Dai cattolici liberali ai liberali cattolici

peraStudi cattolici n.555 maggio 2007

Perché oggi non pochi uomini di cultura, che provengono dal mondo liberale e anche comunista, fanno propri tanti elementi della tradizione cattolica? Che cosa muove i teocon e i neocon a lasciarsi alle spalle il laicismo liberale, ma non il liberalismo, per allearsi con i cattolici non clericali e non temporalisti? Che cosa hanno in comune Habermas e Benedetto XVI, Pera e Buttiglione, Ferrara e Baget Bozzo? Sono gli interrogativi tematizzati in queste forti pagine di Gianfranco Morra, professore emerito di Sociologia culturale nell’Università di Bologna.

Questioni certo preoccupanti per la stanca cultura egemone della sinistra, ora narcisista, che reagisce alla importante svolta innovativa dei cosiddetti «conservatori» con le armi di sempre: il silenzio saputo o l’aggressione spocchiosa. Dell’autore ricordiamo il recente saggio: Europa invertebrata. Un’identità certa per la civiltà di domani, edito per le Edizioni Ares (Milano 2006, pp. 192, euro 13).

di Gianfranco Morra

La pièce, sul palcoscenico italiano, ha avuto tre atti. Nel primo, Ottocento e sino alla Prima guerra mondiale, primo attore era il cattolicesimo liberale; nel secondo, Novecento, è stato il cattolicesimo progressista; nel terzo, in atto ai nostri giorni, è il liberalismo cattolico. Più cauto e moderato che negli altri Paesi europei, il cattolicesimo liberale (Rosmini, Capponi, Lambruschini, Ventura, con opportune distinzioni anche Gioberti) ebbe come scopo principale l’«ammodernamento» della Chiesa, per renderla capace di rispondere alle sfide del periodo postrivoluzionario. Si trattava di mostrare che il cattolicesimo non solo non doveva temere la democrazia, ma doveva porsi come il suo «supplemento di anima».

E che poteva farlo solo «distinguendo le cose del cielo da quelle della terra» (Manzoni).Un progetto ostacolato dall’esistenza dello Stato Pontificio e dalla tendenza conclusivamente anticattolica del processo di unificazione nazionale, che produssero non solo un conflitto esterno tra Chiesa e Stato, ma anche una scissione intima nel cattolico tra cittadino e credente. E che, tuttavia, scomparso papa Pio IX (Sillabo e scomunica degli artefici dell’unificazione), si attenuò con Leone XIII, il papa della «dottrina sociale della Chiesa» e della «democrazia cristiana».

La fine del «mondo di ieri» con la Prima guerra mondiale aprì ai cattolici liberali non solo spazi di dibattito intellettuale, ma anche di presenza politica. Fu così che nel 1919 nacque (tra stupore e anche sdegno dei cattolici conservatori) il Partito popolare di Sturzo, sul modello di altre «democrazie cristiane» che già esistevano e funzionavano in Francia, Belgio e Germania. Purtroppo il ventennio fascista cancellò questa presenza e costrinse il fondatore all’esilio. Il primo atto rimase interrotto.

Per avere il secondo atto bisognerà attendere la Seconda guerra mondiale, la nascita della Democrazia cristiana. Nella quale, sin dall’inizio, si mostrarono e si scontrarono due anime: quella che continuava l’esperienza dei cattolici liberali, incarnata da Sturzo e De Gasperi, e quella che auspicava, sul modello francese del «fronte popolare», una collaborazione con il comunismo, tenuemente adombrata già nel Codice di Camaldoli (1943).

Al cattolicesimo liberale, accusato di connivenza con le classi egemoni e sfruttatrici del popolo, si contrapponeva un cattolicesimo «progressista», che necessariamente doveva aprirsi alla galassia comunista sulla base del comune odio per la società liberale e borghese. Come intuì il più acuto e carismatico ideologo di questo incontro, Giuseppe Dossetti, quando insegnava che ci sono solo due visioni integrali della vita, quella dei cattolici e quella dei comunisti; e che, pertanto, la Dc poteva avere un solo competitore, ma anche partner nelle riforme sociali: il Pci (Dossetti giovane. Antologia, Cinque Lune, Roma 1982, pp. 46, 62).

Una apertura sollecitata dal clima postconciliare, che proponeva un distacco del cristianesimo dalle sue fonti elleniche (la filosofia) e romane (la collaborazione della Chiesa «costantiniana» col potere), per un rinnovamento del messaggio evangelico e una sua maggiore presenza a fianco dei poveri e degli emarginati. Come gli studi di Del Noce hanno mostrato, questa apertura non poteva che divenire sudditanza e dissoluzione, quasi a verificare la validità della previsione di Granisci, quando nel 1919 scriveva su L’ordine nuovo: «II cattolicesimo democratico si pone sullo stesso terreno del socialismo e sarà sconfitto ed espulso dalla storia; si salda con le masse socialiste e si suicida» (in 2000 pagine di Granisci, II Saggiatore, Milano 1964, voi. I, pp. 426-27).

La classe maggioritaria nella Dc, abbandonato lo schema del cattolicesimo liberale, assunse (sia pure con nebulosità e opportunismo) l’ipotesi cattocomunista dei «professorini»: una alleanza prima con il socialismo, più tardi con il comunismo; non già per accettare l’antropologia o i metodi politici del marxismo, ma proprio per aiutare le masse a liberarsene. Il rozzo materialismo e l’ateismo «scientifico» erano considerati come provvisori e sicuramente eliminabili. E una lotta comune di credenti e non credenti contro il corrotto mondo borghese avrebbe fatto emergere il «volto umano» del movimento comunista.

L’esito, ormai accertato, fu (nei precisi termini gramsciani) il declassamento del mondo cattolico da classe dirigente (egemonia nella cultura e nella società) a classe dominante (egemonia nelle strutture economiche e politiche). Di cui la graduale e per ora irreversibile scristianizzazione della società italiana è prova evidente. E i due artefici del «bipartitismo imperfetto» ebbero effettivamente quel comune destino, che Dossetti loro assegnava. All’inizio degli anni Novanta, entrambi avevano reso l’anima. La caduta del comunismo privò la Dc della funzione di argine, che il mondo della guerra fredda le aveva assegnato, e la sua insignificanza culturale divenne anche politica.

Il Pci, molto più radicato nella società civile e nella cultura, riuscì a compiere una serie di lifting per rendersi presentabile e credibile, aiutato dalla mancata «persecuzione» nei suoi confronti da parte dell’operazione giudiziaria «Mani pulite». Dal palazzo in macerie della politica italiana, i due amici-nemici uscirono in diverse condizioni di salute: ancora, se pur meno egemone nella sinistra, il Pci; dissolta e frammentata la Dc, i cui superstiti si accasarono in due case diverse proprio in conformità alla duplice tendenza del cattolicesimo liberale e del cattocomunismo. Ma sempre in condizione di sudditanza.

Mutamenti radicali

II periodo cosiddetto della «seconda repubblica» (1994-2006) assiste, sia pure insieme con confusioni ideologiche e frammentazioni partitiche, conseguenti alla crisi radicale delle ideologie «forti», a tre principali mutamenti socioculturali:

1. La caduta della seconda via del comunismo e il trionfo della prima via liberaldemocratica in molti Paesi ex comunisti: il modello di sviluppo prevalente nel mondo è oggi quello dell’economia di mercato, quasi sempre accompagnato dal pluralismo politico; un modello, certo, che non manca di tirarsi dietro anche dei pericoli, evidenti in alcune forme di «liberismo selvaggio» e in alcuni eccessi del processo di «globalizzazione»; ma che risulta anche superiore agli altri modelli per la capacità di realizzare, insieme, aumento della produttività e del reddito, come pure la sua distribuzione fra tutte le categorie sociali; l’epoca della demonizzazione del capitalismo è ormai alle spalle, anche se molti autori (compreso Giovanni Paolo II nella enciclica Centesimus annus, 1991) sottolineano che il sistema capitalistico di produzione ha bisogno, per non degenerare in guerra di tutti contro tutti, di pluralismo socio-economico, di Stato di diritto e di democrazia politica (cfr Michael Novak, Questo emisfero di libertà. Una filosofia delle Americhe, Liberilibri, Macerata 1996).

2. Il recupero da parte della Chiesa, con il pontificato di Giovanni Paolo II (e ora di Benedetto XVI), di maggiore chiarezza teoretica ed efficacia pratica, ma anche di distacco da quella predilezione per il partito dei cattolici italiani, che ancora sopravviveva in altri Pontefici; una Chiesa meno «politica», nel senso che non considera più un partito privilegiato rispetto agli altri; e soprattutto più «politica», ove politica significhi, come da sempre nel suo insegnamento, non già gestione diretta delle istituzioni, ma richiamo al duplice fondamento dell’agire sociale: la Rivelazione per coloro che si professano cristiani e la morale naturale per tutti gli uomini.

3. Il sostanziale abbandono, da parte dei partiti della sinistra e soprattutto dei Ds, per amore o per forza, chi più chi meno, delle vecchie utopie rivoluzionarie, con un conseguente avvicinamento alle posizioni della sinistra europea; la crisi del mito escatologico della «nuova società» ha avvicinato la sinistra non già alle tendenze della democrazia religiosa, ma a quelle individualiste e «piccolo borghesi» del «pensiero debole»; un mix di scientismo tecnologico e relativismo morale, capace di difendere una società dell’«edonismo protetto e garantito», ma non di dare una risposta ai gravi problemi prodotti dalla crisi della modernità.

In tale nuova situazione sociopolitica non pochi uomini di cultura del mondo laico e del mondo cattolico si sono accorti che i gravi problemi attuali impongono di unire le loro forze per mettere un argine alla disgregazione intellettuale e morale della modernità, evidente soprattutto nella perdita di rispetto per la vita e la sua dignità, aborto indiscriminato, liberalizzazione della droga, libertinaggio sessuale, psicopatia collettiva, attacchi alla famiglia e alla scuola, fecondazione liberista e manipolazione della vita.

Ciò che li accomuna non è già il rifiuto della via liberaldemocratica, ma la consapevolezza della necessità di superarne la degradazione individualistica e, alla fin fine, nichilistica con un recupero del fondamento etico-religioso della stessa, nata nella nostra società cristiana dalle sètte evangeliche per chiedere, prima, tolleranza religiosa e, poi, libertà di coscienza in tutti i suoi aspetti. Quasi una conferma della nota frase di Leone XIII: «La democrazia, o sarà cristiana, o non sarà affatto». L’intuizione più acuta e attuale di questi uomini di cultura è che le radici della crisi della modernità occidentale non sono economiche o politiche, ma morali e religiose.

Tutte le nuove tendenze, che con una certa approssimazione vengono chiamate «conservatrici» (dimenticando che oggi c’è ben poco da conservare) o di «destra» (senza considerare che le stesse categorie di «sinistra» e di «destra» paiono oggi sempre meno utilizzabili per fotografare il presente), sono accomunate dal rifiuto di ogni spiegazione «economicistica» (liberista o marxista) della storia e dalla nostalgia per quella tradizione cristiana in cui è possibile trovare non solo un accordo, ma anche una collaborazione tra laici e credenti.

In Italia tali tendenze hanno dovuto attendere la crisi della cultura gramsciana egemone per esprimersi, a partire dagli anni Novanta. Con alcuni decenni di anticipo gli Stati Uniti hanno assistito alla rinascita dello spirito conservatore, dopo gli anni dello sfacelo della cultura liberal, così potente ai tempi di Kennedy e Johnson, poi ridimensionata negli anni delle presidenze di Reagan, Bush senior e junior, senza che ancora tutti i disastri morali e sociali di questa «cultura del cedimento» siano ancora stati pienamente riparati.

Il conservatorismo negli Usa

Quei tre presidenti sono stati la prova di una verità troppo spesso dimenticata: chi trascura la cultura, perde anche in politica. Il successo di Reagan fu preceduto dalla rinascita della cultura conservatrice, che ebbe il coraggio di rompere il pensiero uni­co degli intellettuali di sinistra, questa minoranza massmediatica e hollywoodiana, che con intolleranza spocchiosa si autoproclamava progressista.

La politica dei due Bush, la loro guerra al terrorismo islamico, trovò un sostegno nella opinione pubblica preparata dalle nuove idee, neocon e teocon (cfr Flavio Felice, Neocon e teocon. Il ruolo della religione nella vita pubblica statunitense, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006).

Tutto era cominciato negli anni Cinquanta-Sessanta. Numerosi scrittori dettero il campanello d’allarme sulla crisi dei valori cristiani, cioè europei e statunitensi, della libertà e della dignità. Russel Kirk portò alla luce la tradizione conservatrice (The Conservative Mind. From Burke to Eliot, Regnery Books, Chicago 1953, 1986). Irving Kristol teorizzò, sin dagli anni Cinquanta, il Neoconservatorism (Free Press, New York 1995). Lee Edwards deplorò la perdita della cultura europea, cioè biblica, in Le radici dell’ordine americano (Mondadori, Milano 1996). William Buckley fondò nel 1955 la National Revue, palestra dei neocon.

Ai loro suggerimenti si deve la trasformazione del Partito repubblicano in una forza capace di rispondere alle sfide di una democrazia di massa in nome della triade «religione, nazione, crescita economica». Una convinzione accomuna i neocon: che sono le idee, e non l’economia, che fanno la storia, come il conservatore del Sud, Richard M. Weaver teorizzò sin dal 1948: Ideas have Consequences (University of Chicago Press).

Insieme con Kristol, nel 1964 appoggiò contro Johnson la politica di Barry Goldwater: «Equilibrio, diversità, differenza creativa». Ma da noi i mass media, quasi tutti riserva di caccia della sinistra, tacciono. E di quel fenomeno culturale, così rilevante ed efficace negli Stati Uniti, si parla troppo poco. A sinistra, come è comprensibile. Ma anche a destra: la sua naturale idiosincrasia per la cultura l’ha condotta, con una affannosa e anche un po’ comica corsa al centro, a perdere non poco della sua identità.

Vale dunque la pena di presentare le linee portanti del progetto neoconservatore. Che non è cosa facile, data la varietà delle correnti, le quali hanno con certezza una cosa in comune: l’avversione alla sinistra in genere e al comunismo in specie. Tanto che i nomi con cui vengono designati sono stati inventati dalle teste d’uovo liberal con finalità denigratorie: neoconservatori, cioè roba vecchia verniciata di nuovo; teoconservatori, cioè religiosi e clericali; o anche, con una nota sarcastica, atei devoti. Le solite accuse di comodo.

In realtà, i neocon non vanno confusi con i vecchi conservatori. Essi si mantengono nella linea liberale che costituisce la carta d’identità degli Usa. Non vogliono tornare al passato, ma rendere attuale una eredità di sempre. Che possiamo riassumere con le parole: democrazia, mercato, pluralismo, meritocrazia solidaristica.

I neocon sono dei liberali antiliberal, conservatori e riformisti moderati; i teocon sono dei cristiani liberali, credenti che vogliono rivalutare il ruolo della religione non per il potere delle Chiese (il I emendamento della Costituzione americana non lo consentirebbe), ma per ridare anima alla politica, che i sinistri avevano ridotto a una «nuda piazza pubblica» (nacked public square) solo per poterla riempire del loro concime. Quasi a conferma di quanto aveva detto Lord Acton: «Se vuoi un vero conservatore, prendi un liberale».

Gli Stati Uniti, con i Pilgrim Fathers, che attraversarono l’Atlantico per fondare una nazione, sono nati religiosi, sia pure in nome della tolleranza e del pluralismo: uomini perseguitati in Europa e fuggiti per difendere la loro libertà di fede. Ancor oggi gli Stati Uniti sono più religiosi delle nazioni europee: la loro «Dichiarazione d’indipendenza» si apre con la parola «Dio», per loro l’aborto è ancora un problema, spesso prima di mangiare recitano la preghiera.

I neo-teocon sono convinti che nell’epoca del più devastante declino della moralità (pornografia, aborto, eutanasia, uso delle cellule staminali embrionali), solo il ritorno alle radici religiose può ridare alla nazione il senso del proprio destino. E può consentire di ritrovare «la nazione giusta»: cioè «di destra», come hanno intitolato il loro bestseller i due giornalisti dell’‘Economist John Micklethwait e Adrian Wooldridge (The Righi Nation; trad. it. Mondadori, Milano 2005).

Anche se i neocon sono soprattutto protestanti, alcuni studiosi, preparati e agguerriti, sono cattolici, come the Trinity, ossia Michael Novak, Richard J. Neuhaus e George Weigel. E proprio con Weigel, autore, dopo vent’anni di studio, della monumentale biografia su Giovanni Paolo II: Testimone della speranza (Mondadori, Milano 1999), possiamo riassumere in cinque punti le dottrine dei neo-teocon.

1. Nessun sistema economico è perfetto, ma l’economia di mercato rivela di essere quella meno imperfetta, perché sa unire efficienza e solidarietà, sa produrre ricchezza e anche distribuirla.

2. Ne deriva il rifiuto del vecchio welfare, che ha esautorato la famiglia e prodotto burocrazia, sperpero e deresponsabilizzazione; e il progetto di un nuovo Stato assistenziale, capace di aiutare i cittadini sulla base del diritto naturale e del principio di sussidiarietà: lo Stato interviene solo quando singoli e gruppi non ce la fanno. Bene comune non è equivalente a pubblico, e pubblico non è equivalente a statale.

3. Scopo primario della politica internazionale è la ricerca della pace; non però con il subdolo e controproducente pacifismo, ma con ciò che la tradizione cristiana ha chiamato la «guerra giusta», non aggressiva, bensì difensiva e preventiva

4. Nessun ritorno alla religione di Stato, ma il contributo delle molte religioni alla educazione dei giovani e alla difesa della famiglia. In tal senso il Vaticano II e Giovanni Paolo II, che ne fu l’interprete e il continuatore, non hanno insegnato ad andare indietro, ma a guardare indietro solo per andare avanti. E insieme con Benedetto XVI i neo-teocon combattono il relativismo, vera forma di nichilismo che distrugge tutti i valori.

5. La salvezza delle nazioni passa attraverso il recupero della famiglia, dei corpi intermedi (famiglie, imprese, scuole, associazioni non profit, Chiese) e delle virtù «borghesi»: operosità, umiltà, responsabilità, prudenza, temperanza. In tre sole parole: Dio, Patria, Famiglia. Non per tornare ai vecchi tempi, ma per dare ai problemi di oggi una risposta non degradante, per salvare la democrazia dalla sua degenerazione atea e la laicità dalla tentazione clericale capovolta. Non per nostalgia della poco pulita alleanza di trono e altare, ma per frenare l’anticristianesimo della Piramide del Louvre e del Cubo dell’Arche de la Défense.

Come ci dice il teocon Weigel, per avere un futuro, l’Europa dovrà stabilire un giusto rapporto tra la solidità mondana del Cubo e la tensione verticale della Cattedrale (La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006).

Dopo la modernità

Sarebbe tuttavia un errore ritenere che la rinascita del pensiero conservatore riguardi solo (o primariamente) la politica. Non è difficile accorgersi che tutte le tematiche dei neocon e dei teocon hanno un background comune: il malessere della modernità nella sua fase decadente, nella quale sono sotto gli occhi di tutti esiti negativi e drammatici, che nei suoi primi secoli erano mascherati dalla ideologia ottimistica del Progresso. Sempre più numerosi sono gli studiosi che esprimono preoccupazione per gli esiti nefasti dell’epoca moderna. Non per rimpiangere il passato, ma per capire come mai la più ricca e potente civiltà del mondo si stia dissolvendo in un misto di violenza (guerre, genocidi, atomiche) e di indifferenza (nichilismo, relativismo).

Alcuni di essi hanno collegato il malessere dell’Occidente alla tendenza, tipica dell’Europa novecentesca, di enunciare solo funzioni e finzioni, dimenticando la realtà, la cui voce non viene più ascoltata (cfr Rene Girard, La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006). Quasi che solo il virtuale e l’ipotetico avessero ormai sudditanza: le fantasie del marxismo, l’idraulica della psicoanalisi, le ingessature dello strutturalismo sono le principali reality fiction di un paralizzante «sonno della ragione». È stata così dimenticata la saggezza delle religioni, in particolare del cristianesimo, l’unica che ha effettuato una svolta radicale, trasformando la pratica del capro espiatorio con il sacrificio di una vittima innocente, che assume quella pratica e le mette fine per sempre.

L’Occidente si è così illuso di raggiungere la «liberazione» spirituale e sociale con il rifiuto delle tradizioni religiose, soprattutto di quella cristiana. Ma, in tal modo, il pensiero moderno, col suo rifiuto del soprannaturale, ha tagliato il ramo su cui era seduta l’Europa. Una lotta illuministica contro la religione, che proponeva come fine la liberazione dal fideismo, mentre si è tradotta in una nuova forma di fideismo, nell’adorazione del virtuale e dell’irreale. Viene così mostrata la singolare eterogenesi dei fini della modernità.

Con la «dialettica dell’illuminismo», con la fiducia totale nella ragione, che riusciva a scuotere anche un animale a sangue freddo come Kant, è stata prodotta una eclissi della ragione. Tolti due dei tre termini fissati da Agostino (il «faras ire» e il «transcende te ipsum»), rimane solo il terzo, un «in te ipsum redi» più narcisistico che cartesiano, l’esperienza soggettiva innalzata dogmaticamente a criterio di verità. Pochi sono dogmatici come gli illuministi, pochi sono fideisti come gli scettici, pochi sono fanatici come i finti dubbiosi del pensiero debole.

Una Europa, dunque, relativistica e rinunciataria. L’io europeo ha perso la maiuscola kantiana, si è spompato, non vive ma sopravvive, in un’epoca di apparenti scoperte e di reali nascondimenti. Le sue guide non sono più i teologi o i filosofi, ma gli scienziati e i tecnologi, la cui intelligenza è distruttiva, in quanto sono potenti nei mezzi e del tutto ignoranti dei fini.

Non abbiamo più maestri, ma esperti, non disponiamo più di autorità, ma di istruzioni per l’uso, non ci riferiamo più alla nostra tradizione (non solo nel Trattato costituzionale dell’Unione Europea), ma di tutto facciamo un «usa e getta»: «Dopo aver ripudiato la religione allo scopo di essere più razionali, l’uomo moderno chiude il cerchio e, in nome di una razionalità superiore, abbraccia una forma scientifica e tecnica d’irrazionalità» (Girard, op. cit, p. 182).

L’ingratitudine della modernità

Altri fenomenologi della crisi hanno costretto la modernità a mettersi davanti allo specchio, perché possa vedere che i risultati ottenuti sono troppo spesso il contrario di quelli cercati. E l’hanno accusata di «ingratitudine»: gli uomini vivono nel presente («creare, godere, muoversi»), sordi al passato e indifferenti al futuro, ingrati verso gli antenati e incapaci di lasciare qualcosa alle nuove generazioni (cfr A. Finkielkraut, L’ingratitudine, Ed. Excel-sior, Milano 2007).

Il vizio basilare della modernità è stato la sua pretesa di «rompere» e di «innovare», rifiutando ogni tradizione e modello. Sempre avanti, sempre novità, sempre conquiste inattese. Come prescriveva, al culmine della modernità, il fondatore delle Olimpiadi, Pierre de Coubertin, col suo slogan: «Citius, altius, fortius» (sempre più presto, sempre più su, con sempre maggiore forza).

Il «moderno» è il privilegio del nuovo, il «conservatorismo del movimento», che tutto supera, meno l’obbligo dell’eterno superare. È il mito nefasto della modernità, che il filosofo polacco Leszek Kolakowski riassumeva ironicamente nell’invito di un guidatore polacco di tram, che chiedeva ai passeggeri di stringersi: «Avanzate verso il retro».

Una vita, quella del moderno, che ha espulso le tre fonti energetiche della ricchezza interiore: il vuoto, in un mondo pieno di oggetti, usati, gettati, rimpiazzati; il silenzio, reso impossibile dalla onnipresenza delle macchine: dai rumori perenni dell’iPod alle immagini effimere e sovrapposte del Youtube; il buio, sostituito dalla lux perpetua di un illuminismo divenuto lampadina elettrica.

Come aveva capito, nel 1988, l’americana «Dark Sky Association», la cosa più importante è riconquistare l’oscurità della notte. Solo il presidente ceco Havel udì l’appello e firmò, nel 2002, una legge che limitava, in quantità e qualità, l’illuminazione notturna. Ecco la modernità: nonostante le sue grandi conquiste tecnologiche, essa è andata avanti come il gambero, in quanto ha distrutto il triplice rapporto dell’uomo con la natura (crisi ecologica), con Dio (la modernità è l’unica epoca irreligiosa della storia) e con il prossimo (divenuto numero o scheda bucata, macchina a parti intercambiabili con i trapianti, l’ingegneria genetica e la clonazione).

Il luogo dove la crisi della modernità emerge con forza è la cultura. Che si presume nuova e libera, dato che si è lasciata alle spalle i miti dell’«oscuro Medioevo». Ma che si mostra subito fondata sul niente. Un gioco ozioso nel quale i cosiddetti intellettuali si citano reciprocamente e, ancor più, ascoltano narcisisticamente la propria eco. E che sembrano ancora, in Italia, incapaci di uscire dal giardino d’infanzia dei miti spompati della modernità.

Non così in Francia, dove pure la cultura moderna aveva avuto le sue espressioni più nichilistiche: si pensi a Sartre, Lacan, Deleuze, Foucault. Ma già negli anni della contestazione, mentre i barbari distruggevano dall’interno l’università, non pochi uomini di cultura hanno preso in mano la vanga, per trasformare i campi aridi e sterili del Sessantotto in zolle ancora seminabili e produttive.

Ecco i nouveaux philosophes; ecco Roland Barthes, che fu a lungo profeta entusiasta del «nuovo» e si accorse poi che la più vera immagine del tempo non era quella futurista dei moderni, ma quella nostalgica del «passato», evocata da Proust; ecco Georges Friedmann, che lasciò la cattedra universitaria per testimoniare che la sagesse conta più della puissance.

Nulla di simile nel nostro Bel Paese. Dove la cultura tradizionale alzò la bandiera bianca di fronte ai guastatori e tutte le istituzioni culturali divennero pascolo per i montoni della sinistra. Intellettuali aristocratici e anche snob, che si battevano per quel popolo, che disprezzavano nell’intimo. Sempre disposti a seguire le indicazioni del «Principe», prima l’utopia comunista e i suoi crimini, poi la svolta dal comunismo al postcomunismo, che è un comunismo abbacchiato; non più il pensiero «unico» di Marx e Granisci, ma quello «debole» del peggiore radicalismo amorale. Sono troppi per poterli ricordare.

Forse merita di riportarne una fotografia di gruppo, scattata da Alain Finkielkraut, che li conosce bene: «Gli spregiatori della cultura di massa pretendono di difendere le promesse democratiche della storia; in realtà sono talmente occupati a misurare la distanza che li separa dal comune mortale che non vedono la democrazia all’opera. La critica della stupidità si ribalta così nella stupidità dell’elitismo» (Noi, i moderni, Lindau, Torino 2006, p. 54).

Se ci siamo soffermati sul retroterra culturale dei neocon e dei teocon, è perché le nuove tendenze del «liberalismo cattolico» non avanzano una semplice proposta politica, ma un disegno di recupero della cultura europea, nel momento in cui il nostro conti­nente appare sempre più autodistruttivo di sé medesimo, come aveva intuito Raymond Aron nel suo saggio: In difesa di un’ Europa decadente (Mondadori, Milano 1978).

Ma dove troverà, una società così malata come quella europea, il farmaco adatto per guarire? Potranno la ragione illuministica o una scienza senz’anima o una tecnologia distruttiva prescriverle le medicine adeguate? Una Europa drogata riuscirà a salvarsi dall’eroina moderna con l’uso del metado-ne postmoderno, mentre il pensiero filosofìco, originale scoperta dell’Europa, sembra essersi avvilito a semplice ragione strumentale, quando non anche a esplicito nichilismo?

Sono domande che non interessano solo il mondo dei cattolici, ma anche quello dei laici. Non pochi dei quali si chiedono se anche il loro mondo non debba riscoprire quei valori, con i quali è nato. La laicità ha il suo fondamento nella distinzione fatta da Gesù tra Dio e Cesare. Che in termini attuali significa diritti naturali della persona e principio di sussidiarietà (due categorie che troviamo solo nelle culture cristiane): primato dei cittadini, della famiglia e dei corpi intermedi rispetto allo Stato. Non è il laicismo intollerante dei liberal, forma spuria del vecchio integralismo clericale capovolto. È la distinzione tra religione e politica, ma non la loro separazione e incomunicabilità.

Ciò che cattolici liberali e liberali cattolici cercano è un’alleanza, anche nella politica certo, ma in prima istanza nella cultura, tra le due tradizioni costitutive dell’Europa: il cristianesimo e il liberalismo, un cristianesimo purificato dal temporalismo e un liberalismo vaccinato contro le pretese di porsi come una «religione civile», che sostituisce la religione rivelata e relega la fede cristiana nella inefficace e narcisistica privacy. Teocon, dunque, anche se tutte le formule banalizzano. Il «dio» riscoperto è quello della tradizione europea, quello che è proibito nominare a Strasburgo.

È, insieme, il Dio pregato nelle chiese e quello presente nella vita di tutti, anche di chi non ci pensa e talvolta crede di negarlo. Il «con» significa «conservatori» solo rispetto alle correnti nichilistiche della modernità, che della tradizione hanno preteso di fare piazza pulita. Ma significa, soprattutto, in una modernità della fine che non ha più molto da conservare, essere «tradizionalisti», ossia portare avanti (tradere), con continui aggiornamenti e riforme, una precisa identità che, dalla madre Europa, è passata alla figlia America.

Liberali conservatori

Del resto, la vera tradizione liberale, anche in Italia, è conservatrice: bastino i nomi di Pareto, Mosca, Croce. Così come conservatori, sia pure aperti e illuminati, erano i cattolici «liberali», come Rosmini e Sturzo. O come i fondatori dell’Europa: De Gasperi, Schuman, Adenauer. Europa, ma anche America. Due continenti uniti nella opposizione a quell’ateismo, che ha distrutto il nostro continente con le ideologie totalitarie, fondate sulla identità di religione e politica: il marxismo, ritorno al Vecchio Testamento contro il Nuovo, per realizzare un «Regno di Dio senza Dio» (Bloch); il fascismo con i suoi miti dell’uomo «nuovo» e dello Stato «etico»; il nazionalsocialismo, ritorno alla utopia sanguinaria della razza superiore precristiana.

Ora quei totalitarismi sono in massima parte caduti, ma una nuova minaccia viene dal fondamentalismo islamico, col suo terrorismo, ma anche con la sua non tanto pacifica penetrazione in Occidente.

Non può esservi dubbio che questa nostalgia dei fondamenti religiosi, così diffusa nei liberali non radicali, si è largamente nutrita dei recenti conflitti di civiltà, a partire dalla tragedia dell’Il settembre 2001. Non già per accentuarli. Nessun grido di guerra, dato che il jihad non appartiene alla più vera tradizione dell’Occidente, sono altre le civiltà che lo considerano come un dovere religioso. E nessuno scontro di civiltà.

Ma il vero problema è che cosa fare se esso viene fatto esplodere (come negarlo?) dal mondo islamico. Al quale è necessario rispondere con i valori dell’Occidente: in primo luogo dialogo, collaborazione, rispetto, integrazione (purché siano reciproci); ma anche difesa della propria tradizione e della propria identità.

Un Occidente, dunque, che smetta di «non amare più sé stesso» (papa Ratzinger) e sia consapevole che la sua grande civiltà è stata la prima ad avere eliminato la schiavitù, ad avere emancipato le donne, ad avere vinto la fame e la povertà. Si tratta, come si vede, di una proposta ben diversa e ben più alta di un programma di partito.

Il messaggio di questi uomini di cultura laici e tuttavia religiosi, come Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Gaetano Quagliariello e altri, anche se non rifiutano un secondario impegno politico, è primariamente di altro genere. Possiamo sintetizzarlo in tre punti principali. Vi è, anzitutto, una anamnesi storica. Fra tutte le grandi nazioni occidentali, l’Italia ha raggiunto molto tardi l’unità e l’ha ottenuta contro la propria tradizione culturale. Il Risorgimento è stato fatto per l’Italia contro la Chiesa. Diversamente in Spagna, Inghilterra, Francia, Austria, Olanda, Stati Uniti, dove la religione cristiana, cattolica o riformata, è stata sin dall’inizio il fondamento dell’unità nazionale.

Anche la società civile della Germania, che pure è divenuta Stato nazionale solo alla fine dell’Ottocento, sin dall’inizio è stata permeata di valori cristiani: quelli di Bonifacio, ma anche di Lutero, che con la sua traduzione della Bibbia diede alla nazione una lingua e una cultura comuni. In Italia, invece, il Risorgimento fu, forse per necessità più ancora che per volontà, anticlericale. Nonostante non pochi cattolici vi abbiano contribuito.

Questo processo produsse in molti una scissione tra cittadino e credente, che fu solo politicamente sanata dal Concordato tra Mussolini e il cardinale Gasparri, ma che rimase a lungo nella contrapposizione tra laico (che significava illuminista e anticlericale) e credente (che significava conservatore e clericale).

Fu uno strappo forte, che ha avuto bisogno di più di un secolo per rimarginarsi. Come mostra la situazione della scuola in Italia, che non consente ai genitori di esercitare uno dei fondamenti della democrazia: la libera scelta del tipo di educazione da dare ai propri figli. Ogni sana educazione, di ogni scuola, da chiunque sia gestita, è «pubblica».

Ma «pubblico» è stato fatto coincidere con «statale», di modo che le scuole «libere», con una operazione a metà tra la degradazione e il ricatto, si sono trovate dequalificate a scuole «private». È solo un esempio del radicale contrasto ereditato dal Risorgimento, che ha sempre reso difficile il dialogo tra laici e credenti.

Vi è, poi, una analisi politica. Che le radici cattoliche del popolo italiano fossero ancora profonde, fu mostrato dalla prima fase della nostra Repubblica democratica. Dove un partito che si definiva, e allora largamente era, a ispirazione cristiana raggiunse la maggioranza assoluta dei voti, non senza l’intervento del mondo ecclesiale, non ancora nebuloso e subalterno. Era un partito che guardava alla convergenza di popolarismo e liberalismo, che seppe non solo difendere la libertà, ma anche operare la ricostruzione e la modernizzazione del Paese.

Purtroppo durò poco e la prima Dc (quella cattolico-liberale di De Gasperi e Vanoni, Scelba e Segni, nel solco di Sturzo) fu cancellata da una nuova (di Dossetti e Fanfani, Moro e De Mita), volta a spendere a sinistra (con l’alleanza dapprima con i socialisti ancora frontisti, poi con i comunisti) il voto moderato di centro. Le tristi conseguenze, economiche, sociali e morali di questa strategia non hanno bisogno di essere richiamate.

Inserita nell’Europa libera dentro il mondo bipolare della guerra fredda, l’Italia mantenne per quasi mezzo secolo una forma imperfetta di bipartitismo, tra una Dc che dominava i settori produttivi e bancari, e un Pci padrone e padrino della cultura. Solo negli anni Ottanta Craxi tentò di rompere questo schema, senza riuscirvi. E proprio alla fine degli anni Ottanta avvenne quell’evento, che modificò tutti gli equilibri e tutte le alleanze: la caduta del muro di Berlino, la conquista della sovranità nei Paesi satelliti di Mosca, la dissoluzione dell’impero sovietico.

Tale evento internazionale fu seguito, in Italia, dalla dissoluzione, per ragioni non certo nobili, del sistema dei partiti. Alcuni si estinsero e quasi tutti dovettero cambiare nome. In particolare, i tre partiti più nobili della storia d’Italia – liberali, socialisti, popolari — quasi cessarono di esistere. In particolare la Dc, che, nonostante discussioni e contrapposizioni, aveva sempre incarnato, con le sue molte correnti, l’unità dei cattolici in politica, si è frammentata in piccole entità ospitate dai due contrapposti condomini della destra e della sinistra.

In questo clima di incertezza e di frammentazione, il mondo occidentale fu scosso da un evento senza precedenti: la distrazione delle due torri di New York, che rivelò non solo la capillare organizzazione del terrorismo islamico, ma anche e ancor più la forte contrapposizione del mondo islamico all’Occidente. Si capì che le guerre non hanno come cause solo gli interessi dinastici o economici, ma anche quel complesso di valori e di credenze che chiamiamo «civiltà» e che trovano nella religione il loro motore più importante.

Nessuno vuole né lo scontro di civiltà né la guerra santa; il problema è diverso: se altri vogliono lo scontro di civiltà e la guerra santa, che cosa dobbiamo fare per farla tacere o almeno renderla meno disastrosa? Possono una nazione o un continente incerti sulla loro identità elaborare una strategia di risposta? Una Europa che ha rifiutato di ricordare nel suo Trattato costituzionale la tradizione cristiana di cui è figlia? Una Italia che attraversa la più grave crisi morale della sua storia, dato che per la prima volta non abbiamo solo la violazione delle regole di morale sociale (cosa che è sempre accaduta), ma la contestazione di ogni criterio permanente di verità e di morale?

Infine, questi cosiddetti teocon avanzano una proposta politica. Che trova il suo fulcro nella costatazione che la formula liberale e cavouriana della «Libera Chiesa in libero Stato», la quale, come è noto, fu inventata dal cattolico liberale Montalembert, è certo valida, ma non sufficiente. Essa lascia supporre che la religione appartenga solo alla privacy del cittadino, quasi una sorta di hobby per la sua vita intima. Ora non v’è dubbio che la religione è una scelta personale, che nasce nell’intimità della coscienza. Ma non è solo questo.

Cristiani, liberali e socialisti debbono oggi riscoprire proprio la vera laicità, che ha il suo fondamento nella distinzione fatta da Gesù tra Dio e Cesare. Non è il laicismo intollerante della tradizione francese, forma spuria del vecchio integralismo clericale capovolto, ma quello definito dalla cultura anglosassone.

Cristiani & liberali per l’Europa

E la distinzione tra religione e politica, ma non la loro separazione e incomunicabilità. Una distinzione che si traduce in rispetto e collaborazione, come è stato affermato, nel 1984, dall’Accordo di revisione dei Patti Lateranensi: «Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Essi si impegnano alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese» (art. 1)

Non deve allora stupire che proprio questi intellettuali laici siano stati fra i più forti difensori della libertà per il Papa di esprimere i princìpi etico-antropologici e le conseguenti linee generali dell’agire politico: sia di quelle che sono la necessaria conseguenza di una scelta e di una appartenenza religiosa, sia di quelle che, fondate sulla ragione naturale, riguardano tutti gli uomini, credenti o meno che siano. Soprattutto Giuliano Ferrara, su Il Foglio, è intervenuto più volte in tal senso e non ha mancato di pubblicare integralmente discorsi dei papi Wojtyla e Ratzinger, come pure interventi di vescovi e cardinali (come Giacomo Biffi o Camillo Ruini).

La cosa appare tanto più singolare, in quanto questi intellettuali laici non si sono, come insinuano i laicisti clericali con lo scopo di denigrali, «convertiti» alla fede cristiana professata nella Chiesa. La conversione è un fatto intimo, che accade nella profondità dell’anima. E nel giudicare quella degli altri ciascuno dovrebbe dare giudizi più cauti.

Ciò che appare con evidenza, negli scritti di questi autori, è la necessità di riproporre l’unione stretta di democrazia e princìpi evangelici, di impegno politico e tradizione cristiana del nostro continente. È in tal senso che alcuni di loro non hanno esitato a dialogare con il Papa, cosa che, nell’epoca del duro contrasto tra «laici» e «cattolici», sarebbe stata davvero diffìcile. Si pensi a vivaci e diffusi confronti come quelli contenuti in alcuni recenti saggi: J. Habermas – J. Ratzinger, Etica, religione e Stato liberale (Laterza, Bari 2005); J. Ratzinger – J. Habermas, Ragione e fede in dialogo (Marsilio, Padova 2005); M. Pera – J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam (Mondadori, Milano 2004).

Ciò che emerge da tutti questi scritti è dunque un’alleanza, politica certo, ma in prima istanza culturale, tra le due tradizioni costitutive dell’Europa: il cristianesimo e il liberalismo; da un lato un cristianesimo purificato dal temporalismo e, dall’altro, un liberalismo vaccinato contro le pretese di porsi come una «religione civile», sostitutiva della religione rivelata, che relega la fede cristiana nella inefficace e narcisistica intimità della coscienza (cfr Gaetano Quagliariello, Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro di Berlino, Mondadori, Milano 2006).

Il «dio» che va riscoperto è quello della tradizione europea, quello che è proibito nominare a Strasburgo. È il Dio pregato nelle chiese, ma anche quello presente nella vita di tutti, anche di chi non ci pensa e talvolta crede di negarlo, in quanto, se siamo europei, «non possiamo non dirci cristiani» (Croce) e «anche gli atei sono cristiani» (Chabod). Nel binomio teocon, il «con» significa «conservatori» solo rispetto alle correnti nichilistiche della modernità, che della tradizione hanno preteso di fare piazza pulita.

Ma significa, soprattutto, in un momento di così grave crisi, morale e sociale prima che economica e politica, essere «tradizionalisti», ossia portare avanti, con continui aggiornamenti e riforme, una precisa identità, che, formatasi in Europa, si è tradotta con successo in America. E che ha, per tutti, un nome: cristianesimo.

Se vogliono difendere la libertà e la giustizia, tutelare la vita, promuovere la famiglia e la scuola, ricostruire una comunità efficiente e solidale, laici e cattolici non possono più combattersi. Occorre che si rimbocchino le maniche e lavorino insieme in tal senso. Forse ci troviamo nel momento giusto, dato che ai cattolici liberali si sono aggiunti i liberali cattolici.