L’aborto non salvaguarda la salute della donna

salute_donnaAgenzia Zenit domenica, 19 agosto 2007

ROMA _ Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento del dottor Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

Di recente la posizione della Chiesa in tema di aborto è stata oggetto di attacco, specialmente da quando ha puntato il dito verso certe organizzazioni internazionali che proclamano l’aborto come un diritto da diffondere al pari del diritto all’acqua o ai farmaci salvavita.Il fatto che non viene compreso è che la condanna non nasce unicamente da valutazioni morali (la vita è sacra dal momento del concepimento) che tuttavia hanno un indiscutibile fondamento scientifico (l’analisi del DNA attesta che dal concepimento è presente e vivo un essere umano diverso dalla madre), ma riguarda anche l’impatto psicologico e talora negativo sul piano fisico che l’aborto ha su chi lo compie.

Vediamo di capire dunque due punti: primo, se permettere l’aborto sia un passo a favore della salute della donna, e secondo, se la definizione di “salute” che implica il diritto all’aborto ci soddisfa.

Salute della donna: Varie legislazioni permettono l’aborto in base all’idea che la nascita di un bambino non voluto sia un rischio per la salute della donna. In realtà questo è l’unico caso in tutta la medicina in cui il paziente (in questo caso la donna) si autodiagnostica la malattia (il fatto che la nascita sia pericolosa per la sua salute) e fa le sue scelte “terapeutiche” in totale autonomia dal medico, almeno nei primi mesi. Quante sbagliano “diagnosi”? Possono esserci soluzioni “terapeutiche” alternative? L’assoluta discrezionalità della scelta ci impedisce di saperlo.

Ma è il bambino un pericolo per la salute della madre oppure è l’aborto ad essere pericoloso per la donna? Il Journal of Child Psychology & Psychiatry del 2006, riporta che le donne che abortiscono sono a maggior rischio di problemi mentali (depressione, ansia, comportamenti suicidi) rispetto alle altre; e già molti studiosi hanno parlato dei rischi da aborto chimico (Ann Pharmacother. 2005 Sep;39 (9):1483-8).

Non solo, ma una recente ricerca pubblicata dal British Medical Journal mostra che portare a termine senza abortire una gravidanza non desiderata ha lo stesso livello di rischio di depressione per la madre che l’aborto di una gravidanza non desiderata, dunque l’argomento che abortendo si preserva la madre da patologie depressive legate alla nascita indesiderata viene meno.

Ma ancora, uno studio norvegese mostra che le donne che hanno avuto un aborto spontaneo mostrano problemi psicologici maggiori di quelle che hanno avuto un aborto volontario, ma solo nei primi giorni; a distanza di 2 e poi di 5 anni, i problemi delle prime scompaiono, mentre persistono i disagi psicologici di quelle che hanno avuto un aborto volontario. Dunque, ciò che secondo questa ricerca provoca disagio mentale profondo non è la perdita del figlio, ma averlo fatto volontariamente. E’ dunque l’aborto una maniera per preservare la salute della donna? Esistono motivi per dubitarne.

Forse è per questo che i medici inglesi sono sempre più restii a praticare aborti, come recentemente segnala il quotidiano britannico Independent; anche perché ormai si sa bene che dalla 20° settimana il feto ha la possibilità di provare dolore durante l’intervento e perché con le ecografie possiamo chiaramente renderci conto della sua umanità. Per esempio possiamo vedere il feto piangere o camminare

Ma il problema nasce quando si domanda cosa è la salute che con l’aborto si vorrebbe tutelare. Perché in questo caso ci si rifà sempre alla criticatissima definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948 secondo cui la salute sarebbe il “completo benessere psico-fisico-sociale”. Capiamo bene come questo “pieno benessere” non esiste: chi di noi non ha qualche piccola o grande contrarietà o allergia?

Ma capiamo anche che con questo criterio chiunque potrebbe compiere atti lesivi verso altre persone, giustificandole con il fatto che se non li avesse compiuti la sua “salute” ne avrebbe avuto un danno. Pensiamo per esempio ad un marito che picchiasse la moglie dicendo che altrimenti avrebbe avuto un imprecisato nocumento per la salute psico-fisica.

La giustificazione del perché con un adulto questo non sia possibile e con un feto sì, è data correntemente dal fatto che il feto non è nato, dunque non sarebbe una persona e avrebbe per questo meno diritti. E’ una posizione difficilmente sostenibile oggi che gli studi moderni ci mostrano non solo l’umanità del feto, ma tutta la sua sensibilità, e anche le ragioni biologiche per non reputarlo un’appendice della madre. Dunque, tutto l’impianto del diritto all’aborto si regge su una definizione zoppicante.

La tutela della salute della donna basata sulla diffusione dell’accesso all’aborto ha mostrato i suoi limiti. Essa, infatti, invece che avere come oggetto la cancellazione della vita nascente, dovrebbe partire da un aiuto sociale ed economico prioritario ed obbligatorio per gli Stati verso le donne in difficoltà; ma anche da un impulso culturale verso una maggiore conoscenza dei propri diritti di gestante e della crescita psico-fisiologica propria e del bambino in utero.

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