La difesa della libertà religiosa non si può fare importando il modello neutrale dalla Francia

Luca DiotalleviIl Sole 24 Ore del 4 novembre 2009

Intervista a Luca Diotallevi

di Carlo Marroni

Luca Diotallevi, 50 anni, professore di sociologia all’università Roma Tre, è tra l’altro collaboratore della Cei e autore di molti saggi sul tema della secolarizzazione in Italia, tra cui un libro in uscita dal titolo Un’alternativa alla laicità.

La Ue vuol staccare i crocifissi dalle aule.

È un vero e proprio atto di imperialismo culturale.

Non un contributo alla separazione tra Stato e Chiesa?

Ma la difesa della libertà religiosa non può essere appaltata al concetto di laicità positiva francese, che va tanto di moda. La laïcité è un concetto gemello della forma di dominio, per esempio, della politica sull’economia, che soffoca quindi ogni espressione di tipo liberale. Quella francese non è una soluzione esportabile da noi.

Ma togliere il crocifisso dalle aule non è un gesto di rispetto verso chi non crede o crede in altro? Sembra così semplice da essere banale.

È sicuramente contraddittorio: il crocifisso non è una limitazione al pensiero di ognuno ma il fondamento stesso della libertà religiosa.

Pare questa la contraddizione…

Senza punti di riferimento non esiste un consorzio umano. La croce nelle aule delle scuole, in questo caso italiane, è una garanzia per i non credenti, che in questo modo hanno la consapevolezza che esiste un “dio buono”, quello della maggioranza dei credenti della stessa società, un dio che rispetta le coscienze altrui. L’assenza di questo simbolo può creare il rischio che venga rimpiazzato da simboli violenti.

Non si può ignorare che la storia del cristianesimo abbia molti momenti bui.

Certo, ma dal punto di vista delle istituzioni è il vero limite a ogni imperialismo religioso.

Risiamo allo scontro in Italia tra laici e cattolici, ogni occasione è buona.

Lo scontro è tra poliarchici, quelli che credono in una società aperta, come i cristiani, e i monarchici, i laicisti, che vogliono imporre una visione.

Anche nel mondo cattolico c’è chi pensa che si debba puntare alla fine a uno stato confessionale.

Ma quelli noi li condanniamo e per fortuna sono una esigua minoranza.

Il governo ha annunciato che farà ricorso.

È giusto, è in atto una battaglia sul futuro dell’Europa. La difesa della libertà religiosa è un dovere, chiunque la faccia, anche se non è un cattolico.

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La seguente “Nota” è di don Piero Cantoni

L’uso del termine “monarchico”, può indurre a pensare che il Cristianesimo e il Cattolicesimo siano ostili alla monarchia come forma di governo, il che non è evidentemente vero.Il termine “stato confessionale” è inoltre usato come se fosse qualcosa di condannabile in sé. Questo non è vero perché il concilio ecumenico Vaticano II ne ammette la legittimità: « Se, considerate le circostanze peculiari dei popoli, nell’ordinamento giuridico di una società viene attribuita ad una comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e comunità religiose venga riconosciuto e rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa » (Dignitatis Humanae, n. 6).

Lo ha ricordato esplicitamente Giovanni Paolo II ai parlamentari e ai rappresentanti del governo del Lichtenstein nel discorso dell’8 settembre del 1985. Uno stato “confessionale” cristiano sarà uno stato in cui – proprio in forza del cristianesimo a cui riconosce una posizione speciale – le altre religioni saranno rispettate.

Esso d’altronde è possibile solo in una situazione di fatto in cui la stragrande maggioranza dei cittadini è cristiana, per cui è di fatto cristiana la società, e gli aderenti ad altre religioni costituiscono una infima minoranza. Pur in quella situazione – ce lo ha insegnato il concilio Vaticano II (dichiarazione Dignitatis Humanae) – si dovranno rispettare in tutto e per tutto tali pur infime minoranze. Naturalmente entro i limiti del diritto naturale (illegittimità per es. della poligamia o della violenza religiosa comunque essa si mascheri).

Alla facile obiezione che il pensiero dei cristiani non è sempre stato così, si può rispondere sinteticamente facendo notare che una delle caratteristiche del Cristianesimo che hanno influito sulla nostra civiltà è stata proprio quella dello sviluppo, cioè la vocazione ad approfondire e sviluppare le proprie convinzioni. Il che non significa cambiarle sostanzialmente (ermeneutica della rottura) ma coglierne le virtualità più profonde e applicarle in modo nuovo alle vicende della storia (ermenuetica della riforma nella continuità). La moderna ideologia del “progresso” a tutti i costi è solo una “idea cristiana impazzita” (Chesterton)

A parte queste osservazioni, che credo comunque meritino un approfondimento, l’intervento mi pare tra i migliori finora fatti.