Protocollo di Kyoto, ambiente e riduzione della CO2

Abstract: Il protocollo di Kyoto, che mira alla riduzione dell’anidride carbonica ritenuta responsabile del surriscaldamento atmosferico si è dato obiettivi troppo ambiziosi che comporteranno costi enormi per le collettività a fronte di dubbi vantaggi per l’ambiente con riduzioni della CO2 tutto sommato irrilevanti

http://www.ragionpolitica.it/ del 28 novembre 2003

Gli svantaggi del protocollo di Kyoto

…usare una cura da cavallo per un male che non si comprende non è una mossa molto saggia. Il protocollo di Kyoto, in particolare, a fronte di benefici lontani nel tempo presenta costi immediati e gravi.

di Carlo Stagnaro

Fellow presso l’International Policy Network (London, UK)

Secondo un sondaggio commissionato dal WWF nel 2001, l’89% degli italiani è favorevole al protocollo di Kyoto. Una maggioranza che rasenta l’unanimità. La cosa non sorprende: nel nostro Paese è mancato quel dibattito che ha infiammato il clima politico di altre nazioni. Gli ecologisti hanno saputo sfruttare abilmente l’apprensione popolare. Quando il presidente Berlusconi, due anni fa, accennò che forse era meglio considerare altre strade, venne sommerso dai fischi dei nemici e dagli strepiti di molti amici.

E’ lecito, però, chiedersi se quei nove italiani su dieci sappiano a cosa hanno dato il proprio assenso. In altre parole, sarebbe interessante conoscere cosa avrebbero risposto se la domanda fosse stata: Lei sa che cosa prevede il protocollo di Kyoto? La questione non può essere elusa, perché la città di Milano ospiterà – dall’1 al 12 dicembre 2003 – la Nona Conferenza delle parti, un meeting annuale che si svolge sotto l’egida dell’ONU per stabilire con quali strategie affrontare l’effetto serra.

Per farla breve, il trattato siglato nel 1997 prevede una sostanziale riduzione delle emissioni di gas serra. Detto così può apparire un provvedimento nell’interesse generale; ma tagliare le emissioni significa, indirettamente, rendere l’energia, più scarsa, e dunque più costosa. Dal costo dell’energia dipendono molti aspetti della nostra vita; per giunta, introdurre tasse o sussidi implica una sottrazione di risorse dalle mani dei legittimi proprietari. Cioè, applicando misure del tipo di quelle previste dal protocollo di Kyoto, si tolgono soldi dalle tasche di alcuni cittadini, erodendo il potere d’acquisto dei loro redditi. Naturalmente, l’intero peso finanziario graverà sulle spalle dei consumatori: i più colpiti saranno quelli appartenenti alle fasce più povere della popolazione.

Non è un caso che le organizzazioni sindacali – inizialmente favorevoli all’adozione del protocollo – abbiano apertamente espresso tutta la loro perplessità. Essi, infatti, cominciano a realizzare che l’utopia del “controllo del clima” metterà a repentaglio lo stipendio e addirittura il posto di molti lavoratori. Joel Decaillon, segretario della Confederazione dei sindacati europei, ha dichiarato che “i sindacati devono giocare un ruolo nella negoziazione delle misure tese a ottenere una transizione equa, sulla base di un’informazione accurata, delle risorse disponibili, e di un coinvolgimento attraverso il dialogo sociale”. Sebbene egli rimanga ancora in mezzo al guado – perché non riconosce esplicitamente l’incompatibilità tra la riduzione delle emissioni e lo sviluppo economico – la sua presa di posizione è significativa.

Anche i sindacati italiani farebbero bene ad affrontare questo problema, e a farlo in fretta. Secondo uno studio prodotto dall’International Council on Capital Formation, l’applicazione del protocollo di Kyoto in Italia potrebbe condurre alla perdita di 280.000 posti di lavoro entro il 2025, e a una riduzione del PIL effettivo pari al 2,9%. A causa dell’elevato prezzo dell’energia e dell’assenza di una vera competizione nel settore, i cittadini dovrebbero sostenere un costo aggiuntivo di grandi proporzioni.

Per giunta, l’impostazione anti-nuclearista della nostra classe politica impedisce pure di produrre energia attraverso l’unico mezzo che è pulito e a buon prezzo. Infine, le fonti cosiddette alternative non saranno in grado di rappresentare un’opzione abbordabile ancora per molto tempo. Nondimeno, le case devono essere scaldate d’inverno e rinfrescate d’estate, le fabbriche devono lavorare, i computer devono accendersi e le automobili devono muoversi. Il mantenimento di tutti questi benefici potrebbe essere messo in discussione dall’applicazione del protocollo di Kyoto. Contrariamente a quello che si sente spesso dire, noi non siamo danneggiati dall’assenza, ma da una eccessiva presenza, di politica energetica.

Il clima è un sistema complesso: la strada per capirlo è ancora molto lunga. Forse il nostro pianeta ha la febbre, probabilmente no. Di certo, usare una cura da cavallo per un male che non si comprende non è una mossa molto saggia. Il protocollo di Kyoto, in particolare, a fronte di benefici lontani nel tempo presenta costi immediati e gravi. Metterlo in atto sarebbe come sottoporsi a una chemioterapia per guarire un mal di testa passeggero.

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Il prezzo di Kyoto

Perché il Protocollo rappresenta una minaccia concreta per il benessere dell’umanità

di Carlo Stagnaro

Kyoto è morto, viva Kyoto. La decisione della Russia e dell’Australia di accodarsi agli Stati Uniti nel rigetto del Protocollo sul clima ha sostanzialmente affossato questo trattato internazionale. Lo si è visto chiaramente nell’arco della Nona conferenza delle parti (Cop9), che si è svolta a Milano dall’1 al 12 dicembre scorso. Contro le speranze dei maggiori movimenti ambientalisti, infatti, non si è potuto raggiungere l’accordo necessario a far decollare le restrizioni alle emissioni di gas serra.

La vera domanda, oggi, è: che fare nel post-Kyoto? Rottamare ogni tentativo (più o meno votato al fallimento) d’imbrigliare il clima terrestre, oppure tentare di far rientrare dalla finestra quel trattato ch’è uscito, con la coda tra le gambe, dalla porta? In particolare, che farà il Vecchio continente: andrà avanti da solo, oppure cercherà una strategia comune con gli altri Paesi sviluppati?

L’Unione europea ha sempre assunto una posizione ferocemente favorevole a ogni forma di global governance del fenomeno, senza curarsi troppo dei dubbi che la comunità scientifica nutre sul rapporto tra le emissioni umane di CO2 e altre sostanze, e il possibile aumento della temperatura media della superficie terrestre. Tuttavia, l’Agenzia europea per l’ambiente ha diffuso, il 6 maggio 2003, un comunicato corrucciato, rilevando che, per il secondo anno consecutivo, «le emissioni complessive dell’Ue dei sei gas ritenuti responsabili del cambiamento climatico globale sono state superiori dell’1,0% rispetto all’anno precedente – questo secondo le stime del 2001, l’ultimo anno per il quale sussistono dati disponibili». «Nonostante l’aumento registrato dal 2000, le emissioni di gas a effetto serra dell’Ue nel 2001 sono risultate inferiori del 2,3% rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia, se si guarda ai due anni precedenti, non può ritenersi un risultato di rilievo. Nel 1999 e nel 2000, infatti, le emissioni sono risultate inferiori rispettivamente del 3,3 e 3,5% rispetto a quelle del 1990».

L’Italia appartiene al gruppo di dieci Paesi (su 15) responsabili di questa tendenza (1). Gli Stati Uniti hanno ampiamente annunciato la propria contrarietà a una riduzione forzosa delle emissioni. Il Protocollo di Kyoto entrerà in vigore novanta giorni dopo che l’avranno ratificato almeno 55 dei Paesi firmatari della Convenzione Un-Fccc (United Nations Framework Convention on Climate Change), purché tra tali Paesi siano compresi i Paesi industrializzati e a economia in transizione (elencati nell’Annex I), in numero tale da rappresentare almeno il 55% delle emissioni complessive di anidride carbonica (riferite al 1990).

Il rifiuto della Russia e dell’Australia ha tramutato istantaneamente in un miraggio il raggiungimento di tale soglia. Non è un caso se le organizzazioni ambientaliste hanno preso di mira Andrej Illarionov, consigliere economico del presidente Putin. In un comunicato stampa, per esempio, Greenpeace ha esortato il Cremlino a «smettere di ascoltare un pugno di teste calde e scribacchini pagati dall’industria del petrolio». Ha aggiunto Steven Guilbeault, esponente moscovita di Greenpeace: «Il consigliere del presidente Illarionov e il chairman della conferenza [sul clima svoltasi tra il 29 settembre e il 3 ottobre 2003] Yuri Izrael sono d’imbarazzo alla fiera tradizione scientifica russa» (2).

In effetti, gli scienziati sono tutt’altro che unanimi sulle cause del riscaldamento globale, e v’è chi nutre dubbi perfino sulla sua stessa esistenza. L’effetto serra «antropogenico» non va confuso con l’effetto serra naturale, che non solo esiste da sempre, ma è addirittura indispensabile alla vita sulla Terra. L’atmosfera respinge parte delle radiazioni in arrivo dal sole (specie i raggi ultravioletti), mentre trattiene parte di quelle che il globo emette (a bassa frequenza ed elevata lunghezza d’onda).

Così facendo, essa rende la temperatura media più elevata (circa 15°C) e le escursioni termiche più miti. Senza l’effetto serra, la temperatura media alla superficie sarebbe pari a circa –18°C (3). Tra i gas che contribuiscono all’effetto serra, i più noti (e più importanti) sono senza dubbio il vapore acqueo, l’anidride carbonica, il protossido d’azoto e l’ozono. L’atmosfera, insomma, ha il medesimo effetto d’una serra attorno al pianeta (sebbene il principio alla base del funzionamento delle serre sia diverso e poggi essenzialmente sull’assenza di ventilazione). Tuttavia, per riprendere la bella immagine di Robin Baker, si tratta di «vetri sporchi» (4).

La temperatura media ha subito notevoli variazioni durante la vita del pianeta: anche in tempi relativamente recenti. La storia ricorda almeno tre «piccole età glaciali» (520-350 a.C., 500-750 d.C., 1500-1850) e due periodi caldi (200-400 d.C. e 1000-1300) (5) negli ultimi 2500 anni. Per giunta, le osservazioni sistematiche della temperatura potrebbero essere non abbastanza accurate e pertanto sopravvalutare la crescita della temperatura per varie ragioni. In primo luogo, le stazioni di misura si trovano per lo più sulla terraferma e quindi disponiamo di poche informazioni sulla temperatura nelle distese oceaniche. Secondariamente, esse sono sovente in prossimità di centri urbani, che immagazzinano calore (6) e pare che possano essere influenzate anche da molte variabili sociali ed economiche (7).

In effetti, le misurazioni dei satelliti non sembrano rilevare alcuna variazione significativa nella temperatura media dell’atmosfera (8). Da ultimo, disponiamo in tutti i sensi di troppi pochi dati per essere in grado di comprendere un fenomeno così complesso. Come ha osservato Franco Battaglia, «gli unici dati attendibili sulle temperature medie globali si riferiscono proprio solo agli ultimi cento anni: non dovrebbe apparire strano che, se uno comincia a un qualunque istante di tempo, la temperatura globale o cresce o decresce» (9). Con queste premesse è certo difficile attribuire all’uomo un fenomeno, il riscaldamento globale, le cui dinamiche sono tutto fuorché chiare.

Ciliegina sulla torta, gli andamenti dell’aumento della temperatura media del pianeta misurata nell’arco dell’ultimo secolo sono affatto discontinui. Pressoché tutto il riscaldamento verificatosi nel Ventesimo secolo (pari a circa 0,6°C) si concentra in due lassi di tempo ben precisi: dal 1910 al 1945 e poi dal 1975 a oggi. Questo parrebbe incoerente con la spiegazione «ufficiale», in quanto le emissioni di anidride carbonica da parte dell’uomo sono andate sempre crescendo (10).

Se vi fosse un rapporto di causa-effetto, anche la temperatura media avrebbe dovuto aumentare con un andamento monotòno. Bisogna anche aggiungere ch’è profondamente erroneo vedere l’uomo come un sadico diavolo che si diverte a maltrattare la natura indifesa. «Il rapporto uomo-natura – ha sottolineato Renato Angelo Ricci – è di tipo dinamico e dialettico… l’uomo sta dentro la natura, ne fa parte e le sue capacità di trasformazione sono retaggio delle sue doti culturali» (11).

L’Ipcc (International Panel on Climate Change) ha tentato d’elaborare modelli matematici per simulare il comportamento del clima da qui al 2100. Essi prospettano un aumento della temperatura compreso tra 1,5 e 4,5°C. Se fosse vera la prima stima, i mutamenti sarebbero contenuti e, anzi, potrebbero avere ricadute positive (il clima sarebbe semplicemente più mite e temperato, mentre – grazie alla maggiore concentrazione d’anidride carbonica nell’atmosfera – la crescita della vegetazione sarebbe più svelta e rigogliosa) (12). Inoltre, un riscaldamento moderato potrebbe anche determinare sostanziali benefici per la salute umana: il freddo «uccide» molto più del caldo, se così si vuol dire (13).

A questo va aggiunto che l’Ipcc è un organismo solo apparentemente scientifico: come ha osservato Roger Bate, i suoi rapporti sono soggetti a una costante «riscrittura» da parte di negoziatori politici, al punto che esso «è diventato una delle agenzie meno credibili che gravitano attorno alle Nazioni Unite» (14). Tuttavia, la domanda da porsi in primo luogo è: quale grado di fiducia dobbiamo riporre in queste analisi, anche a prescindere dalla credibilità dei loro autori? La risposta è: pressoché nessuno. I modelli sono giocattoli matematici molto complessi che poggiano essenzialmente su una serie d’ipotesi semplificative. La comprensione delle dinamiche climatiche, come abbiamo visto, è però talmente scarsa da rendere ogni ipotesi arbitraria.

Per esempio, «in generale i modelli predicono che un aumento del 50% dei gas serra dovrebbe provocare un riscaldamento di 2°C. Ma la reale risposta a tale raddoppiamento nel corso dell’ultimo secolo è stata di solo 0,5°C” (15), e non è tuttora stato dimostrato che tra i due fenomeni vi sia un legame diretto, o che l’aumento d’anidride carbonica nell’atmosfera sia dovuto essenzialmente, o in larga misura, alle emissioni antropogeniche. Inoltre, di molte sostanze non si conosce il comportamento, e alcune – come il vapor d’acqua – operano sia a favore sia contro il riscaldamento, a seconda dei casi.

Un modello non può logicamente tener conto di queste ambiguità, e dunque dev’essere tarato in maniera tale da attribuire un coefficiente – positivo o negativo – a ciascuna di esse. In breve, nelle parole di Baker, «l’unica certezza è che i modelli attuali non sono abbastanza potenti, né sofisticati, né informati da permetterci di prendere delle decisioni» (16). Non meno inaffidabili sono le previsioni sul fronte economico, che naturalmente poggiano su quelle climatiche: sommando incertezza a incertezza, dubbi a dubbi. In una lettera indirizzata a Rajendra Pachauri, chairman dell’Ipcc, lo statistico australiano Ian Castles ha sottolineato che alla base delle previsioni economiche vi sono numerose «ipotesi sbagliate», relative in particolare alla crescita economica del Terzo mondo. «Io credo – ha scritto – che sia importante che i governi siano avvisati quanto prima che le proiezioni economiche usate negli scenari dell’Ipcc sono tecnicamente scorrette» (17).

Analogamente, molti trattano il riscaldamento globale come se si dovesse verificare in un arco di tempo brevissimo, e non nel corso d’un intero secolo. Come ha osservato Robert Crandall, «al di là del modello usato, tutte le previsioni di riscaldamento globale vedono solo un riscaldamento graduale nei prossimi decenni o secoli. I presunti problemi dell’impatto ritardato delle accumulazioni passate e future di gas serra non saranno gravi per almeno cinquanta o sessant’anni.

Ogni dollaro dedicato all’abbattimento dei gas serra oggi potrebbe essere investito per produrre 150 dollari nei prossimi cinquant’anni a un tasso sociale di sconto del 10%, e anche a un esiguo 5% annuale, ogni dollaro ne produrrebbe 12 in 50 anni. Quindi, dobbiamo essere sicuri che i benefici prospettati, quando si realizzeranno, andranno almeno da 12 a 150 volte il costo attuale necessario per ottenerli. Altrimenti, semplicemente non dovremmo agire, ma impiegare le nostre risorse scarse in altre direzioni» (18). Evitando di confrontarsi con la necessaria temporalità del presunto riscaldamento globale, poi, si sottovalutano le grandi capacità d’adattamento di cui il genere umano ha dato grande dimostrazione e senza le quali, probabilmente, noi non saremmo qui (19).

Se la luna non sembra fonte di eccessive preoccupazioni, meglio allora concentrarsi sul dito che la indica: il Protocollo di Kyoto rappresenta oggi una minaccia concreta per il benessere dell’intera umanità. Esso, infatti, si propone un obiettivo estremamente limitato – ridurre le emissioni di gas serra da parte dei Paesi elencati nell’Annex I del 5,2%. Tuttavia, come riconosce (da un certo punto di vista, correttamente) Grazia Francescato, per ottenere un risultato concreto bisognerebbe «ridurre i famigerati gas serra […] del 60%» (20).

Sarebbe una follia economica, ma quanto meno una misura del genere potrebbe incidere seriamente sul processo in atto – ammesso e non concesso che l’uomo ne sia direttamente o indirettamente responsabile. In verità, per ottenere forse un effetto apprezzabile, e comunque fra decenni, dovremmo ridurre le emissioni… del 100%. Al contrario, un intervento irrisorio come quello prospettato da Kyoto lascia presagire benefici pressoché nulli in termini ambientali, a fronte di costi sproporzionati. Secondo uno studio effettuato dalle compagnie Dri-Wefa per conto dell’American Council for Capital Formation (Accf), il prezzo del petrolio per riscaldamento in quel Paese crescerebbe del 46%, la benzina e il diesel rispettivamente del 10% e del 13%, l’industria pagherebbe il gas naturale circa il 117% in più e i prezzi dell’energia raddoppierebbero (21).

Il periodo più critico sarebbe quello compreso tra il 2008 e il 2012. Il Pil subirebbe una diminuzione fino al 4,5%, e non tornerebbe ai livelli di riferimento se non nel 2020. Per le medesime ragioni, il potenziale produttivo dell’economia scenderebbe a causa degli aumenti del prezzo dell’energia, ch’è un fattore di produzione fondamentale. Inoltre, la diminuzione dei consumi potrebbe produrre una depressione nel breve termine. Tra il 2008 e il 2010 il Regno Unito rischierebbe di perdere fino a un milione di posti di lavoro. Inoltre, la produttività dei singoli lavori diminuirebbe a causa della diminuita efficienza (maggior costo) di tutti gli altri fattori di produzione (22).

Margo Thorning, vicepresidente esecutivo del Center for Policy Research dell’Accf, ha ampliato la prospettiva dello studio Dri-Wefa all’intera Unione europea. Se l’Ue è riuscita a realizzare il primo obiettivo assegnatole dal Protocollo di Kyoto (far sì che le emissioni nel 2000 fossero pari ai livelli del 1990, malgrado l’inversione di tendenza di cui s’è già fatto cenno), è largamente grazie alla Gran Bretagna (che ha eseguito una sostanziale sostituzione del carbone col gas naturale) e alla Germania (che ha rinnovato l’inefficiente parco industriale dell’Est dopo la riunificazione). Per contro, dieci dei 15 Paesi membri hanno aumentato le emissioni nel corso dell’ultimo decennio del secolo.

Tuttavia, secondo le proiezioni le emissioni dell’Europa in generale aumenteranno del 9% entro il 2020, a meno che non siano intraprese forti scelte politiche in senso opposto. Questo avrebbe un grave impatto sul Pil delle varie nazioni: una diminuzione del 5,2% per la Germania, del 5% per la Spagna, del 4,5% per il Regno Unito e del 3,8% per i Paesi Bassi (23). Lo studio conclude che «sotto il Protocollo di Kyoto ci si aspettano perdite in termini di produzione e impiego poiché le strumentazioni e i veicoli che consumano energia sarebbero resi obsoleti anzitempo; i consumatori sperimenterebbero repentini aumenti del costo della vita; i ministeri economici probabilmente dovrebbero puntare a un maggiore rilassamento dell’economia per abbassare i prezzi dei beni che non hanno a che fare con l’energia e quindi stabilizzare l’ambiente complessivo dei prezzi».

Inoltre, quando il governo fisserà dei limiti alle emissioni, il costo ricadrà interamente sui consumatori in termini di aumento dei prezzi. Questo, insieme all’aumento del costo dell’energia, indebolirà il potere d’acquisto dei salari (24). Naturalmente, il primo risultato sarà quello d’aumentare il prezzo del petrolio e del carbone. Questo determinerà un aumento della domanda di fonti energetiche alternative: dal gas alle celle solari, dall’energia eolica al nucleare. In sostanza, qualunque forma di energia sarà più cara, ora a causa dell’azione diretta del governo, ora a causa delle distorsioni da questa indotte nel mercato. Per conformarsi agli obblighi di Kyoto, l’Italia potrebbe dover spendere fino a 5,3 miliardi di euro all’anno nel 2010, 14,9 miliardi di euro all’anno nel 2020 e 21,3 miliardi di euro all’anno nel 2025 (25).

Questo comporterebbe una riduzione potenziale del Pil pari allo 0,5% sotto i livelli di base nel periodo 2008-2012, dell’1,9% nel 2020 e del 2,9% nel 2025 (26). «Le perdite occupazionali annuali – conclude uno studio coordinato da Mary Novak per conto dell’International Council for Capital Formation di Bruxelles – ammonterebbero a 51 mila posti di lavoro nel 2010, fino a 280 mila entro il 2025. La percentuale di riduzione d’impiego relativa ai livelli dello studio di base sarebbe inferiore alla perdita di produzione. Ciò comporterebbe un aumento del rapporto lavoro-produzione (o una diminuzione della produttività della manodopera), in quanto gli adeguamenti ai livelli occupazionali tendono a rallentare le modifiche di produzione» (27).

Il costo del Protocollo di Kyoto è, allora, estremamente salato. Inoltre, i suoi benefici sono alquanto dubbi e in ogni caso esso rappresenta necessariamente un primo passo verso ulteriori giri di vite. I cittadini europei dovrebbero chiedersi se sono disposti a sacrificare il proprio benessere – la crescita economica, il potere d’acquisto dei propri salari, molti posti di lavoro – in cambio d’un aleatorio rallentamento nel riscaldamento del pianeta.

Note

1)Agenzia Europea per l’Ambiente, «Secondo anno consecutivo di aumento delle emissioni di gas ad effetto serra nell’Ue», “http://org.eea.eu.int/documents/newsreleases/ghg-2003-it

2) Greenpeace, «President Putin? Wake Up and Face Reality!», 3 ottobre 2003, http://www.greenpeace.org/international_en//press/release?item_id=324092&campaign_id=;

3) Gerald E. Marsh, A Global Warming Primer, National Policy Analysis, No.420, The National Center for Public Policy Research, luglio 2002, http://www.nationalcenter.org/NPA420.pdf;

4) Robin Baker, Falsi allarmi. La scienza e i media, Il Saggiatore, Milano, 2002, 154;

5) Franco Ortolani, «Modificazioni climatico ambientali cicliche tipo “effetto serra” durante il periodo storico», 21mo Secolo, anno XI, n.3, dicembre 2000, 5;

6) Piers Corbyn e Manoucher Golipur, «What is a Global Temperature? The Over-Representation of Temperate and Polar Zones», in John Emsley (a cura di), The Global Warming Debate. The Report of the European Science and Environment Forum, The European Science and Environment Forum, Bournemouth, 1996, 80-86;

7) Ross McKitrick, «The Influence of Economic Activity on the Measurement of Global Warming», settembre 2001, http://www.uoguelph.ca/~rmckitri/research/gdptemp.pdf;

8) Roy W. Spencer e John Christy, «Precise Monitoring of Global Temperature Trends From Satellite», Science, Vol. 247, 1990, 1558;

9) Franco Battaglia, «Ecco perché l’effetto-serra è solo una grossa bufala», Il Giornale, 4 settembre 2000, 13;

10) Bjørn Lomborg, L’ambientalista scettico. Non è vero che la Terra è in pericolo, Mondadori, Milano, 2003, 266-269;

11) Renato Angelo Ricci, «Problemi ambientali e informazione scientifica», Nuova Secondaria, anno XIX, n.10, 15 giugno 2002, 36;

12) «Si stima che l’attuale aumento del 30% nella concentrazione atmosferica di CO2 abbia aumentato la resa dei raccolti tra il 5 e il 10%. Raddoppiare la concentrazione di CO2 potrebbe far crescere le medesime piante e raccolti anche del 30%», Robert L. Bradley, Jr., Julian Simon and the Triumph of Energy Sustainability, American Legislative Exchange Council, Washington, DC, 2000, 92. «L’anidride carbonica non è un inquinante; è essenziale per la vita. Sulla base dell’estensiva evidenza resa disponibile dalla ricerca agricola sugli ambienti arricchiti d’anidride carbonica, sia in laboratorio che in campo aperto, gli aumenti di biossido di carbonio dovrebbero determinare la crescita più rapida e vigorosa di molte piante. La ragione è che la maggior parte delle piante si sono evolute in, e quindi sono meglio adattate a, concentrazioni atmosferiche d’anidride carbonica superiori alle attuali», Willie Soon et al., Global Warming. A Guide to Science, The Fraser Institute, Vancouver, 2001, 37;

13) William R. Keatinge et al., «Heat related mortality in warm and cold regions of Europe: observational study», British Medical Journal, vol.321, 2000, 670-673;

14) Roger Bate, «Un clima da non credere», liberal, anno III, n. 12, maggio-giugno 2002, 151;

15) Roger Bate e Julian Morris, Global Warming: Apocalypse or Hot Air?, Institute of Economic Affairs, London, 1994, 20;

16) Robin Baker, Falsi allarmi, 165;

17) Ian Castles, «Letter to dr. Rajendra Pachauri», 6 agosto 2002, http://www.policynetwork.net/pdfs/henderson_castles_letters.pdf;

18) Robert Crandall, «Economists and the Global Warming Debate», in Jonathan H. Adler (a cura di), The Costs of Kyoto. Climate Change Policy and Its Implications, Competitive Enterprise Institute, Washington, DC, 1997, 145, https://secure.cei.org/PDFs/Costs_of_Kyoto_Part4.pdf;

19) Indur M. Goklany, «Strategies to enhance adaptability: Technological change, sustainable growth and free trade», Climate Change, vol.30, 1995, 427-449;

20) Grazia Francescato, «Dal concetto del limite al principio di precauzione», in Grazia Francescato e Alfonso Pecoraro Scanio, Il principio di precauzione, Jaca Book, Milano, 2002, 43;

21) DRI-WEFA, «Kyoto Protocol and Beyond: The High Economic Cost to the United Kingdom», 2002, http://www.scientific-alliance.com/dri4.doc;

22) Ivi, 15;

23) Margo Thorning, «Kyoto Protocol and Beyond: Economic Impacts on EU Countries», American Council for Capital Formation, 2002, http://www.accf.org/ACCF_KyotoEconImp.pdf;

24) Ivi, 9; 25) Mary Novak (a cura di), «L’impatto sull’economia italiana dell’adozione del protocollo di Kyoto e delle ulteriori riduzioni di emissioni di gas ad effetto serra previste dopo il 2012», International Council for Capital Formation, 2003, http://www.iccfglobal.org/ GI%20Eco%20Final082803.PDF, 10; 26) Ivi, 12;

27) Ivi, 13.

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