Le radici della violenza

Kenia_disordiniL’Osservatore Romano, 30 gennaio 2008

di Giuseppe Caramazza

Sulla stampa internazionale, le violenze che stanno scuotendo il Kenya vengono ancora definite in rapporto alla vertenza elettorale, apertasi alla fine di dicembre nel paese africano. In realtà non si dovrebbe confondere la protesta politica con le uccisioni che avvengono soprattutto nella Rift Valley, la regione che spacca il paese in due, da nord a sud.

Né si dovrebbe far dimenticare le centinaia di persone uccise e gli oltre 250.000 sfollati interni, per lo più ospitati da parrocchie e conventi. È peraltro vero che un nesso tra crisi politica e violenze esiste.

Durante la campagna elettorale, l’opposizione politica ha spesso detto che, una volta al potere, avrebbe dato vita alla politica del majimbo. È questo un termine swahili che potremmo tradurre con regionalizzazione. La Chiesa cattolica, come altre confessioni cristiane, si è subito detta contraria. Perché?

Al tempo del colonialismo, gli inglesi hanno diviso il paese secondo linee tribali, non sempre in linea con i territori davvero controllati dalle varie etnie. Si è arrivati così a una rigida divisione territoriale che è stata poi adottata dalla nascente repubblica del Kenya. Non va dimenticato che quando gli inglesi hanno preso il controllo del Kenya, essi hanno voluto vedere nella società africana una realtà ferma da secoli, mentre c’erano popolazioni in movimento e, in alcuni casi, territori comuni che venivano sfruttati in maniera diversa da due o più gruppi etnici.

Non va poi dimenticato che la popolazione del Kenya di duecento anni fa era una piccola frazione di quella odierna. I confini di ieri sarebbero improponibili oggi. Con l’indipendenza, l’amministrazione centralizzata inglese è continuata, e anzi si è rafforzata durante gli anni della semidittatura del presidente Daniel Toroitich Arap Moi.

I fautori del majimbo vogliono restituire alle regioni il diritto di amministrare le proprie risorse. Il governo non ha accettato questa tesi. Le Chiese si sono schierate contro l’idea perché nasconde il seme terribile del tribalismo.

Già nel passato l’ex presidente Moi ha usato questa carta per rafforzare la sua posizione presso le etnie della Rift Valley. Ogni volta che ha voluto impaurire i residenti non originari della zona, li ha minacciati proprio con il majimbo. Il messaggio era chiaro. Chi non è originario di un luogo non ha il diritto di vivervi e di avervi delle proprietà. Questo va contro il dettame costituzionale che vede il Kenya come un paese unitario e che dà ai kenyani il diritto di vivere ovunque all’interno dei confini della nazione. Si tratta di principi non facilmente recepiti da molti che ancora oggi percepiscono come luogo d’origine il territorio ancestrale quale era stato delineato dall’amministrazione coloniale.

Dopo il pasticcio delle elezioni presidenziali del 27 dicembre scorso, in varie zone della Rift Valley alcuni membri delle etnie locali hanno visto la possibilità di cacciare gli “stranieri” e impossessarsi delle loro terre e altri beni. È chiaro che l’etnia più colpita sia quella dei kikuyu. Essi sono il gruppo etnico più grande, il loro territorio ancestrale è inadeguato per accoglierli tutti, e così molti kikuyu hanno acquistato terreni nella Rift Valley e li hanno trasformati in fattorie modello.

Ma non si tratta solo di kikuyu. I luya sono stati presi di mira nella zona di Eldoret, i kamba vicino a Nakuru, i kisii a Kipkelion. Non ci si poteva aspettare che i kikuyu rimanessero con le mani in mano e infatti ci sono state violenze a Nakuru e Naivasha, città a maggioranza kikuyu.

Non va dimenticato come i fatti peggiori siano accaduti proprio dove da anni si vive l’insicurezza. Gli scontri di Londiani, Molo, Cherengani hanno oggi un che di sinistro, dopo che in queste zone ci sono state violenze simili quasi continuamente negli ultimi cinque anni. Non si tratta quindi di una nuova tensione, ma dell’esplosione di una violenza che ha radici antiche.

Negli ultimi giorni, inoltre, il gruppo di difesa dei diritti umani Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui afferma che i politici dell’Orange Democratic Movement, il partito di opposizione, hanno fomentato l’odio etnico in molte zone, hanno raccolto fondi per l’acquisto di armi e hanno chiesto ai residenti di scacciare i membri di altre etnie dalle loro terre. Nuove investigazioni faranno più luce su queste accuse. È chiaro però che il majimbo è stato invocato dall’opposizione e che questa ha un debito di coscienza sulle violenze degli ultimi giorni.

A Nairobi le manifestazioni politiche sono rientrate, per dare spazio a varie iniziative di mediazione. Le baraccopoli, che su meno del 10 per cento del territorio urbano ospitano la maggioranza della popolazione, sono tenute sotto controllo. Finora, non si è riusciti a portare governo e opposizione allo stesso tavolo. L’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan ha lavorato seriamente nei giorni scorsi ed è riuscito a far aprire spiragli di dialogo. I vescovi hanno incoraggiato Kofi Annan a continuare sulla strada intrapresa e hanno invitato il presidente Mwai Kibaki e il leader dell’opposizione Raila Odinga a dare spazio al dialogo.

Il dialogo tra le parti in causa è sempre stato la soluzione adottata dai kenyani per dirimere questioni tra due rivali. Tuttavia, le violenze e le pubbliche accuse scambiatesi tra le due parti rischiano di frenare il processo e di togliere lucidità ai contendenti. Qualunque sia la soluzione politica, è chiaro che i grandi temi su cui si dovrà lavorare sono quelli irrisolti durante il precedente governo di Kibaki: distribuzione equa delle terre e accesso di tutti alle risorse del paese, crescita del senso civico della popolazione e suo diritto a partecipare al dibattito politico.

(A.C. Valdera)