L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo

Woods_coverL’Occidentale,  9 marzo 2008

La presunta antitesi fra le ragioni del profitto e la sfera del sacro affonda le radici nelle pieghe della storia eppure, negli ultimi anni, diversi studiosi hanno provveduto a rimescolare le carte, ammettendo che, fra cattolicesimo e liberalismo, il rapporto è più complesso di quello che concede il manicheismo della quotidianità.

di Tiziano Buzzacchera

Apparentemente, avvicinare Chiesa e mercato suona più come un esercizio per competenti sarti della teoria politica che una sensibilità abbarbicata al senso comune.La presunta antitesi fra le ragioni del profitto e la sfera del sacro affonda le radici nelle pieghe della storia eppure, negli ultimi anni, diversi studiosi hanno provveduto a rimescolare le carte, ammettendo che, fra cattolicesimo e liberalismo, il rapporto è più complesso di quello che concede il manicheismo della quotidianità.

E’ in questo quadro che si inserisce il libro di Thomas Woods Jr., La Chiesa e il mercato (Liberilibri), che costituisce, nelle parole dell’autore stesso, “una difesa schiacciante del mercato”. Non a caso Woods, Senior Fellow presso il Mises Institute, difende quello che si può definire un “cattolicesimo libertarian, ” prospettiva incendiaria, che consiglierebbe quasi di essere maneggiata con cautela. E invece Woods non è affatto timido, anzi, sfodera argomenti e critiche, che sono un distillato puro del liberismo della Scuola Austriaca. E lo fa, paradossalmente, per far incontrare quest’ultima con la religione cattolica.

Partire da Mises per finire a S. Tommaso non è un’idea balzana perchè, sia nel cattolicesimo che nel laissez-faire più convinto si ravvisa una struttura di leggi naturali ( morali per il primo, economiche per il secondo) che reggono l’impalcatura della realtà, che sono per il credente di ordine soprannaturale ed afferrabili tramite la ragione: un esempio importante è, in questo senso, la prasseologia.

Costruito sul rigoroso ( e indiscutibile) assioma dell’azione umana, l’apriorismo di Mises rivela quelle che Bastiat definì “armonie economiche, ” vale a dire un catalogo di principi che, se seguito alla lettera, diffonde prosperità, ma che, se violato, conduce la società al caos. (memorabili sono, a questo proposito, le analisi di Mises sui disastri dell’interventismo e sul calcolo economico nel socialismo)

Qui però si incrociano le spade, perché non sempre la dottrina sociale della Chiesa ha saputo accettare le lezioni dell’economia. Un caso lampante è quello dei salari. Scrive Woods: “il fatto che ogni uomo guadagni un ‘salario familiare’ che permetta alla sua famiglia di vivere in un ragionevole benessere è un traguardo sociale auspicabile.

L’implicita convinzione di qualche pensatore sociale cattolico secondo cui questo risultato può essere realizzato per decreto, ovvero che la volontà dell’uomo può determinare questo stato di cose grazie a un ipse dixit e che nessun ricorso alle cosiddette leggi economiche può essere di aiuto nell’accertare il probabile risultato di queste misure, ebbene, questa convinzione non può essere difesa sul piano intellettuale più di quanto non lo sia l’idea che il desiderio che l’uomo ha di volare rende superfluo il tener conto della legge di gravità.

“Negare la verità delle leggi economiche significa negare persino i contributi illuminanti forniti dagli studiosi della scolastica spagnola, anticipatori del marginalismo moderno. Furono proprio loro a cancellare la nozione di ‘giusto salario’, aprendo la strada al ‘salario di mercato.

Valga a scopo illustrativo un altro esempio. Una parte consistente del mondo cattolico denuncia una certa simpatia per il ‘distributivismo’ di Chesterton e Belloc. Banalizzando, il nocciolo del distributivismo sta nella nozione di ‘proprietà diffusa’ anzichè concentrata, da cui si ricava un’evidente preferenza per la piccola proprietà, che sarebbe maggiormente in grado di garantire l’indipendenza familiare e la sicurezza rispetto all’economia di scambio.

Eppure, le prescrizioni del distributivismo si sgretolano non appena si comincia ad esaminarle in modo più approfondito. Anzitutto, la divisione del lavoro garantisce un livello di produttività enormemente più elevato – e quindi più ricchezza – rispetto all’autarchia. Sono le splendide parole di Mises ad accompagnarci in questa scoperta: “Nell’ambito della cooperazione sociale emergono fra i membri di una società sentimenti di simpatia e amicizia e un senso di appartenenza comune.

“E aggiunge: L’elemento fondamentale che ha portato la cooperazione, la società e la civilizzazione e trasformato l’uomo isolato in un essere umano è il fatto che il lavoro compiuto nell’ambito della divisione del lavoro è più produttivo del lavoro isolato. ” Il bello del capitalismo è che riesce a far stringere la mano agli uomini e ad unirli nella sfida alla povertà. Semina la pace, in altre parole. In secondo luogo, la condizione di insicurezza non è un prodotto del mercato, ma un fatto naturale, che ci troviamo appiccicato dalla nascita. L’operaio può perdere il lavoro, senza dubbio, ma l’imprenditore può perdere i clienti e veder evaporare il proprio capitale.

Le accuse che Woods muove possono apparire semplicemente come una censura delle varie posizioni espresse dai cattolici nei confronti del capitalismo. Non è così. Quello che Woods ha tentato di fare è piuttosto sgombrare il campo dagli errori e mostrare che preghiere e profitti non sono incompatibili, che – come evidenzia Lottieri nella sua prefazione – non esiste solo un ponte fra cattolicesimo e capitalismo, ma “una profonda sintonia fra i principi morali dell’economia di mercato e l’insegnamento che proviene dal Vangelo, dalla Tradizione, dal Magistero. ” E’ davvero un suo grande merito essere riuscito a farlo.

(A.C. Valdera)