I nipoti di Rodano

Lama_Agnelli

Luciano Lama, leader Cgil, e Giovanni Agnelli

Il Giornale 29 gennaio 1995

Compromesso storico

Arturo Gismondl

l compromesso storico nella versione utopica di Franco Rodano, e un po’ anche di Berlinguer, non vide mai la luce. Rodano immaginava una società austera, e felice della sua povertà, nella quale i conflitti erano destinati a comporsi nell’incontro di due ideologie salvifiche, una di tipo trascendentale, l’altra terrena. Rappresentata, quest’ultima, da un partito che lo stesso Rodano aveva definito, decenni prima, gladius Dei.

Di questa utopia non è rimasta traccia se non negli slanci suicidi di una parte dell’attuale Ppi, le Rosy Bindi per intenderci, perfettamente previsto da Rodano nel suo libro più famoso («La questione democristiana e il compromesso storico») nel quale si sosteneva che compito ultimo del partito dei cristiani era quello di consentire l’avvento della «società operaia». Una versione mite, nelle intenzioni di quel galantuomo che era Franco Rodano, di altre utopie che miti non furono affatto.

Ci sono però forme italiche di compromesso storico sopravvissute alla crisi dell’idea-madre, e alla sua realizzazione pratica, la solidarietà nazionale fallita già alla fine degli anni 70. Le Usl, la tripartizione delle reti televisive, il famoso consociativismo coi due milioni di miliardi di debiti resteranno, temo, a ricordo imperituro di quella stagione. Che ha i suoi nipotini, da Rosy Bindi a Mattarella, ai padri gesuiti trasformati dalla nostra sinistra, per la pri­ma volta nella Storia, ih campioni del progresso.

Ma c’è un altro compromesso storico, sopravvissuto alla onesta utopia di Rodano. E quello, assai meno limpido, fra una parte della classe politica, o meglio delle burocrazie di partito e sindacali, e una borghesia finanziaria e industriale che, ccon le burocrazie di cui sopra, si è intesa e si intende benissimo. Basta sfogliare uho dei nostri giornali maggiori peri rendersi conto come fra la cultura di queste élite capitalistiche e le nomenklature politiche ci sia qualche cosa di più di un’intesa.

E una delle domande che come giornalista mi sento rivolgere più spesso è proprio questa: ma perché i giornali di proprietà di questi ricconi appoggiano coloro che dovrebbero essere, a lume di naso, i loro nemici? La risposta c’è, e sempre a lume di naso mi sembra anche logica. In Italia noi abbiamo avuto, e abbiamo, un bel pezzo di quel socialismo reale che ha afflitto e torna ad affliggere i Paesi dell’Est europeo.

Di nostro, però, vi abbiamo aggiunto un «capitalismo reale» che non è ancora catalogato nei libri di economia ma che somiglia al capitalismo vero come l’Urss somigliava al «socialismo della libertà» dei nostri nonni.

Un capitalismo protetto, che ha orrore del rischio, abituato a considerare gli utili quando ci sono un fatto rigorosamente privato e le perdite, quando ci sono, un problema pubblico, da far pagare a tutti. Cose note, che gli italiani ormai sanno benissimo.

Si era pensato, con le elezioni del 27 marzo, che gli italiani avevano sconfitto insieme gli eredi del socialismo reale e quelli del capitalismo reale, e abbiamo visto invece che cosa è successo. E non finisce qui.

L’alleanza stretta nei «salotti buoni» nei decenni 70 e 60 continua, si trasmette a figli e nipoti. E qui conviene sorridere o, come diceva Pirandello, passare dalla corda savia a quella matta, perché c’è il rischio di dare peso a episodi divertenti, e basta.

Comunque. È uscito proprio in questi giorni un libro di Vittorio Veltroni, nipote del più noto Walter, che ha per titolo: «Un mondo meraviglioso», dedicato alla «nuova democrazia industriale», edito da Theoria, casa editrice piuttosto chic. L’aspetto più rilevante del libro, però, non è il titolo, e non è neppure, da solo, il nome dell’autore. E’, semmai, il nome del prefatore, che è quello di Giovanni A. Agnelli, nipote anch’esso, ed erede dell’impero di famiglia. Al quale si pronostica un grande futuro e che certo, nella vita, non parte handicappato.

Sarà una coincidenza, ma questo Giovanni A. Agnelli piace molto alla sinistra, dal «manifesto», proletario ma quotato in Borsa, alla terza rete tv. E nei giorni scorsi, a intervistarlo si è mossa Bianca Berlinguer, che gli ha rivolto un peana in altri tempi imbarazzante per una ragazza di buona famiglia. «Lei è ricco, è intelligente, è bello, piace alle donne…». Così l’esordio. Insomma, siamo in pieno idillio. I figli, e i nipoti, si capiscono come «li maggiori», forse meglio.

Nel saggio «La Nomenklatura», che resta fondamentale per capire le degenerazioni delle società di tipo sovietico, Viktor Voszlenskj sostiene che la fase ultima di queste degenerazioni è l’ereditarietà. E qui, ci siamo da un pezzo