirati letteralmente fuori da droga e sballo. «È solo una bellezza nuova – racconta Francesco Mariani, in seminario nella diocesi di Crema – che poteva cambiarmi fino a quel punto». Fin da ragazzo Francesco non è assolutamente attratto dalla vita religiosa, e meno ancora dalla Chiesa.

Dal rap alla tonaca

«Non ho mai avuto voglia di impegnarmi in niente, l’unica cosa che mi interessava era la musica rap». Francesco si esibisce tra locali e strada ed è lì che Dio se lo va a prendere. «Anche se lo capii solo dopo. Un giorno io e i miei amici eravamo tutti fatti. Io non so perché, ma dissi di stare poco bene e me ne tornai a casa. La polizia passò cinque minuti dopo e portò via tutti». Poco tempo dopo incontra dei ragazzi che lo invitano in vacanza.

«Vivevano la bellezza e la commozione che tanto avevo cercato. Non pensavo potesse esistere una cosa del genere». Nel giro di poco tempo Francesco decide di abbandonare tutto della sua vecchia vita. All’Università Cattolica si iscrive a Economia e Commercio, continua a stare con gli amici di Comunione e Liberazione.

«Non mi passava per la testa di fare il prete, volevo solo rimanere attaccato a quelle persone. La vita prosegue come un crescendo di amicizia, «mi importava solo che Chi aveva reso così bella e interessante la mia esistenza, si mostrasse ogni giorno. È stato questo che mi ha portato a desiderare di stare totalmente con l’Uomo che ha fatto letteralmente risorgere la mia vita. E così ho deciso di darla tutta, per comunicarlo a tutti gli uomini.

Anche oggi che la Chiesa è sotto attacco e sembra insinuarsi la tentazione di stabilire una distanza nei rapporti con le persone, l’esperienza cristiana si comunica da duemila anni come si è comunicata a me: attraverso un’amicizia».

Carlo Menozzi, seminarista nella diocesi di Bologna, è colpito dal disprezzo per il celibato dei preti che sembra emergere ovunque. «In fondo diamo fastidio al mondo perché testimoniamo che solo seguendo Cristo si può essere felici. Perché ricordiamo a tutti che l’uomo non si da la felicità da solo, non è lui il padrone». Per Carlo una consapevolezza che si traduce in una vita: «Sono sempre stato innamorato dell’esistenza, tanto da non risparmiarmi mai. Ho fatto politica, mentre facevo l’animatore, poi c’era il ballo, la discoteca, diverse ragazze. Eppure rimaneva sempre qualcosa che non mi tornava». La svolta è l’incontro con un sacerdote. «Era nel campeggio dove stavo io, lo guardavo muoversi e rapportarsi agli altri in un modo invidiabile, volevo quella intensità, che pur dentro una vita ricchissima io non avevo».

Dal campeggio all’università

Ma l’estate passa e gli impegni della vita vera rincominciano. «C’era da scegliere l’università. Anche qui mi impegnai al massimo negli esami da preparare, nelle battaglie politiche, nelle amicizie, ma la mia sete di pienezza continuava a non placarsi. Non sapevo più che fare. Sfinito, iniziai a pregare Dio di farmi capire. Mi restava solo quel sacerdote. Scelsi di dar credito ad un’intuizione piccola, ma la sola fin lì sufficiente».

Il senso di inadeguatezza si fa però enorme, «i miei limiti mi sembravano troppi per un prete. Ricominciai allora a pregare Dio che mi rispose non appena decisi di fidarmi. Appena entrato in seminario fu una conferma continua. Uno dopo l’altro vidi seguirmi molti degli amici con cui avevo condiviso le battaglie politiche, l’università e la discoteca. Dio si serve davvero di tutto».

Di tutto sembra essersi servito anche con Francesco Marchesi, ex avvocato penalista con una brillante carriera davanti. Innamorato di una donna e appassionato da una vita della Russia e dei grandi pensatori d’oriente, un giorno conosce padre Romano Scalfì della fraternità di Russia Cristiana.

«Con lui iniziai a confrontarmi durante gli anni dell’università e quando laureato mi accorsi che né la carriera né la ragazza erano sufficienti mi uscì una frase che non so nemmeno da dove venisse: “Padre, non è che devo fare il sacerdote?” Scalfì mi rispose ridendo: “Finalmente ci sei arrivato!”». In seminario tutto quello che sembrava perduto, ritorna con intensità ancora maggiore.

«A quella donna voglio più bene ora, quella passione per la Russia e per il diritto hanno trovato il loro senso». Infatti il patriarca di Venezia, venuto a sapere delle passioni di Francesco lo cerca «mi chiese di entrare in seminario nella sua diocesi, ponte dei rapporti con l’Oriente».

Una nuova famiglia

Gli anni successivi hanno in serbo per Francesco anche una nuova maternità. «Quando mia madre morì al suo funerale vidi sfilare davanti a me i miei compagni di seminario percepii un amore infinito alla mia vita. Capii che erano la mia famiglia». La voce di Francesco si rompe quando si fa cenno all’attacco rivolto alla Chiesa e al Papa, quando racconta di quelli che per strada lo disprezzano per l’abito che porta.

C’è dolore nel tono della voce, ma non un fremito. «Sono costretto a chiedermi se davvero il Signore mi basta, se sono pronto a subire il disprezzo. Così ho dovuto metterlo ancora di più al centro e sto scoprendo una passione per Lui e per le persone che mette sulla mia strada più grande di quella per cui ho iniziato».