La Turchia musulmana clandestina in Europa

Santa Sofiapubblicato su Libero il 14 maggio 2009

L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea rappresenta uno dei primi e più scottanti problemi sul tappeto della politica internazionale.

di Roberto de Mattei

Nel vertice del 5 aprile 2009, a Praga, il nuovo presidente americano Barack Obama, pur sapendo quanto sia controversa la questione turca, ha insistito con forza perché l’Europa apra le sue porte al governo di Ankara. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno espresso, con altrettanta chiarezza, la loro riluttanza di fronte a questa prospettiva.

La posizione dei due governi centro-europei costituisce un importante fatto nuovo, rispetto al dicembre 2004, quando, con l’appoggio determinante del presidente francese Jacques Chirac e del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, fu stabilito ufficialmente il calendario dei negoziati con la Turchia, tuttora in corso.

Le voci dell’allora cardinale Ratzinger, che definiva «antistorico» l’ingresso della Turchia in Europa, e del presidente della Convenzione Valéry Giscard d’Estaing, che definiva il possibile evento come «la fine dell’Unione Europea» rimasero isolate. Il governo di Silvio Berlusconi, allora e oggi, si è schierato su posizioni “turcofile”, assolutamente non comprese dall’elettorato del Popolo della Libertà.

Alcuni miti da sfatare

Le ragioni che vengono addotte a favore dell’adesione turca all’Ue sono principalmente di natura economica e politica: esse vanno dall’importanza di un maggiore e più sicuro approvvigionamento energetico alla necessità di allearsi con l’islam «moderato» turco, contro il fondamentalismo islamico. Contro queste ragioni, ne militano tuttavia altre ben più cogenti.

Le esprime bene Alexandre del Valle, uno studioso italo-francese, consulente di alcuni uomini politici europei, che ha al suo attivo una serie di importanti volumi tra cui Le totalitarisme islamiste à l’assaut des démocraties (2002) tradotto in Italia.

Uno dei primi miti da sfatare è quello della Turchia “laica” e filo-occidentale. È vero che in Turchia, dopo la Prima guerra mondiale, si è instaurata, sulle rovine dell’Impero ottomano, una Repubblica di impronta fortemente laicista, guidata dal generale Mustafa Kemal, che nel 1934 ha ricevuto il titolo di Atatürk, «padre dei turchi».

Da allora, il processo di secolarizzazione del paese avviato da Atatürk ha preso il nome di kemalismo ed è continuato, dopo la sua morte, sotto il pugno di ferro dei militari. Ma a partire dagli anni Settanta, sotto l’influsso dei Fratelli musulmani, ha avuto inizio un processo di reislamizzazione del paese, culminato nel 2002 con l’ascesa al governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdogan.

Il volto “moderno” e “laico” della Turchia kemalista non corrisponde più alla realtà odierna. A partire dagli anni Novanta, l’islamismo si è imposto sulla scena politica turca. I capi di governo e di Stato che oggi guidano il paese, Erdogan e Abdullah Gül, sono due discepoli di Necmettin Erbakan, l’artefice di un movimento di reislamizzazione che travalica i confini della Turchia e si estende a tutta l’emigrazione turca in Occidente.

Non a caso, la Turchia, presunto paese del laicismo, è oggi uno dei paesi dove si costruiscono più moschee e dove i partiti islamici registrano i maggiori successi elettorali. La reislamizzazione della società è visibile a tutti i livelli.

Nel paese sono 90.000 gli imam stipendiati dallo Stato e 85.000 le moschee attive, una per ogni 350 cittadini: il più alto numero pro capite di moschee nel mondo. Parallelamente alla ricomparsa del velo nelle strade e nei luoghi pubblici, la chiamata del muezzin in arabo, un tempo proibita da Atatürk, scandisce ormai le giornate dei turchi, all’ombra dei minareti.

La Turchia odierna vive un’insanabile contraddizione. L’Unione Europea richiede, come condizione per il suo ingresso nelle istituzioni comunitarie, l’allineamento ai «criteri di Copenaghen» e agli «standard democratici» occidentali violati dall’arbitrio di potere dei militari; ma la ragione per cui oggi la Turchia non è un paese totalmente islamico è proprio il fatto che l’esercito si fa garante del suo secolarismo.L’unico freno alla islamizzazione viene dalla nomenklatura militare, fedele all’eredità kemalista. Se la coercizione dell’esercito venisse meno, cadrebbe l’unico argine contro il fondamentalismo.

L’incerta alleanza geopolitica

I fautori dell’entrata della Turchia nell’Unione Europea sostengono che la Turchia sarebbe un alleato naturale dell’Occidente contro l’islamismo. Ma nella misura in cui la Turchia si democratizza è destinata ad abbandonare il secolarismo.

L’Unione Europea avrebbe tra i suoi Stati membri un paese pienamente islamico, proprio grazie al rispetto delle regole democratiche, che in Turchia porterebbero rapidamente al potere il fondamentalismo. Oggi, l’interesse di Erdogan sembra proprio quello di servirsi dell’Unione Europea per poter smantellare il potere dei militari e permettere alla Turchia di ritrovare la sua identità islamica, cancellata da Atatürk.

Quel che è certo è che, con o senza Erdogan, la Turchia postkemalista si affermerebbe come il paese leader del mondo islamico all’interno dell’Unione Europea, dove giocherebbe un ruolo da protagonista.Il Progetto di Trattato costituzionale attribuisce infatti agli Stati europei un peso politico proporzionale a quello demografico. Nel 2015 la Turchia, con 90 milioni di abitanti, sarebbe il paese più popolato dell’Unione Europea e quello che avrebbe il maggior numero di parlamentari. Attorno alla Turchia si coagulerebbero i musulmani, non solo turchi, di tutta Europa.

Il ruolo chiave di Israele

L’Unione Europea avrebbe tra i suoi Stati membri un paese pienamente islamico, proprio grazie al rispetto delle regole democratiche, che in Turchia porterebbero rapidamente al potere il fondamentalismo. E la Turchia rappresenterebbe un’enclave islamica in Europa, non attraverso le sue minoranze immigrate nel continente europeo, ma in quanto Stato dell’Unione, sullo stesso piano degli altri paesi che ne sono membri.

La Repubblica turca potrebbe rivendicare il diritto a guidare il Parlamento e la Commissione europea e, dall’alto di questo ruolo, pretendere l’adozione di misure repressive contro ogni forma di “islamofobia”, favorendo così la trasformazione del continente europeo nella “Eurabia” prevista dalla voce solitaria di Oriana Fallaci.

Intanto la Turchia di oggi non solo si rivela incapace di proteggere le sue minoranze religiose, ma di fatto le sopprime. Formalmente vige la libertà di culto, ma i cristiani vivono in una situazione di “dhimmitudine”, ossia di sostanziale sottomissione all’islam. I loro diritti sono conculcati e le loro vite spesso messe in pericolo. L’isolamento, l’intimidazione politica e psicologica, la persecuzione religiosa costituiscono l’esperienza quotidiana dei cristiani al di là del Bosforo.

La richiesta della Turchia di entrare in Europa non deve essere necessariamente interpretata come un cambiamento nella sua storia o come una scelta di “europeizzazione” dei suoi costumi e delle sue istituzioni. Il progetto di Erdogan, descritto da Alexandre del Valle, è quello di affermare fortemente l’identità turca in Europa e fuori di essa, grazie alla forza della “diagonale” o “dorsale verde” che dalla Bosnia arriva alla Tracia orientale.

Il ruolo di “bastione dell’Occidente” nel Medio Oriente che negli anni Cinquanta sembrava svolgere la Turchia, oggi è svolto dallo Stato di Israele. Ma se nel 1994 l’élite kemalista, che si proponeva di fare della Turchia un paese “occidentale” nell’ambito del mondo islamico, favorì la ratifica di un accordo di cooperazione militare con Israele, nel febbraio 2009 il premier Erdogan ha insultato pubblicamente lo Stato di Israele, in occasione del Forum di Davos, e al suo ritorno in patria è stato accolto come «il nuovo Saladino» e il simbolo dell’orgoglio musulmano da una folla che sventolava bandiere turche e palestinesi.

Lo scontro delle civiltà

Alexandre del Valle, per il suo approccio geopolitico al problema della Turchia e, più in generale, a quello del rapporto tra Europa e islam, può essere ascritto alla scuola di Samuel P. Huntington, l’autore del celebre Lo scontro delle civiltà, morto il 24 dicembre 2008.

Come Huntington egli sottolinea giustamente l’importanza dell’identità nei processi politici. Ma il limite del suo orizzonte, come nel caso dello studioso americano, è nell’assenza di riferimento a un ordine metafisico di valori universali che fondi e orienti la vita politica internazionale.

Il vero problema, in questo senso, più ancora che la minaccia della Turchia all’equilibrio politico europeo, è la perdita delle radici cristiane del nostro continente. Del Valle ci aiuta a impostare questo tema cruciale.