La via birmana al socialismo

Birmania Ragionpolitica 29 settembre 2007

Attorno al regime birmano si sta creando l’immagine di una cricca di militari tesa alla conservazione del potere. L’immagine è efficace, ma non spiega tutto. Quando si pensa ad una giunta militare, di solito si evocano immagini di dittature di destra, come quelle «junte» militari insediatesi in tanti Paesi dell’America Latina. I militari birmani, al contrario, sono coerentemente socialisti.

di Stefano Magni

La giunta militare birmana aveva già dato prova della sua violenza inaudita contro il proprio popolo nel 1988, quando represse nel sangue una rivolta guidata dagli studenti, provocando 3000 morti.

La stessa giunta (entrata in crisi in seguito all’insurrezione ed alla sua violenta repressione, resa nota in tutto il mondo dai media) dimostrò di essere totalmente intollerante nei confronti dei partiti democratici; quando il principale movimento di opposizione, la Lega per la Democrazia, ottenne più dell’80% dei consensi nelle prime libere elezioni del 1990, i militari sciolsero il parlamento e arrestarono Aung San Suu Kyi, leader del movimento democratico.

Dopo un maldestro tentativo di riforma, condotto nel corso degli anni ‘90 e nei primi anni 2000, i militari al potere stanno tornando di nuovo al centro dell’attenzione del mondo, distinguendosi ancora una volta per una violenta repressione delle manifestazioni dell’opposizione, questa volta guidata dai monaci buddisti.

Attorno al regime birmano si sta creando l’immagine di una cricca di militari tesa alla conservazione del potere. L’immagine è efficace, ma non spiega tutto. Quando si pensa ad una giunta militare, di solito si evocano immagini di dittature di destra, come quelle «junte» militari insediatesi in tanti Paesi dell’America Latina.

I militari birmani, al contrario, sono coerentemente socialisti. Non mirano a mantenere lo status quo anche tramite l’uso della forza, ma a trasformare l’intera società birmana. La loro ferocia impiegata per mantenere il potere è motivata dalla difesa di un progetto rivoluzionario socialista, iniziato negli anni ‘50 e messo nero su bianco nel manifesto «La via birmana al socialismo», del 18 aprile 1962. Riprendere e rileggere quel documento spiega tutto: il disastro economico birmano, le continue insurrezioni, l’incapacità di riformare il sistema in senso capitalista, l’impossibilità di apertura ai partiti democratici e la durezza delle continue repressioni.

Il caposaldo del regime birmano è l’economia socialista e l’esercito ne è il fedele guardiano. Il principio fondamentale del regime, insediatosi con il colpo di Stato del generale Ne Win del 1962, è un’utopia: «L’uomo non sarà libero fino a che non sarà liberato dai mali sociali e da un’economia fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo».

Il programma economico prevede la fine della libertà di impresa e un completo trasferimento delle risorse economiche allo Stato. Tutto deve essere pianificato dal centro di potere politico: «L’economia socialista è lo sviluppo pianificato e proporzionato di tutte le risorse nazionali, dove per “risorse nazionali” si intende: risorse naturali, materie prime, strumenti di produzione, capitali, contadini, lavoratori, intellettuali, tecnici, conoscenza, esperienza, abilità…

Per completare i piani socialisti, quei mezzi di produzione fondamentali quali gli impianti agricoli e industriali, la distribuzione, i trasporti, le comunicazioni, tutto il commercio estero, devono essere nazionalizzati».

Il generale Ne Win, nei suoi quasi trent’anni di potere assoluto, isolò completamente la Birmania dal resto del mondo, chiudendo le porte in faccia agli investitori stranieri e anche ai turisti. Per visitare il Paese occorreva un visto della durata di 24 ore, poi estese a una settimana.

L’autarchia e la nazionalizzazione totale dell’economia birmana hanno causato la nascita di una vastissima economia clandestina, una ricca borsa nera e tantissimo contrabbando. Traffico di droga, tratta delle prostitute da e per la Thailandia e traffico di armi sono tutti «effetti collaterali» del socialismo birmano.

Un tentativo di apertura al commercio, agli investimenti stranieri e al turismo è stato compiuto nel corso degli anni ’90, ma non è riuscito affatto a liberare il Paese dal precedente impianto socialista. Soprattutto, queste leggi hanno permesso a un ristretto circolo di persone, spesso incompetenti in materia economica, di tenere nelle proprie mani tutte le leve dell’economia del Paese.

Il generale Ne Win credeva fermamente in alcune forme di magia, e in particolar modo nella numerologia. Per ben due volte, il governo mise fuori corso determinati tagli di monete locali (kyat), non per ragioni economiche, ma perché i numeri impressi su di esse portavano male.

Nel settembre del 1987, senza alcun preavviso, la giunta di Ne Win mise fuori corso le monete da 25, 35 e 75 kyat, introducendo nuove banconote da 45 e 90 kyat. Uno sciamano aveva suggerito a Ne Win che sarebbe vissuto fino a 90 anni se avesse introdotto banconote dal valore corrispondente ai multipli di 9. Da questo punto di vista la manovra monetaria ebbe successo (il dittatore morì a 91 anni nel 2002), ma la popolazione vide i propri risparmi disintegrati dalla notte al giorno.

Alla fine del 1987 la Birmania era uno dei Paesi più poveri del mondo. Fu questa la causa principale della sollevazione dell’8 agosto del 1988, che fu chiamata la rivolta dei «quattro 8» (sempre per amore dei numeri: 8/8/88), repressa violentemente dai militari.

La realizzazione del programma socialista, che contemplava anche la modernizzazione dell’agricoltura, la nascita da zero di una nuova industria e la costruzione di infrastrutture in tutto il Paese, richiedeva moltissima forza lavoro. Essendo proibita la libera impresa, il lavoro doveva essere «volontario», cioè obbligatorio, visto che, secondo il programma dei generali, «nel costruire un’economia socialista secondo i piani, ogni individuo abile deve lavorare secondo la propria capacità».

Il lavoro obbligatorio ha strappato milioni di contadini birmani alle loro coltivazioni (con danni enormi per le loro famiglie) per gettarli in cantieri di faraoniche opere pubbliche, con orari e condizioni lavorative imposte con criteri militari. Per chi tentava la fuga erano (e sono) previste punizioni corporali, fino alla fucilazione, e rappresaglie sui familiari. In questo modo, il regime socialista birmano ha ripristinato la schiavitù in tempi moderni. E ha creato un dissenso di massa: chiunque abbia raggiunto la maggiore età e sia abile al lavoro, può scegliere tra la schiavitù e la ribellione.

Una simile visione della società non permette alcun dissenso. Il pianificatore non può essere disturbato. Sia nel 1988 che in questi giorni, i militari parlano proprio in termini di «disturbo» da parte dei manifestanti. Nello stesso programma dei generali si legge che: «In alcuni Paesi si è abusato della democrazia parlamentare, che è diventata un mezzo col quale gli opportunisti e i ricchi ingannano le masse.

Nella stessa Unione della Birmania (l’antico nome del Paese, ndr), la democrazia parlamentare è stata messa alla prova e ha dimostrato non solo di fallire nel raggiungere gli obiettivi dello sviluppo socialista, ma anche, a causa della sua debolezza, inconsistenza e fallacia, dei suoi abusi e dell’assenza di un’opinione pubblica sufficientemente matura, ha deviato rispetto agli obiettivi socialisti».

I partiti non socialisti, come il movimento democratico di Aung San Suu Kyi, devono essere proibiti perché «devianti», anche se ottengono l’80% dei consensi della popolazione. La religione buddista (praticata dal 90% dei birmani) è accettata sino a un certo punto, perché «marciando verso i nostri obiettivi socialisti, dobbiamo prima di tutto correggere le opinioni sbagliate del nostro popolo» e per questo «è incoraggiata la religione vissuta in buona fede e la pratica di moralità personale» solo se è in linea con gli obiettivi del partito unico. Non è un caso che in questi giorni, con grande scandalo di una popolazione molto devota, i militari stiano sparando direttamente sui monaci.