Una lettera di Francois Fejto

Francois FejtòLa Civiltà Cattolica n. 3831 6 febbraio 2010

di Giandomenico Mucci s.i.

II 2 giugno 2008 è morto a Parigi Francois Fejtò, storico, politologo e uomo di cultura di fama internazionale. Era nato nel 1909 a Nagykanisza, in Ungheria. La sua vita e la sua attività si stendono dall’epoca crepuscolare dell’impero austro-ungarico a quella del marxismo europeo a quella, lunghissima, del suo esilio e soggiorno in Francia dal 1938.

Studioso, osservatore e commentatore di tutte le fasi cruciali del Novecento europeo, pochissimi altri possono considerarsi, come lui fu, simbolo e interprete delle tragedie, delle divisioni, delle ricomposizioni succedutesi per un intero secolo nel continente. È sopravvissuto agli splendori decadenti dell’impero absburgico, al terrore rosso di Bela Kun, a quello bianco di Horthy, al Reich hitleriano, all’impero sovietico, all’utopia di Imre Nagy, per rimanere nella storia della sua patria di origine.

Non è nostra intenzione parlare della sua opera di storico, di giornalista, di editore, di docente universitario, per la quale rimandiamo a due succosi studi di Maurizio Serra, il diplomatico italiano che è stato del Fejtò collaboratore e amico (1). Vogliamo soltanto descrivere la sua posizione nei riguardi della religione: una posizione che contribuì al suo lavoro di demistificazione dell’apparato pseudometafisico del totalitarismo fascista e comunista che prometteva la realizzazione del paradiso sulla terra (2).

La fede di E Fejtò

Sergio Romano racconta che un giorno il Fejtò domandò al card. Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi, che era un ebreo convertito: «Potrà un officiante recitare per me, dopo la mia morte, il kadish e un requiem?». Cioè la preghiera ebraica e quella cattolica per i defunti. Il Cardinale, dopo un paio di settimane, gli fece sapere che la cosa era possibile. Il rabbino di Parigi, anche lui interpellato, fu meno ottimista (3).

Il Fejtò era nato ebreo, ma fin da ragazzo si era sentito attratto dal cattolicesimo per l’influenza esercitata su di lui da un amico sensibile alla fede cattolica. La famiglia dello scrittore viveva stancamente la religione dei padri ed era fortemente condizionata dai problemi che la maggioranza cattolica della popolazione ungherese poneva alla minoranza ebraica spesso discriminata sul piano culturale e amministrativo. Spinto dall’entusiasmo religioso dell’amico, il giovane Fejtò si interrogava sulla fede ebraica comparandola con quella dei cattolici e dei luterani.

«Ahimè, l’ebraismo come era predicato dalla nostra sinagoga riformista mi sembrava insipido e tiepido. Leggevo l’Antico Testamento, ma ad esso preferivo la dolcezza del Vangelo. Il tempio luterano, situato in fondo a un cortile vicino a casa nostra, mi attraeva per i suoi muri nudi e l’austera semplicità delle sue cerimonie. Ma la messa grande nella chiesa barocca dei francescani era festosa, vibrante, scintillante; erano i Preludi e le Fughe di Bach suonati dal nostro amico, il “cantor”, erano l’odore dell’incenso, le prediche appassionate. Mi sentivo convertito […]. Un pomeriggio, nei giardini pubblici dove stavo leggendo il Vangelo secondo san Matteo, credetti di veder passare — vidi passare —-Gesù, sentii il suo sguardo posarsi su di me. Questa visione fuggitiva non era forse la conferma della mia fede?» (4).

Più tardi, all’inizio degli studi superiori che desiderava compiere in un celebre collegio di Budapest, gli fu detto che vigeva il numero chiuso per l’ammissione degli studenti non cristiani e pertanto gli sarebbe convenuto farsi battezzare «per la forma». Rimase sconvolto. Trovava umiliante fare per interesse un simile passo. Successivamente, consigliato da alcuni professori piaristi, si affidò alla cura spirituale di un dotto e pio cistercense che leggeva anche l’ebraico e stimava il giudaismo.

Con lui discusse della dottrina trinitaria e del modo con cui essa si concilia con il monoteismo. Fu colpito dalla testimonianza di fede di una ragazza tubercolotica che si preparava alla morte pregando e cantando. Fu battezzato nel corso di una Messa solenne. Il padre reagì alla notizia con il silenzio. Il gran rabbino, dal quale era andato a congedarsi, non comprese le ragioni della conversione e si separò da lui con parole acri contro i cristiani pronunciate «con il tono di una maledizione».

Non molto diversamente si comportò Martin Buber quando il Fejtò gli fece visita per presentargli un suo saggio sull’ebraismo. Intanto si nutriva con le Confessioni agostiniane, L’Imitazione di Cristo e le Provinciali di Pascal (5). Ma la conversione, con il coraggio che gli richiese, non allentò mai la consapevolezza della sua identità giudaica e il vincolo misterioso con la religione dei suoi antenati.

Quando si parla della religione del Fejtò alla luce dei suoi scritti sembra opportuno, e viene spontaneo, riferirsi, come a metro di valutazione, al concetto di identità, lasciando l’idea e la professione della fede cattolica all’intuizione che egli ne ebbe e al segreto della sua anima.

Ormai certamente, per quanto se ne può cavare da scarsi e reticenti testi nei quali un virile pudore può aver avuto la sua parte, la fede cattolica liberamente accettata fu il suo modo di identificarsi con la cultura mitteleuropea. Ce lo fa pensare l’assenza nei suoi scritti di qualsiasi citazione dalla soteriologia o ecclesiologia o escatologia cristiana. E non ci pare di dover dare soverchio peso a quel certo misticismo che caratterizzò la fase giovanile della sua esperienza religiosa.

Ciò detto, è lecito scorgere nella sua concezione dell’Occidente, della sua cultura e della sua politica, tracce non irrilevanti dell’educazione cattolica. È conforme allo spirito cattolico il suo rifiuto delle teorie che considerano l’uomo come un essere destinato a vivere in perpetua conflittualità. E cattolica la sua persuasione che sarà possibile evitare in futuro conflitti mondiali se si andrà sempre più affermando la trasformazione morale e spirituale dell’uomo.

E’ cattolico il suo convincimento che le dinamiche storiche conducono l’uomo a stimare l’interesse dell’umanità più degli interessi nazionali e individuali e, se ci si mette su questa via di promozione e di difesa dei grandi princìpi e valori umani, si potrà ottenere l’unico progresso desiderabile: quello controllato dalla coscienza nella quale sono indelebilmente scritti i Comandamenti della legge divina.

Ed è cristiana e cattolica la sua ferma credenza che nella storia agisce un elemento diabolico che forma, a livello inconscio, lo stesso mistero dell’uomo. Era, questo, un pensiero che non gli toglieva la fiducia nell’uomo specialmente quando metteva in relazione questa fiducia con il bisogno di una nuova rivelazione di Gesù all’attuale civiltà globale (6). «Sono uno spirito piuttosto miscredente, e tuttavia credo in Dio. Mi ritengo abbastanza lucido, e tuttavia non dispero dell’uomo» (7)

Una lettera di F. Fejtò

Sul pensiero religioso del Fejtò, che a noi sembra piuttosto un’antropologia cristianamente ispirata, getta un qualche lume una lettera che l’illustre scrittore scrisse all’autore di questo articolo. La traduciamo integralmente. È datata da Parigi il 25 gennaio 2001.

«Padre, vi ringrazio con tutto il mio cuore — e mi perdonerete se lo faccio in francese — per la vostra recensione così benevola del nostro libro, scritto con Maurizio Serra».

«Su un punto — l’ultimo — mi permetto di contraddirvi. Io penso che non ho soltanto la nostalgia della fede, io ho la fede. Io non sono ateo ma non posso immaginare il nome di Dio come persona, tutt’al più come una metafora il cui significato oltrepassa la nostra comprensione. Se ho fiducia, se mi fido dell’uomo, ciò è nel senso che l’uomo è portatore del divino, per la sua creatività etica ed estetica. Per questa, non accetto spiegazioni materiali-stiche. Che io voglia o no, io mi sento di essere un animale religioso, e cerco. Attualmente concentro la mia riflessione sul problema così difficile, ma appassionante, del bene e del male».

«Forse un giorno avrò la possibilità di consultarvi su questo soggetto. Ne parlo talvolta con un compatriota, teologo, che al presente vive ritirato nel sud della Francia, dopo aver insegnato trent’anni in Germania, dove ha pubblicato un certo numero di libri tradotti anche in Francia. Voi conoscete forse il suo nome: si chiama Alexandre Gànóczy. Ha scritto recentemente un saggio su “II diavolo, metafora del male” che io ho trovato molto istruttivo».

«Vi prego di ricevere, con i miei ringraziamenti e i miei migliori voti per quest’anno che inizia un secolo difficile, l’espressione della mia rispettosa considerazione. Francois Fejtò».

Note

1) Cfr M. serra, «Portrait d’un Européen libre», in F. FEJTÒ – M. SERRA, Le passager du siede. Guerres, révolutions, Europes, Paris, Hachette, 1999, 7-26; id., «L’uomo Fejtò», in F. FEJTO, Ricordi. Da Budapest a Parigi, Palermo, Sellerie, 2009, 13-20.

2) Cfr ID., «Portrait d’un Européen libre», cit., 25.

3) Cfr S. ROMANO, «Fejtò, esule ungherese, cittadino europeo», in Corriere della Sera, 26 luglio 2007, 39.

4) F. FEJTÒ, Ricordi, cit., 75

5) Cfr ivi, 80-83

6) fr A. FEZZI PRICE, «Intervista a Francois Fejtò», in il Giornale, 21 novembre 2004,20.

7) F. FEJTO, Ricordi, cit, 433.