La sufficienza non basta, anzi è dannosa

agricolturaPubblicato su Avvenire 2003

Cosa e chi potrebbe aiutare la lotta alla fame? Quanto la redistribuzione dell’attuale produzione agricola rappresenta un mezzo efficace?

di Piero Morandini,
Ricercatore dell’Università di Milano, docente di Biotecnologie Agrarie

Molti amano ripetere che viene prodotto oggi cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale e che quindi il problema è la redistribuzione di quanto viene già prodotto.Sulla base di questo assunto si critica chi propone di usare gli ultimi strumenti della tecnologia  (fra cui le biotecnologie agrarie) per aumentare la produzione agricola dei paesi in cui oggi si soffre la fame.  Anzi, non si vede altro in questo, che una bieca manovra delle multinazionali che userebbero l’occasione per propugnare i loro prodotti ed infiltrarli in quei paesi.

L’assunto iniziale, per quanto vero nella teoria, soffre in pratica di alcuni problemi che vorrei esporre in modo dettagliato: innanzitutto bisogna rendersi conto che nei paesi sviluppati la produzione risulta in “eccesso” rispetto alle calorie necessarie per soddisfare il bisogno della popolazione, ma queste calorie in eccesso vengono date da mangiare agli animali per produrre carne, latte e uova.

Non è un mistero infatti che nei paesi della UE il consumo di carne si aggira sui 100 kg all’anno per persona. Siccome ogni kg di carne prodotto richiede molti kg di soia e mais (circa dieci volte di più) per nutrire e far crescere l’animale, ne consegue che davvero potremmo sfamare molta gente “semplicemente” riducendo prima il nostro consumo di carne (ad esempio di un terzo senza compromettere certo la salute) e facendo poi arrivare l’eccesso di produzione che ne deriverebbe a chi ne ha bisogno.

Purtroppo quel “semplicemente” è affrontato con troppa sufficienza (quella a cui si riferisce il titolo), perché ignora che dovremmo non solo smettere di consumare parte della carne (o latte, formaggio, uova…), ma dovremmo ancora comprare l’eccesso di produzione e spedirlo nei paesi che ne hanno bisogno.

Nel momento infatti in cui non ci fosse nessuno a comprare carne, crollerebbe anche l’incentivo a produrre soia e mais necessari a sfamare le bestie. Potete quindi giudicare da voi stessi quali siano le probabilità che la gente non solo rinunci a mangiare parte della carne, ma compri la produzione in eccesso e la spedisca (naturalmente a proprie spese!) agli affamati, che in genere vivono a migliaia km di distanza e non possono pagare né il trasporto né l’acquisto delle nostre produzioni.

Nonostante auspichi che questo accada, credo che, miracoli a parte, non si verificherà. Non viene inoltre mai considerato che un’elemosina, anche se di proporzioni immani come quella in caso di carestia, rimane sempre tale e non fa piacere a nessuno vivere di elemosine, per cui deve essere usata nelle emergenze, ma non come metodo. E anche quando si è in emergenza, bisogna fare l’elemosina in maniera oculata (non con la sufficienza di che crede di fare il bene per cui non importa la modalità) per evitare che l’elemosina distrugga gli embrioni di mercato agricolo presenti nel paese e che disincentivi la produzione locale, visto che comunque il cibo arriva anche senza coltivare la terra.

Dall’altro lato nei paesi in cui la produttività agricola è bassa, in genere le infrastrutture per la conservazione e la distribuzione delle derrate alimentari (strade, porti, magazzini, celle frigorifere…) sono quantomeno inadeguate. Una soluzione ben più sensata per affrontare il problema della fame sarebbe quindi quella di aumentare la produzione localmente così da diminuire i problemi connessi con la distribuzione e gli effetti umilianti dell’elemosina.

Ed è proprio in questo che le biotecnologie potrebbero essere uno degli strumenti (anche se sicuramente non “lo” strumento per eccellenza) per aumentare localmente la produzione. Diverse colture soffrono ad esempio di malattie di natura virale contro le quali i metodi convenzionali possono ben poco e per di più dipendono da costosi trattamenti con antiparassitari, anche questi prodotti dalle multinazionali.

A rincarare la dose bisogna ricordare che molte colture dei paesi poveri, come ad esempio la cassava (una radice ricca in amido che sfama circa 600 milioni di persone tra Africa e Sudamerica) non interessano alle multinazionali perché non possono guadagnare facendo piante di cassava resistenti al virus: pochi le comprerebbero per poi moltiplicarle per via vegetativa e distribuirle in tutto il mondo.

Esiste allora un grande spazio e un grande compito per tutti questi centri di ricerca a finanziamento pubblico: lavorare sulle colture importanti dei paesi affamati e insegnare loro queste tecnologie potrebbe davvero aiutare quella gente a risollevarsi dalla fame e dalla povertà.  In questo sforzo le multinazionali potrebbero dare il loro contributo, come hanno fatto in qualche caso, ad esempio facendo deroghe all’uso di tecnologie brevettate quando chi ne beneficia siano i contadini a basso reddito (come nel caso del Golden rice) oppure lasciando libero accesso ai dati sul sequenziamento del riso che possono essere usati anche in programmi di ricerca i cui beneficiari sono appunto i popoli affamati.

Ci saranno uomini e volontà politiche capaci di perseguire questi obbiettivi oppure ci faremo guidare solo da paure poco razionali o interessi ristretti nel guardare a queste problematiche?