Dopo 70 anni di regime totalitario e un costo umano altissimo, in Urss si sono aperti gli archivi e qualcuno ha cominciato a cercare la verità sulla persecuzione comunista. Con enormi difficoltà, ostacoli, reticenze. L’esempio edificante di chi cerca di restituire almeno la memoria alle persone assassinate o scomparse
di Marta Dell’Asta
L’apertura degli archivi non è il semplice accedere a nuove fonti d’informazione: innanzitutto gli archivi, almeno nell’ex Unione Sovietica, sono stati aperti a spizzichi e bocconi, con resistenze, ripensamenti. E secondariamente, anche là dove c’è stato spirito di collaborazione da parte delle autorità, i ricercatori si sono trovati davanti una massa immane di fascicoli e documenti da far sembrare inutile ogni sforzo.
Comunque sia, tutte le acquisizioni degli ultimi anni non sono affiorate solo per la benevolenza del nuovo governo, ma sono state faticosamente strappate all’oblio, ricostruite pezzo dopo pezzo. Ci sono uomini e donne che a questo lavoro stanno dedicando la vita, le energie, ed è solo grazie alla loro dedizione che riemergono fatti nuovi, nomi, cifre, luoghi. Un esempio significativo è quello delle fosse comuni dove dagli anni ’30 fino agli anni ’50 sono state seppellite a mucchi le vittime delle fucilazioni.
In russo non esiste neanche un termine sintetico per definirle, si dice semplicemente «luoghi di fucilazione e seppellimento di massa», alcuni studiosi occidentali li chiamano «campi di morte immediata»: sono luoghi dove non solo si seppelliva ma si fucilava direttamente, così che non stonerebbe il paragone con i campi di sterminio nazisti.
Ma a differenza di questi ultimi, quei campi sovietici sono un enorme buco nero della storia: nessun libro di testo ne ha mai parlato, nemmeno Solzenicyn nell’Arcipelago li cita. La cosa ancora più impressionante è che addirittura gli stessi archivi tacciono, nessun documento, nessuna sentenza, nessun ordine di fucilazione né atto: di esecuzione porta scritto il nome del luogo dove questa era avvenuta; non esistono neppure testimonianze dirette.
Eppure, che dovessero esistere dei posti speciali dove venivano praticate le fucilazioni e i seppellimenti di massa era chiaro a chiunque avesse familiarità con i dati di quegli anni. Prendiamo ad esempio la città di Mosca; erano stati rinvenuti i luoghi dove tradizionalmente venivano «smaltiti» i cadaveri dei fucilati: il giardino dell’ospedale della Jauza (anni 1921-1928), i cimiteri urbani (1926-1936), il crematorio del monastero Donskoj (1935-1953). Ma le centinaia di vittime quotidiane degli anni ’37-38 non potevano materialmente venire assorbite da questi luoghi (e infatti i registri locali non li documentano).
Spinto dall’opinione pubblica, l’ultimo governo sovietico nel 1991 aveva dunque disposto che il KGB ricercasse le fosse comuni delle repressioni politiche, era stata istituita una commissione speciale cui subito avevano chiesto di collaborare i volontari di varie associazioni private, come Memorial Così era riemerso dal non essere un aspetto della storia sovietica ancora più oscuro del Gulag.
Una volta iniziato il lavoro, si era subito messo in luce un fatto incredibile, e cioè che l’ubicazione di questi luoghi, che negli anni staliniani doveva essere nota a molti funzionari degli organi repressivi, si era persa completamente; volutamente non era mai stata scritta su nessun documento e col passare delle generazioni era stata radicalmente cancellata dalla memoria, tanto che nel 1988-1990 nessuno all’interno del KGB aveva idea di dove fossero state fatte le fucilazioni. Un fatto ancora più strano era che negli anni ’80 alcuni di questi «punti di morte immediata» erano ancora protetti con il filo spinato e tenuti sotto sorveglianza, ma evidentemente senza sapere il perché.
Iniziate le ricerche nel 1991, era stato subito chiaro che le tracce erano state cancellate molto bene, e soprattutto che il generale tabù era stato così ben assimilato dai funzionar! degli organi repressivi, che i pochissimi pensionati sopravvissuti negli anni ’90 ancora si rifiutavano di raccontare i fatti ai propri colleghi. Solo dopo tre anni e molti tentativi, si era arrivati a individuare fuori Mosca due luoghi (e non uno come si supponeva all’inizio): Butovo (un ex poligono dell’NKVD, la polizia politica dipendente dal ministero degli interni) e Kommunarka (un ex sovchoz dell’NKVD). E il governo li aveva riconosciuti ufficialmente come luoghi delle stragi di massa.
Ma ci sono volute le ricerche geofisiche, antropologiche e archeologiche commissionate dalle associazioni private per stabilire alcuni dati essenziali, ad esempio il numero e la collocazione delle fosse, difficili da individuare in un terreno molto vasto, accidentato e coperto di vegetazione. Gli scavi condotti nel ’97 a Butovo (gli unici mai fatti metodicamente) hanno individuato 14 fosse della larghezza media di 5,5 metri e una lunghezza totale di 900 metri; la superficie totale di queste sepolture è di 5 mila metri quadrati.
Secondo la dichiarazione ufficiale degli esperti dei Servizi Federali di sicurezza a Butovo si trovano presumibilmente 26 mila corpi, a Kommunarka 14 mila. Ma in base agli scavi dell’archeologo Michail Frolov le cose non stanno così: in uno scavo esplorativo di 12 metri quadrati sono stati rinvenuti 150 corpi; se la densità è costante, vuoi dire che a Butovo sono sepolte non meno di 60 mila persone.
La missione della signora Golovkova
Di questa lotta per la memoria potrebbe raccontare molti particolari una signora moscovita timida e riservata, Lidija Golovkova. Pittrice di professione, si è trovata coinvolta senza volere in questa storia di fucilati e fosse comuni da quando, alla fine degli anni ’80, mentre vagava per la campagna fuori Mosca alla ricerca di qualche bel paesaggio, aveva colto al volo la frase detta da un poliziotto a un collega: «In quella casa succedevano cose terribili». Quella sera stessa era tornata sul posto da sola, aveva scavalcato la recinzione cadente e il filo spinato, e si era ritrovata davanti a un monastero in totale rovina, nel cui seminterrato c’erano davvero delle celle, con la classica pittura verde a olio di tutte le prigioni sovietiche. Era stato come affacciarsi su un segreto oscuro, noto a lei sola.
Per mesi aveva chiesto ovunque che posto fosse, ma nessuno le aveva saputo rispondere; finché qualcuno le aveva detto che doveva aver trovato Suchanovka, la famigerata prigione per le torture aperta da Berija dal ’39 al ’52. Difficilmente se ne usciva vivi. Nessuno ne sapeva più niente, e improvvisamente eccola lì. Poco alla volta l’interesse era diventato passione, e poi una missione: rendere se non giustizia, almeno il nome e la memoria a quelle vittime ignote. E la sua vita ha preso tutto un altro corso, oggi è docente all’Università ortodossa di Mosca come massima esperta dei luoghi di sterminio e dei martiri ortodossi del XX secolo.
Le sue ricerche continuano, instancabili, per lei ricostruire l’identità delle vittime è un atto di riparazione e di pietà. Ha insistito dieci anni perché la Lubjanka le concedesse i dossier e le foto dei prigionieri di Suchanovka. Delle migliaia di vittime di cui ha recuperato il nome e ricostruito gli ultimi giorni, ricorda ogni dettaglio, il volto innanzitutto, la professione, la vita familiare, le circostanze dell’arresto.
Racconta con grande commozione (ogni volta rinnovata) tutti i particolari che è riuscita a ricostruire sulla tecnica della fucilazione: i detenuti venivano caricati sul furgone cellulare (20 o 30, talvolta anche 50) come per un trasferimento comune, senza che sapessero nulla per evitare reazioni. Raggiunto il poligono di Butovo intorno alle 2 di notte, venivano fatti scendere e controllati in base alle istantanee fatte poco prima, poi rinchiusi in una baracca dove veniva loro letta la sentenza.
A quel punto entrava in azione la «squadra speciale», non più di tre o quattro fucilieri, ufficiali, che prendevano i detenuti uno a uno, li portavano fuori con le mani legate, fino al bordo della fossa che era stata scavata durante il giorno, quindi sparavano alle spalle un solo colpo alla nuca.
Fra l’agosto del ’37 e il novembre del ’38 raramente si fucilavano meno di 100 persone al giorno, spesso erano 3/400; il 28 febbraio 1938 erano stati 562. Nelle mani di Lidija Golovkova oggi restano migliaia di foto segnaletiche; le maneggia col rispetto e la pietà che si riserva alle persone care. La cosa che più la tormenta è di non essere riuscita a strappare ai Servizi di sicurezza migliaia di altre foto (ognuna porta scritto sul retro il nome) che sono andate al macero. Sono altrettanti destini che rimarranno ignoti per sempre e per lei, che ha perso il padre in guerra e non sa dov’è sepolto, è un fatto personale.
L’importanza che la memoria sia un «fatto personale» si vede in concreto: Butovo, per il quale la gente di Memorial, tra cui Lidija Golovkova, si è battuta allo stremo, è diventato un memoriale, ha una chiesa, un museo, è luogo di pellegrinaggio e di ricerca; Kommunarka, finché è appartenuta ai Servizi Federali di sicurezza, è rimasta un luogo chiuso dove era vietato l’accesso.
Memorial
II 29 gennaio 1989 a Mosca è nata un’associazione storico-educativa chiamata Memorial, con lo scopo preciso di recuperare e conservare – con tutti i rigori della ricerca storica – la memoria delle repressioni politiche e della battaglia per i diritti umani. Il primo presidente è stato l’accademico Andrej Sacharov (nella foto), riconosciuta autorità del dissenso. Si autodefinisce un «movimento», che ha aperto decine di filiali in provincia, oltre che in Kazachstan, Lettonia, Geòrgia e Ucraina.
Memorial si è accollata un immane lavoro di vaglio degli archivi, creazione di data base delle vittime, di tutti i campi e luoghi di sterminio, dei carnefici, delle bibliografie tematiche. Ha aperto numerosi musei nei luoghi più significativi; si adopera perché nelle città russe compaiano lapidi e segni di memoria, come la pietra delle Solovki posta sulla piazza della Lubjanka. Grazie ai volontari di Memorial, oggi i luoghi di sterminio individuati sono più di 600.