That’s America, boys

RomneyIl Domenicale, 2 febbraio 2008

Mentre la dinastia Bush s’avvia sul viale del tramonto, rispunta la famiglia Clinton. Anche molti conservatori “puntano” su Hillary, considerata il meglio del peggio. Non a caso, il Grand Old Party rischia di trovarsi con un candidato presidente debole e senza neppure l’appoggio della Destra, che sembra rassegnata a ritornare a essere opposizione culturale. Perché perfino in un Paese laico come gli Stati Uniti i temi etici restano comunque decisivi. Il GOP piange, ma nemmeno i Democratici ridono. Eppure esiste un popolo enorme che attende solo che qualcuno levi una bandiera. Piccolo diario di viaggio americano

di Marco Respinti

Spring Grove, Pennsylvania, 20 gennaio. Mitt Romney, il miliardario mormone, ha smosso un po’ le acque stagnanti delle primarie Repubblicane ottenendo un buon successo elettorale nel Michigan il 15 gennaio. Be’, se non fosse riuscito a sfondare nemmeno lì, nel suo Stato natale, sarebbe stato davvero il colmo. E questo significa pure che, nonostante l’unica sorpresa possibile sia ancora proprio Romney, la gara nel Grand Old Party (alias il Partito Repubblicano) dovrebbe rimanere confinata a John McCain e a Rudolph Giuliani – sempre che Giuliani entri una buona volta in corsa.

Nella provincia profonda della Pennsylvania, due orette a nord di Washington, Michael Drake, uno dei leader della Società nordamericana per la difesa di Tradizione, Famiglia e Proprietà, mi dice però di non credere affatto in Romney. «Certo oggi parla da conservatore; ma fino a poco tempo fa parlava da liberal. Ha cambiato idea, bene. Ma chi si fida?».

Drake dice invece bene del Repubblicano Alan Keyes (nero, cattolico, conservatore inossidabile, che nelle primarie di quest’anno corre ma senza speranze di vittoria). Ricorda uno show televisivo  in cui riuscì a far perdere le staffe a McCain. Questi aveva appena finito di dire in pubblico che, nel caso sua figlia fosse incorsa in una gravidanza indesiderata, lui non le avrebbe consigliato né di portarla a termine né d’interromperla, aggiungendo però che avrebbe rispettato qualsiasi decisione la ragazza avesse autonomamente assunto.

Ebbene Keyes, con calma glaciale, ribattè più o meno così: senatore, se sua figlia le dicesse che sta per uccidere la propria madre, lei risponderebbe che né la incoraggerebbe né la dissuaderebbe, salvo poi rispettare qualsiasi decisione ella prendesse da sola? McCain andò su tutte le furie. Notoriamente irascibile, per molti elettori è inadatto a guidare una nazione.

Né Keyes pensa davvero di spuntarla. Del resto non gl’importa. Ciò che cerca di fare, anno dopo anno, primarie dopo primarie, è spostare il discorso politico a destra.

Negli States però è percezione diffusa che alla fine la Casa Bianca andrà a Hillary Clinton. Non tutti se ne rammaricano, peraltro, nemmeno tra i conservatori. L’ex First Lady è infatti la peggiore cosa che, rebus sic stantibus, possa accadere al Paese. Ma qui esiste una legge non scritta che viene verificata piuttosto puntualmente dai fatti. Due anni dopo le presidenziali, gli USA votano per rinnovare una parte cospicua del Congresso nelle mid-term elections. Normalmente accade che vince (anche se ciò tollera vistose eccezioni) il partito avversario di quello che esprime il presidente in carica.

Ecco, se nel prossimo autunno la Clinton diventasse presidente, probabilmente nel 2010 il Congresso diventerebbe Repubblicano, e magari pure di più, con i cittadini schifati che potrebbero persino scegliere i più conservatori fra gli uomini messi in campo dal GOP. Chi oggi dice così, si spiega subito aggiungendo che è il Congresso quello che fa le leggi in questo Paese e che quindi la sua importanza supera, in alcuni ambiti, persino quella della Casa Bianca. Magra consolazione forse, ma realistica, anche se non è un buon segno.

Arlington, Virginia, 21 gennaio. «Credo che Hillary Clinton vincerà le primarie del Partito Democratico e che alla fine riuscirà pure a conquistare la Casa Bianca. Non me lo auguro di certo, ma temo che quest’anno finirà proprio così». Ci risiamo.

Chi mi ridice queste cose è Philip C. Bom, docente alla Robertson School of Government della Regent University di Virginia Beach (quella, protestantissima, fondata da Marion Gordon “Pat” Robertson, il telepredicatore che anni fa inventò la Christian Coalition). Nato nei Paesi Bassi, è cittadino degli Stati Uniti da diversi anni. Ph.D. in Scienze sociali all’Università Libera di Amsterdam, è stato a lungo consigliere di numerosi parlamentari canadesi prima di unirsi al corpo docente della Regent.

Per Bom – che mi confessa tutta la propria delusione e il proprio rammarico preventivi – le elezioni sono già segnate. «Penso – commenta – che alla fine l’ex First Lady otterrà la nomination Democratica, probabilmente scegliendo poi Obama come potenziale vicepresidente (una via apparentemente piuttosto obbligata), e che alla fine questo ticket ce la farà».

E i Repubblicani, professor Bom: già defunti prima ancora di partire sul serio? «Be’, è doveroso attendere i risultati del super-martedì, il 5 febbraio, ma in un certo senso sì, credo sia proprio così. Troppe divisioni fra i Repubblicani, anzi troppa confusione. E la Destra manca oggi di un vero candidato che ne incarni pienamente, convintamente tutte le aspettative, e che in più abbia pure possibilità concrete di vincere».

Di parere non dissimile è Christopher H. Smith, deputato Repubblicano conservatore del New Jersey, uno dei più noti e combattivi pro-lifer che gli USA conoscano a livello politico. Smith trema al solo pensiero di chi sarà il prossimo presidente di questo Paese, qualsiasi sia il partito che lo esprimerà. «Nessuno dei candidati maggiori, quelli che hanno cioè maggiori possibilità di essere eletti – afferma il deputato –, segue una linea politica condivisibile su fondamentali temi di natura etica».

Smith, forte di una pluriennale esperienza internazionale in difesa della vita, punta il dito contro i grandi organismi che oggi costituiscono nel mondo una vera e propria macchina da guerra neomalthusiana, la Planned Parenthood (che il deputato del New Jersey definisce nientemeno che una multinazionale per l’abuso sui minori…), l’UNFPA (l’agenzia delle Nazioni Unite per la popolazione mondiale), Amnesty International e Human Rights Watch, queste ultime note associazioni per la difesa dei diritti umani che di recente hanno capitolato di fronte alle sirene della cultura abortista, facendola propria.

Ebbene, questo mondo, potente, ricco e ben strutturato, avrà certamente – dice Smith senza mezzi termini – un grande alleato nel prossimo inquilino della Casa Bianca.

Washington, D.C., 22 gennaio. Al Gore annuncia l’apocalisse prossima ventura per colpa del riscaldamento globale del pianeta, ma qui fa un freddo polare. Victoria’s Secret è il profumo più trendy del momento, ma anche in saldo costa un botto.

Sulla Constitution Avenue della capitale federale sfilano più di 300mila persone contro l’aborto – come tutti gli anni da 35 anni –, ma i cronisti dei giornali hanno altro da fare. Eppure se c’è un tema che, come sempre in questo Paese, tiene banco anche in politica – soprattutto in politica, in tempi forti di elezioni – questo è proprio quello del diritto alla vita, e vita full-scale, ossia dal concepimento (aborto, embrioni, cellule staminali) alla morte naturale (eutanasia), passando per i desideri di manipolazioni varie (clonazione).

Evitare d’incrociare lo sguardo di quel tizio che riesce a tenere diritto lo stendardo nonostante il vento è praticamente impossibile. Allora avanzo, e ci stringiamo la mano. «How’re’ou’oing today?». Si ripara dal freddo con un giaccone in goretex, ma invidia il mio sciarpone bianco. Anche lui ha però qualcosa che gl’invidio io. Sfoggia infatti un bel tricorno di feltro nero, il cappello che si usava alla fine del Settecento. Lo porta con lo stesso piglio e il medesimo orgoglio dei minutemen a cui s’ispira, ossia la task force della milizia cittadina dell’epoca coloniale che durante la guerra d’indipendenza nordamericana fece voto di essere pronta alla battaglia anche con un solo minuto di preavviso.

Da sempre è l’emblema di ciò che qui chiamano “spirito del 1776”: self-government, liberty, independence, insomma tutti gli USA in un guscio di noce. Altrimenti detto è  «We the people», l’incipit della Costituzione, che tradotto in linguaggio conservatore suona “Right Nation”.

L’uomo con il tricorno ostenta la sua causa. «Ron Paul 2008». Be’, dire che d’acchito la cosa comunque non mi meraviglia sarebbe mentire. Io e il tizio con il tricorno ci troviamo infatti nel bel mezzo della Marcia per la Vita.

Qui, peraltro, gli unici cartelli o striscioni che direttamente sponsorizzano un politico impegnato nelle primarie sono appunto quelli dei supporter di Ron Paul. Striminzita eccezione la fanno un paio di button inneggianti a Mike Huckabee, per il resto il deserto. L’anno scorso la 34a Marcia per la Vita pullulava di sostenitori di Sam Brownback, il deputato Repubblicano conservatore del Kansas che conquistò il cuore dei pro-lifer ma che quest’anno è uscito prestissimo dalle primarie.

Ma la notizia vera è appunto il buon Ron Paul. Perché Ron Paul corre nel Partito Repubblicano ma è un libertarian irriducibile, e il Libertarian Party (una formazione minore e controversa) gli ha già offerto di correre per la Casa Bianca come proprio front-runner una volta concluse (presumibilmente male) le primarie Repubblicane.

Ora, questa notizia è una notizia perché quando si dice libertarian alzi la mano chi non fa subito l’equivalenza con libero pensatore, libertino, radicale. E invece no, almeno non negli States.

L’uomo con il tricorno sottolinea che l’unico davvero credibile sul diritto alla vita è Ron Paul. Subito dopo mi ricorda che Ron Paul è anche a favore del ritorno al gold-standard per il dollaro, contro le limitazioni al porto e all’uso personale delle armi, e pure che è contro il Patriot Act e la guerra in Irak. E io penso: «Ci siamo, qui casca l’asino, ecco il tipico argomento libertarian».

Ma lui aggiunge: «Cosa abbiamo fatto con Baghdad? Abbiamo esportato il nostro materialismo immorale invece che l’autentico spirito cristiano degli USA…». Come, come? Parlo sempre con il fan di un libertarian tutto dollari e capitalismo, e questo è uno che ce l’ha con la guerra in Irak (e sul punto si può anche dissentire alla grande) perché pensa che l’Occidente dovrebbe farsi evangelizzatore oltre che crociato?

Arriva un collega dell’uomo con il tricorno; mi chiede di pregare per gli USA perché l’olocausto dell’aborto li stanno consumando e per Ron Paul perché cerca di metterci una pezza. A questo punto prendo gli ultimi residui di pregiudizio che mi erano rimasti su questo Paese e li butto come una palla di carta straccia nel primo cestino del parco che incontro.

Certo, dire che tutti i pro-lifer sostengono Ron Paul è dire una scemenza, ma constatare che Ron Paul è l’unico candidato per il quale un numero consistente di pro-lifer si spende in un vistoso sostegno politico, e in un posto particolare qual è la Marcia per la Vita, è un dato di fatto significativo con cui fare i conti.

E il secondo dato di fatto con cui fare i conti è che Ron Paul si è presentato in pubblico davanti ai pro-lifer della Marcia per la Vita, e che è stato l’unico uomo politico oggi in corsa per la Casa Bianca a farlo (senza dimenticare il grandioso discorso pronunciato dal presidente George W. Bush jr. a 200 attivisti riuniti per la colazione appena prima della Marcia).

Ah, quasi scordavo. Ron Paul è un professionista prestato (anche se a lungo) alla politica. Di suo è medico, per l’esattezza ginecologo (durante la guerra del Vietnam faceva il chirurgo per i servicemen dell’Aviazione).  La sa bene e lunga, insomma, sull’aborto. Alla fine me lo regalano quel bel tricorno di feltro nero che porta appiccicato sopra l’adesivo con il nome del ginecologo libertarian antiabortista che vorrebbe fare il presidente degli americani…

Arlington, Virginia, 24 gennaio. I conservatori finiranno per votare il meno peggio e per alcuni questo significa comunque scegliere McCain. Lo sostiene per esempio Austin Ruse, uno dei più famosi e combattivi leader del mondo pro-life americano; anche perché, eventualmente, contro la Clinton qualche chance McCain l’avrebbe. Per tipi come Ruse, McCain resta peraltro il meno peggio perché è un uomo risoluto e astuto, e tutte le volte che si è trattato di votare in Senato si è istintivamente pronunciato nella direzione giusta. Molti, moltissimi, però, dissentono, e a gran voce.

Delle primarie qui si parla ovviamente di continuo. L’attenzione è ora tutta concentrata sulle conseguenze dello scontro televisivo fra Hillary Clinton e Barack Obama, consumatosi in diretta CNN il 21 gennaio e in Italia certamente non percepito allo stesso modo che qua.

Intendiamoci, quello che è successo fra i due maggiori candidati Democratici (c’era anche John Edwards, ma non se lo ricorda nessuno) al Palace Theatre di Myrtle Beach, in South Carolina, è cosa che alle nostre latitudini fa scappare da ridere, roba che si vede tutte le sere a ogni talk-show, e ripetutamente, facendo zapping qua è la. Ma negli Stati Uniti è diverso.

Quando uno alza la voce in tivù, o si sganghera oltre le studiate e scontatissime posture pubbliche, viene preso per matto, la gente prende le distanze. Negli USA si ricordano ancora tutti (noi manco lo sappiamo) della performance del Democratico Howard Dean dopo il successo nelle primarie dell’Iowa nel 2004, quel discorso da invasato e quell’urlo finale che lo fregarono per il resto delle elezioni.

Ora, l’alterco e le reciproche occhiate di sufficienza, le accuse incrociate e i gesti di stizza fra la navigata Hillary e il giovane Barack Hussein stabiliscono infatti un punto fermo, probabilmente pure di non ritorno. Se Hillary otterrà la nomination Democratica (non è infatti che l’endorsement del clan Kennedy faccia poi così bene al suo avversario di partito), è inverosimile che il running-mate per la vicepresidenza possa essere Obama, come peraltro persino un commentatore accorto qual è il professor Bom riteneva alla vigilia della faida.

Questo l’ex presidente della Camera, il Repubblicano Newt Gingrich – il cui Real Change: From the World That Fails to the World That Works (Regnery), lanciato martedì 15, è ora in tutte le vetrine – lo ha detto e ripetuto dagli schermi della Fox. E ha ragione. Il gioco delle parti tipico delle primarie, sempre poi seguito da un inossidabile centralismo democratico che fa convergere tutti gli ex nemici sul candidato presidenziale scelto dal partito, è, per i Democratici, probabilmente bell’e morto. Se ieri Obama era una pedina in un meccanismo più grande, forse persino di lui, oggi è certamente una spina nel fianco della Clinton. I Repubblicani si fregano le mani.

Washington, D.C., 25 gennaio.  Come vota allora la Destra conservatrice? Per ora in ordine sparso. Tanti si sono infiammati per Mike Huckabee, l’ultimo venuto che però ha saputo conquistare i cuori di chi crede soprattutto nel suo messaggio forte e chiaro su temi pro-life. È il caso di una certa parte della cosiddetta Religious Right, nonché di quel pezzo di mondo “paleoconservatore” che ruota attorno all’opinionist Patrick J. Buchanan e alla rivista da lui fondata The American Conservative (un’altra parte di questo mondo tifa però per Ron Paul).

National Review, invece, il quindicinale storico del fusionismo conservatore, sceglie senza mezzi termini Romney. Una decisione forte, magari pure un tantino controversa, per quello che per molti versi è il crogiolo del “movimento”, un periodico di suo mai settario ma costantemente identificato come cattolico, un po’ per via di William F. Buckley jr. (suo fondatore  nel 1955, suo direttore fino al 1990, suo controllore fino al 2004), un po’ per l’universalità del suo tratto.

NR è la testata che a suo tempo mise a disposizione di Barry M. Goldwater un proscenio impagabile e una constituency fedele, e che successivamente puntò tutto su Ronald W. Reagan (anzi fu Reagan a piegarsi sul suo mondo, quando nel dicembre 1964, un mese dopo la sconfitta elettorale di Goldwater, propose dalle sue pagine un patto d’acciaio con la Destra che poi non ha mai infranto). Il suo appoggio incondizionato a  Romney pesa dunque come un macigno: condizionerà il comportamento di una parte sostanziosa del mondo conservatore, riecheggerà per anni negli studi degli storici.

Lo staff direttivo della “casa comune” (mediaticamente parlando) dei conservatori spiega la scelta in modo netto e preciso . «Il nostro principio guida è sempre stato quello di scegliere il candidato più conservatore con il maggior numero di possibilità di vincere. A nostro giudizio questo candidato è Mitt Romney.

Diversamente da alcuni altri candidati in gara, Romney è conservatore da ogni punto di vista: si schiera per l’economia libera di mercato e per il concetto di governo limitato, per cause morali quali il diritto alla vita e la preservazione del matrimonio, nonché per una politica estera basata sull’interesse nazionale». Punto.

Vale la pena rileggere con attenzione: Romney – dice NR ai conservatori – non sarà il top, ma fra gli uomini che oggi corrono per la casa Bianca è l’uomo cui spetta la precedenza perché viene da destra. Fra le possibili scelte della Destra, Romney è quello che ha più chance: quindi per NR non è solo il gol della bandiera ma una tattica meditata. Chissenefrega se è mormone, meglio un mormone che fa cose buone di certi cattolici (ve lo ricordate JFK, sapete che tecnicamente anche Giuliani è cattolico?).

Washington, D.C., 26 gennaio. È ora di tornare a casa. Per una settimana ho girato la capitale di un Paese fermo nei suoi credo e disorientato nelle scelte politiche. Otto anni di presidenza forte qual è stata quella incarnata da Bush jr. lasciano il segno, forse pure il vuoto. Navigazione a vista, quindi? Non proprio. Mi risuonano nella mente le suggestioni che ho ascoltato nei giorni scorsi da due vecchie volpi della politica Repubblicana, che al contempo sono due insider di gran pregio nell’universo conservatore: Paul M. Weyrich e Morton C. Blackwell.

Il primo è il fondatore e presidente della Free Congress Foundation di Washington, il secondo il fondatore e presidente del Leadership Institute di Arlington, in Virginia – hai detto cotiche… –, raramente in disaccordo (come amano dire), di rado sopra le righe nelle valutazioni (come amo aggiungere).

Andrà a finire – dicono – che tutto si giocherà direttamente nella Convention Repubblicana di settembre, con un GOP privo un candidato finale unitario. Lì allora la parte del leone la faranno i delegati più vicini alla base, cioè alla gente. Le sorprese, e forse pure grosse, potrebbero non mancare. E se alla fine prevalessero i liberal, la “Right Nation” si trincererà in una ferma opposizione di tipo culturale ed educativo. Come ha sempre fatto. Potrebbe essere persino questo il lascito più importante dell’era Bush.

(A.C. Valdera)