Business della fame

Anna, giugno-luglio 2002

Lo scandalo delle organizzazioni umanitarie che anziche’ aiutare il prossimo   si autoalimentano, lautamente. Come la Fao

di Giordano Bruno Guerri

Nel 1982 ero uno dei curatori di una grande mostra sugli Anni Trenta organizzata dal Comune di Milano. Non bastavano gli spazi di Palazzo Reale e della Galleria, per cui si decise di usare anche quello sotto il sagrato del Duomo, inutilizzato. C’ero anch’io, insieme ai funzionari comunali, a aprire stanze che si ritenevano chiuse da anni.

Potete immaginare la nostra sorpresa quando, al di là di qualche porta, scoprimmo enormi quantità di riso, pasta, coperte, materiale sanitario. Non ci volle molto a accorgersi che era tutta roba donata dai milanesi – ormai troppo tempo prima – per i terremotati dell’Irpinia colpiti dal sisma nel 1980.

Tutto quel bendiddio era lì non perché qualcuno l’avesse rubato o lo volesse rubare, ma per disorganizzazione e insipienza di chi aveva raccolto gli aiuti, per problemi burocratici, di organizzazione. Messo da parte per essere inviato in un secondo tempo, il tutto era stato poi, semplicemente, dimenticato. I camion non riuscivano a partire per cavilli burocratici e stavano “appassendo” nel porto di Genova.

Possiamo anche ricordare gli aiuti dati all’Albania, finiti nelle mani della malavita locale e messi in commercio come un prodotto qualsiasi. Sono episodi gravissimi, a parte il male che fanno ai destinatari degli aiuti, perché sconfortano chi quegli aiuti li ha dati, li darebbe ancora e forse non li darà più perché “non vale la pena”, perché “chi sa che fine faranno”.

Però sono fatti che si possono ancora spiegare come incidenti, come episodi dovuti all’improvvisazione, all’urgenza, alla mancanza di strutture addette a casi eccezionali e improvvisi. È ben più grave quando il sospetto dell’inefficienza e dello spreco cade su organizzazioni ufficiali, ufficialissime, nate e esistenti a quello scopo.

Lo scandalo della Croce Rossa Italiana, non ancora risolto, è recentissimo. Si è scoperto che per la raccolta degli aiuti, pubblicità compresa, la Cri aveva incaricato una società privata che incassava, per il suo lavoro, una cifra poco inferiore al denaro raccolto.

Peggio ancora è lo scandalo, nascente, della Fao, l’organizzazione dell’Onu con sede a Roma, che deve gestire migliaia di miliardi di dollari con il solo scopo di combattere la fame nel mondo. Denunce sempre più frequenti dei giornali e di autorevoli personalità come Gino Strada, il chirurgo fondatore di Emergency, sostengono che la Fao è un carrozzone autoassistenziale, che spende un’infinità di soldi per mantenere troppo bene i suoi troppi funzionari, scelti più secondo criteri politici e di spartizione geopolitica che per competenza. Sarà vero?

Una cosa è certa: dobbiamo pretendere che su questi sospetti si faccia definitiva chiarezza. Oltretutto ognuno di noi dà un contributo – non da poco – alla Fao: l’Italia glielo versa ogni anno prelevandolo dalle nostre tasse.