L’arte di leggere le Scritture. Una lezione per gli analfabeti d’oggi

16 ottobre 2008

È la liturgia che deve tornare a plasmare la lettura e la comprensione della Bibbia. Come nel monachesimo medievale, creatore della moderna civiltà. Timothy Verdon spiega perché, in un sinodo dei vescovi giunto a metà strada…

di Sandro Magister

ROMA,– A quasi metà del suo percorso, il sinodo dei vescovi dedicato a “La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” ha chiesto consulto anche alla sociologia.

Il consulto è avvenuto non nell’aula sinodale, ma poco lontano, nella sala stampa della Santa Sede. Lì, martedì 14 ottobre, il professor Luca Diotallevi, dell’Università di Roma Tre, ha presentato i risultati di una grande inchiesta condotta da GFK-Eurisko in dodici paesi del mondo: Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia, Hong Kong, Filippine, Argentina.

Il primo dato è che un’ampia maggioranza delle popolazioni adulte di questi paesi dichiara di aver fatto esperienza di Dio: un Dio che “veglia sulla propria vita e la protegge”.

Inoltre, una maggioranza altrettanto ampia dice di pregare. La credenza in Dio non risulta dunque in regresso. Anzi, in paesi come la Russia e Hong Kong appare in impetuosa ripresa.

A fronte di questa diffusa, persistente domanda di senso religioso, appare invece insufficiente la risposta che le Chiese e le comunità cristiane sanno dare ad essa. Assumendo infatti la Bibbia come misura di questa risposta, l’indagine mostra che sono pochi coloro che ne hanno letto almeno un brano negli ultimi dodici mesi.

Soprattutto in Europa, il contatto che si ha con la Bibbia è quasi soltanto quello che avviene in chiesa, con l’omelia. I soli paesi in cui la Bibbia è letta da un’ampia maggioranza della popolazione sono gli Stati Uniti e le Filippine.

Nonostante sia poco letta e conosciuta, la Bibbia gode comunque di una considerazione molto positiva. In larga maggioranza, gli intervistati giudicano il suo contenuto “reale”, “interessante”, “vero”. Ma nello stesso tempo “difficile”: il che chiama di nuovo in causa le responsabilità delle Chiese.

In termini sociologici, il professor Diotallevi ha così sintetizzato la lezione ricavata dall’indagine:”Il livello del consumo di riti religiosi ha enormi margini di crescita, ma l’offerta religiosa è ben lontana dall’aver soddisfatto tutta la potenziale domanda già presente”.

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Naturalmente, dell’analfabetismo biblico contemporaneo si possono dare altre letture, oltre a quella sociologica.

È quanto ha fatto, ad esempio, Timothy Verdon in un magistrale articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” di domenica 12 ottobre. Verdon è storico dell’arte. Dirige, a Firenze, l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte e partecipa al sinodo dei vescovi come esperto. In questo articolo egli spiega in chiave artistica, liturgica, teologica lo smarrimento di senso che le Sacre Scritture hanno patito nelle età moderna e contemporanea.

La ricostruzione che Verdon fa è affascinante. Ma per comprenderla appieno occorre guardare anche al suo sfondo. Che è la grande lezione letta da Benedetto XVI a Parigi, al Collège des Bernardins, lo scorso 12 settembre: “Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”

Ecco dunque l’articolo di Verdon su “L’Osservatore Romano” del 12 ottobre 2008: br>

ALLA RICERCA DEL SIMBOLO PERDUTO. L’ANALFABETISMO BIBLICO CONTEMPORANEO

di Timothy Verdon

Mentre il sinodo dei vescovi medita la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, può essere utile riflettere su ciò che si potrebbe chiamare “l’analfabetismo biblico contemporaneo”, sulla perdita pressoché totale degli istinti e delle tecniche, cioè, che nei secoli hanno plasmato il modo cristiano di accostarsi alla sacra pagina.

Per rendersi conto della gravità di questa situazione, basta considerare i libri miniati prodotti nei monasteri medievali per l’uso liturgico. Il fruitore moderno che viene a contatto con simili tesori nell’ambito di una mostra o di un testo di storia dell’arte, forse non capisce neanche la distanza che oggi ci separa dal mondo che li ha plasmati: tra la nostra esperienza “libraria” e quella medievale ci sono infatti differenze così basilari che rischiamo di non avvertirle.

Nell’era di internet, già il concetto di “libro” comincia a sfuggirci, e alla luce di moderni studi biblici e liturgici l’idea tradizionale di un “libro sacro” similmente ha un peso diverso che in passato. In pratica, oggi è quasi impossibile concepire l’autorità sacrale che un testo biblico o liturgico aveva nel medioevo.

Lo stesso vale per le miniature che adornano il testo. Il nostro tempo, saturo d’immagini brillantemente colorate nelle riviste, sui giornali, in televisione – foto istantanee, riprese in diretta, immagini fabbricate dal computer – non riesce a cogliere la sorpresa, la deliziosa freschezza di miniature dalle tinte limpide, splendenti d’oro tra fitte colonne di scrittura in un codice. Né abbiamo modo di ripristinare il rapporto intellettuale e affettivo sussistente tra l’immagine fissa e un testo antico, conosciuto, amato, creduto.

Eppure per più di mille anni di storia europea il contesto tipico dei libri era precisamente quello di una fede intensamente vissuta, profondamente meditata, e nutrita da testi così antichi da sembrare “eterni”: testi che collocavano il lettore sul confine tra la propria situazione e realtà universali, il contesto liminale che possiamo definire semplicemente con il termine “preghiera”. I libri liturgici servivano infatti alla preghiera comunitaria, e le Bibbie alla “lectio divina”, che a sua volta era nutrita e in qualche modo plasmata dalla liturgia e dalla devozione.

Per liturgia intendiamo qui l’intero complesso di riti ecclesiastici, con – al suo centro – la liturgia eucaristica o messa. I testi della messa, che variano secondo la festività o periodo dell’anno, effettivamente obbligano a una sorta di “lectio divina” comunitaria, a una duttilità, nell’interpretazione dell’evento o personaggio celebrato, che dobbiamo chiamare contemplativa.

Ogni cosa viene continuamente riportata al mistico centro della fede cristiana, il sacrificio di se stesso che Cristo compì morendo in croce, e alla vita nuova della sua risurrezione. Perfino la notte di Natale i testi della messa obbligano a collegare la gioia di una nascita con il fatto drammatico della morte in croce; il corpicciolo nella mangiatoia, il corpo dell’uomo adulto crocifisso, il “Corpus Christi” realmente presente nel pane eucaristico e il “Corpo Mistico” costituito dalla comunità raccolta in preghiera diventano una sola cosa. Ecco perché nell’affresco della basilica di Assisi raffigurante san Francesco che pone il Bambino nella mangiatoia del presepe di Greccio, questa viene collocata sotto una grande croce e accanto all’altare.

Si tratta di un modo di vedere – e comprendere – i rapporti di causalità tra eventi storici, metastorici e soprannaturali, diverso dal nostro: un modo di vedere – e comprendere – che influiva sul modo di leggere e quindi anche d’immaginare e di raffigurare i contenuti dei testi.

Prendiamo l’esempio dell’illustrazione riprodotta sopra: una splendida iniziale dipinta nel trecentesco breviario della biblioteca civica Queriniana di Brescia; è il “B” della prima parola del salmo 1 nel latino della Vulgata: “Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum”, beato l’uomo che non sta con i peccatori.

I padri della Chiesa leggevano questo inizio del salmo in riferimento a Cristo, e così il miniaturista dell’iniziale “B” usa gli spazi aperti nella “B” per evocare l’intera vita di Cristo, con scene dell’annunciazione, della natività, della crocifissione e della sepoltura. Situando le parole “Beatus vir” nell’iniziale e nel bordo sotto queste scene, l’anonimo artista associa la “beatitudine” del rapporto umano con Dio – il tema del salmo – con Gesù il Cristo.

Lo stile antico di lettura aveva inoltre una dimensione parabolica che, nell’odierna epoca di studi biblici “scientifici”, rischiamo di perdere. L’antifona del “Benedictus” per le lodi della solennità dell’Epifania, ad esempio, collega in modo straordinariamente suggestivo i tre eventi biblici che, nella loro sequenza cronologica, insieme costituiscono la prima manifestazione di Cristo al mondo: l’arrivo dei Magi portando doni al neonato Gesù (Matteo 2, 1-12); il battesimo di Gesù trentenne nel fiume Giordano (Matteo 3, 13-17; Marco 1, 9-11; Luca 3, 21-22); e la mutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 1-12).

Ma l’anonimo autore dell’antifona inverte l’ordine cronologico e sovrappone le nozze al battesimo, dicendo: “Oggi lo Sposo celeste si unisce alla sua Chiesa che Cristo lava dal peccato nel Giordano”. Avendo in questo modo evocato il matrimonio di Dio con il suo popolo promesso dai profeti, nonché l’obbligo dello “sposo” di purificare la sua “sposa”, lavandola (cfr. Efesini, 5, 25-27), l’autore inserisce poi i Magi, facendoli arrivare con i doni come invitati alla festa nuziale, i cui commensali verranno infine rallegrati dall’acqua mutata in vino del primo miracolo di Cristo, avvenuto a Cana: “Hodie caelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Iordane lavit eius crimina: currunt cum munere Magi ad regales nuptias, et ex acqua facto vino laetantur conviviae, alleluia!”. Che tradotto dice: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati. Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino. Alleluia!”.

Sono la prima parola dell’antifona e l’ultima a spiegare questo stile di lettura: “hodie” e “alleluia!”. Qui i testi neotestamentari sono stati interpretati alla luce della liturgia, e nella liturgia cambia il senso del tempo, così che eventi passati e perfino tra loro sequenziali vengono vissuti in maniera estatica nell’unico “oggi” di Dio, con l’effetto di trasformare impossibili sovrapposizioni storiche in misteri compresenti e interpenetranti. Ogni evento getta luce su ogni altro evento, nell’unico progetto del Padre rivelato dalla vita-morte-risurrezione di Cristo: ecco la “forma mentis” che sottostà a innumerevoli immagini cristiane, dalle catacombe al XXI secolo.

Sia l’iniziale miniata che l’antifona dell’Epifania sono poi frutti dell’immaginazione monastica, e questa origine è di fondamentale importanza. Il monachesimo è in sé un’opera d’arte: rende visibile e tangibile un’intensità particolare della vita cristiana, perché il monaco vuole essere, come Cristo, icona o immagine della bellezza di Dio; e il monastero è quel luogo in cui, con l’aiuto di confratelli che condividono la stessa visone interiore, l’opera può essere tranquillamente perfezionata, in una sorta di laboratorio dell’anima.

La più diffusa formulazione occidentale della vita monastica, la “Regula monachorum” di san Benedetto da Norcia, invoca esplicitamente questa analogia quando paragona il monastero alla bottega di un artigiano, caratterizzando l’intera vita dei monaci come un processo creativo (Regula 4, 75-78).

Questa affermazione fa eco poi a una tradizione più antica, che immaginava la vita di ogni credente impreziosita “con l’oro delle buone opere e con i mosaici della fede perseverante”. Ciò che differenzia i monaci dagli altri cristiani, almeno nel pensiero di san Benedetto, è la misura dell’impegno: i monaci investono la totalità delle loro energie umane nel progetto spirituale, avendo per “attrezzi” i precetti morali della vita cristiana, “instrumenta artis spiritalis” (Regula 4, 75).

Anche se il senso di queste frasi è chiaramente metaforico, non stupisce che la metafora si sia trasformata in realtà e che i monasteri siano diventati centri propulsori delle arti, come del resto san Benedetto s’aspettava (cfr. capitolo 57 della regola, su “Gli artigiani nel monastero”).

Un clima di creatività in un settore dell’esperienza suscita analoga creatività in altri settori, e inoltre la vita monastica favorisce la produzione dell’arte sacra perché, escludendo distrazioni profane, permette all’artista di immergersi nelle Scritture e nelle azioni sacramentali che danno colore e forma alla sua fede, garantendogli inoltre un “pubblico” devoto e preparato.

Nella storia del cristianesimo, i frutti culturali del monachesimo non sono stati poi limitati ai monaci, dal momento che il silenzio e la vita ritirata dei monasteri, invece di allontanare la massa dei fedeli, l’hanno attirata, e la storia monastica conferma il fascino che i monaci hanno sempre suscitato in larghe fasce della società.

Molto prima che Alcuino insegnasse o Anselmo scrivesse, i cittadini di Alessandria d’Egitto si inoltravano nel deserto per ascoltare sant’Antonio abate e i romani portavano i loro figli da san Benedetto. Anche quando l’età dell’oro della cultura monastica incominciò ad attenuarsi, a partire dal XIII-XIV secolo, l’ideale di una solitudine colma di preghiera sarebbe rimasta come paradigma per gli ordini religiosi attivi del tardo medioevo e per i laici a cui essi predicavano.

Non si esagera affermando che le conquiste formali dei monaci – la loro arte e architettura, le pratiche liturgiche e devozionali, le strutture organizzative e i metodi educativi, agricoli e mercantili – abbiano plasmato la coscienza culturale d’Europa. Più ancora, la vita monastica stessa, considerata come scelta sociale creativa e libera, si è profondamente impressa nell’immaginario dei cristiani, fino al punto che alcune tra le più fondamentali aspirazioni della nostra civiltà sono leggibili solo alla luce della “impresa” monastica.

In tutto questo, è importante cogliere il duplice ruolo dell’immaginazione. Da una parte la vita monastica richiede uno sforzo d’immaginazione in chi l’abbraccia diventando monaco; dall’altra, richiede uno sforzo immaginativo in chi non si fa monaco, nella società cristiana in genere. L’uomo o donna che rinuncia ai beni legittimi della vita, ritirandosi per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera, ha bisogno di una notevole capacità di “immaginazione” sociale e morale per perseverare nel credere in “quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, ma che Dio ha preparato per coloro che l’amano” (1 Corinzi 2, 9): questo passo è infatti citato nella regola di san Benedetto (4, 77).

Soprattutto nel rapporto a volte problematico con i confratelli, oltre alla fede è anche l’immaginazione a permettere al monaco di sentire che “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo, 25, 40; cfr. Regula 36, 3).

Per un analogo atto d’immaginazione, coloro che non entrano in monastero hanno scelto, attraverso i secoli, di considerare i monaci “sapienti” e “profeti” piuttosto che pericolosi dissidenti al margine alla società. Dalle migliaia di persone che andarono dall’abate Antonio nel deserto egiziaco, chiedendo una sua parola, alle centinaia di migliaia che oggi leggono Thomas Merton, i cristiani hanno creduto che la solitudine dei monaci non implichi disprezzo per gli altri, e che dal loro silenzio possa scaturire una sapienza al servizio dell’uomo.

Commovente nella sua semplicità, questa fiducia suggerisce la più importante funzione del monachesimo nella vita immaginativa dei cristiani, quella di “simbolo” che investe di santità ciò che gli viene avvicinato. I visitatori a un monastero, come i monaci stessi, hanno l’impressione che, nel raccoglimento contemplativo del chiostro, i luoghi e gli oggetti assumono qualcosa della intenzionalità e dedizione degli abitanti di quei luoghi. Gli oggetti, anche umili, a un tratto vengono percepiti come segni che dischiudono la solidarietà tra l’uomo e il sacro, gradini in una scala che sale dalla terra al cielo. Proprio in questo spirito, san Benedetto dice che perfino gli attrezzi comuni del monastero vanno trattati come se fossero vasi sacri per la liturgia (Regula 31, 10).

Si tratta di un modo di vedere sacramentale, in cui la superficie delle cose si fa trasparente per rivelare una prospettiva infinita, investendo le immagini di efficacia. Una raffigurazione dell’Ultima Cena in un refettorio monastico, come quella di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie, a Milano, non è solo decorazione, ma un oggetto funzionale che comunica e nutre la fede da cui nasce. Le scelte operative nella genesi formale dell’opera, che normalmente rientrano nell’ambito della storia dell’arte, qui s’intrecciano con altre scelte, non estetiche, ma esistenziali.