La civiltà è prodotta dai muri

mura_cittadineItalia Oggi 22 Febbraio 2017

La loro demonizzazione non tiene conto della storia

Il primo è quella della casa nella quale si entra dalla porta chiusa a chiave. Poi ci sono le mura

 di Gianfranco Morra

La civiltà è nata col muro. Anzitutto quello della casa, che la circonda e la difende come il luogo degli affetti familiari e dell’intimità. Dentro la quale si può entrare solo attraverso la porta, il cui simbolismo (morale e religioso) in ogni cultura è uno dei più forti. Dalla casa, dal castello e dall’abbazia si estese a quella grande Casa che è la città. E ancora oltre: gli Stati hanno eretto lunghe muraglie, come quelle di circa 120 km tra Gran Bretagna e Scozia volute da Adriano e Antonino Pio. Il primato spetta ai cinesi: una Grande Muraglia lunga 8.800 km.

Senza dubbio, per esigenze di difesa contro i nemici e per tener fuori estranei, ladri e assassini. Ma non minori erano le valenze simboliche. Muro significa identità e solidarietà. Le mura trasformavano la città in un microcosmo, di cui racchiudevano la perfezione: spesso erano circolari, come il moto delle sfere celesti. In Occidente, il loro modello erano le mura della Gerusalemme celeste, costituita da un quadrato perfetto: «un muro grande e alto munito di dodici porte presso le quali vi erano dodici angeli» (Apocalissi, 21, 12).

Ancor oggi restiamo stupiti di fronte alla grandiosità delle mura erette dalle civiltà del passato. In alcune città vi sono ancora tracce di tre o quattro cerchia di mura, corrispondenti ai successivi ampliamenti dell’abitato. Mirabili ancora le mura di Roma, che risalgono a Romolo («possa morire chiunque osi scavalcare le mura», in Tito Livio).

Ma anche le mura volute da tanti i papi sono fra le più grandiose, soprattutto quelle leonine, fatte erigere da Leone IV per difendere Roma dagli islamici: la fede religiosa ha sempre protetto l’ordine sociale contro il disordine che può giungere dall’esterno. Grandiose quelle del Vaticano, tuttora custodite e controllate ad ogni porta da guardie svizzere. Le mura erano strumenti di difesa. In latino moenia deriva da munire, fortificare, proteggere. Le mura potevano essere anche una prigione. Ma tutte avevano le porte, che si chiudevano la sera e si riaprivano all’alba.

La civiltà moderna ha inventato armi così potenti che le mura della città sono divenute inutili. Quasi ovunque sono state rase al suolo dai progetti urbanistici dell’Ottocento, la città è divenuta aperta e i trasporti rapidi. Era nata l’Europa della sicurezza, quel «mondo di ieri» (Zweig) nel quale si viaggiava tra i vari paesi senza difficoltà. Senza dubbio un progresso, al quale però è corrisposto però un mutamento paradossale. Le mura non le abbiamo più, ma l’incomunicabilità e la solitudine, anziché diminuire, sono aumentate, sino a divenire una malattia endemica del tecnopolitano.

E la criminalità dilaga. Le porte delle case non sono più aperte, come spesso nel passato, ma chiuse da complicate serrature e difese da sofisticati sistemi d’allarme. Tolte le mura, non abbiamo avuto una società libera, ma atomistica e angosciata. Una civiltà del «muro», come ha esemplificato Jean Paul Sartre, una barriera invisibile che impedisce la comunicazione e il rapporto fra le persone, come ne Le mur di Sartre (1939): «L’inferno sono gli altri» (l’enfer c’est les autres). Ma il muro non può essere uno strumento di egoismo e di sopraffazione, quando impedisce a popolazioni misere e profughe di trovare uno spazio vitale nei paesi ricchi e civili, che le escludono?

La polemica del cattopopulismo ha come primo bersaglio il «muro», al quale contrappone un’altra immagine antropologica, quella del ponte. Alla base della quale c’è un autentico sentimento di solidarietà, dato che è un dovere cristiano e più generalmente umano aiutare chi soffre. Ma esprime anche una forte incoscienza sugli aspetti reali, distruttivi della identità e della sicurezza dei popoli raggiunti dalle migrazioni senza regole che da anni sempre più numerose investono l’Europa.

In contrasto con la reale situazione di disagio e di insicurezza delle popolazioni europee, soprattutto dei poveri, che di fronte alla immigrazione selvaggia sono i più disarmati.

Una paura reale e motivata, che va considerata in ciò che ha di reale, non demonizzata, col falso ragionamento che occorre farla tacere e accogliere tutti. Si confonde così l’effetto con la causa: sono i migranti che producono la paura, dalla quale gli invasi impauriti cercano di difendersi con la richiesta di una programmazione e di un controllo.

E quei paesi che, per farlo, hanno eretto dei muri, che più spesso sono reticolati, non possono essere bollati e infamati come «anticristiani». Non l’hanno fatto di buon grado, ma perché ne sono stati costretti. Ciò vale in Europa per Francia e Regno Unito, Germania e Spagna, Austria e Ungheria, Grecia e Macedonia, Slovenia, Norvegia ed Estonia. E vale anche per gli Stati Uniti, dove il muro col Messico è stato una scelta condivisa da tutti gli ultimi presidenti, elefantini o asinelli che fossero. Basta ripercorrerne la storia: fu iniziato dal repubblicano Bush senior nel 1990 e continuato da Bush junior nel 2006. Lo potenziò anche un democratico come Clinton nel 2005 e votarono a favore Hillary e Obama (allora senatori).

Ma la polemica contro il muro per fermare i messicani rientra nella campagna di squalificazione contro il Presidente Trump, colpevole di aver vinto le elezioni democratiche. Chi le ha perse aveva bisogno di una strega e di un capro espiatorio. Anche perché Donald sta facendo qualcosa di peggiore, cerca di attuare quelle promesse, che ha fatto durante la campagna elettorale convincendo i cittadini. Inaudito.