Le origini del sistema concentrazionario sovietico

A 70 anni dalla chiusura del campo delle Solovki e a pochi giorni dalle celebrazioni della «Giornata della Memoria» per le vittime dei Gulag (7 novembre 2009) le Edizioni Lindau presentano

IL LABORATORIO DEL GULAG

Le origini del sistema concentrazionario sovietico

gulag

di Francine-Dominique Liechtenhan

Edizioni Lindau / «I Leoni» / pp. 318 / euro 24,50 / ISBN 9788871808352 / ottobre 2009. Con la prefazione dello storico Emmanuel Le Roy Ladurie La traduzione dal francese è di Federica Giardini

«La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti fugga l’istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua ed essenziale: colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale.»

Pavel’ A. Florenskij
Dalla lettera scritta dal gulag di Solovki
alla moglie del figlio Vasilij, dopo la notizia della nascita del primo nipote,
20 aprile 1937

GulagTra i monasteri e gli eremi delle Solovki – l´arcipelago del Mar Bianco, nell´estrema parte nord-occidentale della Russia – fu creato il primo campo di concentramento sovietico, il laboratorio di quella rete di 476 campi divenuti tristemente famosi con il nome di «Gulag».

A partire dal 1923 e fino al 1939 i bolscevichi vi deportarono i «nemici» del comunismo: aristocratici, preti, «borghesi», contadini, operai, intellettuali, funzionari, artisti, quadri del Partito caduti in disgrazia… «Inventato» da Trockij, adottato da Lenin e perfezionato da Stalin, il campo delle Solovki arrivò a ospitare 70.000 detenuti e nel solo 1937 furono eseguite oltre 2000 fucilazioni.

Il modello delle Solovki (e, più in generale, il Gulag) influenzò profondamente la costruzione della società sovietica: si calcola che in quei decenni un adulto su sette trascorse almeno alcuni mesi in un campo. L´esperienza penitenziaria serviva a distruggere le «strutture» dell´epoca imperiale, a livellare le classi sociali e, soprattutto durante lo sforzo bellico, a fornire la manodopera necessaria all´industrializzazione del paese.

L´«armata del lavoro» teorizzata da Trockij nel 1918, che avrebbe dovuto fare le fortune dell´Unione Sovietica, non consistette in altro che in migliaia e migliaia di esseri umani ridotti in schiavitù, mutilati e uccisi (anche mediante l´uso, sempre negato dalle autorità, di armi batteriologiche). Fra le vittime illustri anche il grande filosofo Pavel Aleksandrovic Florenskij che vi fu rinchiuso per quattro anni.

Una cronaca cruda e documentatissima, che testimonia dell’annichilimento dell’essere umano a opera del regime sovietico.

Non esiste a oggi, in Italia, un libro così specifico sulle origini del gulag.

Da Aleksandr Solzenicyn in poi, certo, sono state condotte molte analisi storiche e scritti molti testi che hanno fatto luce sulla tragedia del sistema repressivo comunista. Tuttavia l’Autrice, la storica Francine-Dominique Liechtenhan – che qui concentra la sua analisi sul primo Gulag sovietico -, ha costruito questo libro sulla scorta di una vasta documentazione originale, resa in gran parte accessibile dall´apertura degli archivi dell´ex Unione Sovietica, e con l´ausilio di molte testimonianze inedite di prigionieri sopravvissuti e dei loro familiari, che le hanno permesso di creare un racconto diverso e specifico sulle origini del sistema.

È un contributo di eccezionale valore alla conoscenza della verità e un omaggio alla memoria delle vittime del comunismo, ancora oggi dolorosamente neglette, in Russia come in Occidente. Viene così finalmente resa giustizia alle sofferenze patite da migliaia di donne e uomini nell’orrore dei campi di concentramento sovietici, un orrore follemente uguale e diverso a quello vissuto nei lager nazisti, nei laogai cinesi, nei campi di Pol Pot…

Molti documenti presentati (testimonianze, lettere, statistiche, tabelle, articoli ecc.) sono inediti e compaiono per la prima volta nella traduzione dell´autrice dal russo o dal tedesco.

__________________

L’autrice

Francine-Dominique Liechtenhan è nata nel 1956 a Basilea e si è laureata in Storia moderna e contemporanea e in Filologia russa a Parigi, città nella quale risiede e dove insegna all´università della Sorbonne-Paris IV e all´Institut Catholique. È autrice, oltre che di numerosi saggi, dei volumi Les trois christianisme et la Russie. Les voyageurs occidentaux face à l´Eglise orthodoxe russe (XVème-XVIIIème siècle) ed Elisabeth Ière de Russie. L´autre impératrice. Questo è il suo primo libro edito in Italia.

____________________

Indice dell’opera

Prefazione di Emmanuel Le Roy Ladurie

Introduzione

IL LABORATORIO DEL GULAG

Parte prima

IL PRIMO CAMPO SOVIETICO«A DESTINAZIONE SPECIALE» 1918-1926

1. Lenin, l´iniziatore dei lager sovietici
Prigioni zariste e regime penale bolscevico
Lenin, la polizia segreta e i campi,
I campi «a destinazione speciale» del Nord
Monaci e bolscevichi alle Solovki
L´incendio del monastero: incidente o crimine?
I careliani e il campo delle Solovki

2. I difficili inizi del campo modello delle Solovki
La centralizzazione del sistema penale
Il ruolo della polizia segreta nell´economia
Il campo di transito di Kem´
Rieducazione e autogestione
Le Solovki, oggetto di una propaganda universale

3. Lo sviluppo del campo negli anni ´20
La sanguinosa repressione dei «politici»
Il primo anniversario
La partenza dei «politici»
Come colmare il baratro finanziario?

Parte seconda

ALLA RICERCA DEL MODELLO REPRESSIVO 1927-1932


1. Circoscrivere i colpevoli
Un certo articolo 58
Un sistema diversificato
La testimonianza delle statistiche

2. Solovki, l´inferno in terra
La vita quotidiana
Il calvario delle donne
Lo strano destino del clero
Servizi postali particolari
Il cibo, una preoccupazione costante
Dalla mancanza d´igiene alla malattia e alla morte
Le punizioni, una sorte quotidiana
La liberazione, un traguardo incerto

3. Gigantismo e propaganda
Manodopera per il piano quinquennale
Le ricompense del lavoratore d´assalto
Esigenze del piano e nuove strutture
Media e propaganda
Passatempi educativi per la vetrina

Parte terza

SVILUPPO SUL CONTINENTE E DECLINO NELL´ARCIPELAGO 1933-1939

1. La nascita del Gulag
Il sacrificio della Carelia,
Il grande rimaneggiamento
La comparsa del Gulag
Il Belomorkanal: un´impresa inutile
Il modello e il suo emulo: il kombinat
Mar Bianco-Mar Baltico

2. La realtà e il suo miraggio
Arrangiarsi con i mezzi a disposizione
Le devianze si moltiplicano
La letteratura in soccorso dell´ideologia
I «villaggi Potëmkin» o l´illusione di esistere Stranieri in Carelia

3. La fine del campo delle Solovki e lo sviluppo del Gulag
La svolta sanguinosa del 1937
L´eccidio della foresta di Sandormoch
Guardie alla deriva
Il Gulag alla vigilia della guerra
La memoria dimenticata

Conclusione

Appendici
Riferimenti storici
Indice dei nomi propri
Glossario
Bibliografia selezionata
Indice dei box di approfondimento

* * *
Un pagina del libro

«La vita nei campi dell´arcipelago segue tre regole: non fidarsi di nessuno, non temere nessuno, non chiedere niente a nessuno. Nel corso degli anni se ne sviluppano altre, sebbene più pericolose per gli interessati: lavorare il meno possibile, mangiare e riposare il più possibile, cogliere tutte le occasioni per riscaldarsi, non lasciarsi sopraffare, reagire subito e senza scrupoli in caso di percosse. Un indovinello diventerà celebre: «Qual è il peggior nemico del detenuto?».

Risposta: «Un altro detenuto!». Anche se questo non allevia affatto la responsabilità delle guardie, complici di tutti i crimini, nel campo una cosa è certa: il più forte detta legge e omicidi, ferimenti, furti e umiliazioni scandiscono la vita quotidiana del prigioniero. L´indifferenza, il cinismo e l´inerzia isolano l´individuo, mentre la solidarietà è casuale. Una caratteristica dei campi è quella di costringere i prigionieri a cambiare costantemente lavoro e compagni di detenzione.

Così non esiste né riposo fisico né distensione psicologica, proprio perché la «rieducazione» si fonda su una destabilizzazione permanente. Appena arrivano sull´isola, ai prigionieri vengono confiscati gli oggetti personali, abiti esclusi; segue una visita medica e, se necessario, la quarantena.

I superstiti vengono riuniti al cremlino, nella cattedrale della Trasfigurazione, dove non resta più un solo oggetto di culto e gli affreschi che non sono stati bruciati dal fuoco sono danneggiati. Solo un ritratto di Lenin adorna l´edificio. Le latrine sono ricavate dietro l´altare sprovvisto della sua iconostasi.

Le guardie dividono in categorie i tre-cinquemila uomini così ammassati e li distribuiscono nelle varie isole dell´arcipelago. I membri delle sette religiose sono addetti alla pulizia del cremlino e alla cernita dei materiali recuperabili. Gli ordini approssimativi delle guardie aumentano la confusione, tra mucchi di sbarre di ferro e di acciaio da una parte e cumuli di pietre dall´altra, mentre i rifiuti continuano a impestare l´aria. Molte testimonianze concordano sull´organizzazione della vita quotidiana, pur mantenendo una reticenza estrema sulle umiliazioni subite.

In un´ora e mezza bisogna alzarsi, fare la coda davanti alle vasche e ai gabinetti, lavarsi approssimativamente e infine fare colazione. Le guardie organizzano e sorvegliano i trasferimenti dei prigionieri: li chiamano con il loro numero, li mettono in fila per cinque e li conducono ai rispettivi cantieri o laboratori.

Gli effetti personali vengono lasciati in un deposito per evitare furti e per permettere alle guardie di recuperare «legalmente» eventuali oggetti sfuggiti alle prime ispezioni. A metà giornata è previsto un pasto frugale.

Finito il lavoro, prima di rientrare al campo i prigionieri devono ancora svolgere una serie di attività come riporre gli utensili (quando ce ne sono) o radunare qualsiasi materiale trasportabile che possa migliorare le condizioni di vita nelle baracche, ad esempio la legna per il riscaldamento. A quel punto vengono nuovamente contati e poi riaccompagnati alle porte dei loro alloggi dove sono perquisiti, quindi hanno un po´ di tempo per lavarsi (a patto che l´acqua scorra) o per dormire in attesa della cena. Prima di notte viene ripetuto l´appello.

Le poche ore di sonno sono però disturbate dai parassiti, dalla mancanza d´aria e dalle temperature invernali, così come dal respiro affannato e dai rantoli dei compagni. Inoltre, un viavai permanente impedisce un vero riposo ristoratore, poiché i prigionieri non vengono alloggiati in camerate diverse a seconda dei loro orari di lavoro.

A questo va aggiunto che le guardie non esitano a svegliare le loro vittime in piena notte, senza una ragione apparente. La maggioranza dei detenuti è accampata nelle chiese e negli eremi, mentre nelle sale del monastero vengono disposte fino a quattro pareti divisorie. D´inverno il freddo li spinge a formare dei «gruppi di riscaldamento»: quattro o cinque uomini si coricano il più vicino possibile, addirittura si ammucchiano, per non morire di freddo.

I privilegiati vivono in baracche di varia costruzione, che ospitano da cento a seicento prigionieri: alcune dispongono di latrine, altre di stanze destinate ai più vecchi o allestite per i cosiddetti «lavoratori d´assalto» [dal russo udarnik, termine utilizzato per indicare i prigionieri che superano la norma produttiva e dunque vengono premiati con una razione alimentare supplementare e altri privilegi. In seguito, i «lavoratori d´assalto» verranno chiamati stacanovisti, in onore del minatore Aleksej Stachanov famoso per la sua eccezionale produttività, N.d.T.].

Nel corridoio una o due tinozze consentono di lavarsi. Quando le latrine ghiacciano, uno di questi recipienti funge da gabinetto. La pulizia delle baracche è affidata ai detenuti, i quali non sono necessariamente raggruppati in base alla loro categoria poiché mescolare i criminali con «borghesi» o intellettuali paralizzati dalla paura genera senza sosta malintesi e conflitti che fanno il gioco delle guardie.

In queste baracche i prigionieri dormono in otto su giacigli di legno, alternandosi uno dalla parte della testa e l´altro da quella dei piedi per mancanza di spazio. I ritardatari che rimangono senza posto si accontentano di dormire per terra. Al personale tecnico, invece, sono riservati i vagonka: tavole grezze fissate alle pareti divisorie. La squadra di sorveglianza occupa la parte riscaldata della baracca, a cui hanno diritto anche i lavoratori d´assalto che in più ricevono della paglia, dei materassi e delle coperte o, a volte, un semplice sacco.

Gli alloggi più miseri sono destinati agli invalidi, ai feriti o ai convalescenti.

L´elettricità manca ovunque, e al suo posto si utilizzano rudimentali lampade a petrolio che riflettono una luce lugubre. Le baracche sono riscaldate con grossi serbatoi di benzina usati come fornelli o da stufe cilindriche di ghisa, entrambi molto pericolosi.»