I vizi capitali sono ancora attuali?

vizi_capitaliLa Civiltà Cattolica
quaderno n. 3791 del 7 giugno 2008

di Giovanni Cucci s.j.

Che cosa sono i vizi? Per quale ragione alcuni di essi sono chiamati «capitali»? Quali sono? E perché questi e non altri? Probabilmente non molti saprebbero rispondere con precisione a queste domande, in ambito sia laico sia ecclesiale, ritenendo forse che si tratti di un discorso inutile e superato, incapace di parlare all’uomo di oggi.

Il filosofo Galimberti, autore di una delle (poche) pubblicazioni dedicate a questo argomento, suggerisce di accostare alla classica lista dei vizi capitali un nuovo elenco di ciò che di fatto occuperebbe il cuore e la mente dell’uomo contemporaneo (1).

Questo modo di sentire sembrerebbe trovare consenso anche altrove; un sondaggio compiuto qualche anno fa dalla Bbc rileva che «la maggioranza della popolazione britannica non crede più che i sette vizi capitali abbiano alcuna rilevanza nella loro vita, e pensano che dovrebbero essere aggiornati, per rispecchiare la società moderna […]. In cima alla lista c’è ora la crudeltà, seguita dall’adulterio, dal fanatismo, dalla disonestà, dall’ipocrisia, dall’avarizia e dall’egoismo» (2).

In realtà il discorso sul vizio, così come è stato consegnato dalla riflessione filosofica, psicologica e spirituale, non intende affatto presentarsi come una pedante e antiquata modalità di complicarsi l’esistenza; esso è piuttosto questione di vita o di morte. I vizi ci accompagnano nel corso della giornata, e anche se talvolta facciamo fatica ad accorgercene, non sono affatto scomparsi: eliminati dalla saggistica e dai trattati di morale, si sono riversati nelle pagine dei quotidiani, come si può notare anche da un sommario sguardo alle notizie di cronaca di una nazione che sembra essere il modello del benessere, dell’abbondanza e della liberalizzazione:

– «Yuppies arroganti ed egoisti soffrirono di depressione e altri problemi psicologici durante la crisi degli anni 1990-91, quando vennero messi fuori occupazione e improvvisamente capirono che erano molto meno importanti di quanto credevano di essere. Un terapista li ricorda così: “I miei pazienti erano molto amari […]. Molti di loro venivano da famiglie medio-alte, dalle migliori scuole e sentivano di avere il passaporto per il successo”» (3).

– «Milioni di uomini e donne sono così insoddisfatti del loro corpo che si sottopongono alla chirurgia plastica, e cercano supporto psicologico per la bassa autostima» (4).

– «Durante un processo un uomo esplode otto colpi contro il suo accusatore, proprio di fronte alla moglie. Era descritto come un uomo di indole sanguigna, molto nervoso per l’eccesso di lavoro, e molto irascibile con i colleghi» (5).

– «Alcuni studenti, invidiosi dei successi accademici di un compagno, hanno distrutto i risultati delle ricerche di laboratorio in cui aveva investito lunghe ore di duro lavoro. Speravano così di impedirne l’accesso alla Facoltà di medicina» (6).

– «Un intraprendente senatore, con reputazione di alta integrità, è stato messo sotto inchiesta da una Corte federale per corruzione e sospettato di molte operazioni illecite a carattere economico. Un senatore suo amico aveva così commentato: “Ancora non credo sia una cattiva persona. Soltanto era diventato sempre più avido, prendendo tutto per sé. Non avrebbe dovuto permettere che gli capitasse questo”» (7).

– «Milioni di americani fumano, mangiano e bevono rovinando la propria salute, incuranti di stare in una marea di potenziali malattie poiché non riescono a controllare la propria avidità per il cibo, il bere e le droghe di vario tipo» (8)

– «Una banda di quartiere ha colpito, violentato e accoltellato 132 volte una donna prima di abbandonarla in un campo a morire. Il motivo di tutto ciò era la noia; uno di loro ha dichiarato in proposito: “Non c’era nulla da fare e così ho proposto di andare fuori e uccidere qualcuno”» (9).

Il vizio dunque, cacciato dalla porta del pensiero e della riflessione, rientra dalla finestra della passione ordinaria. Vale perciò la pena di occuparsene in maniera più distesa.

La riflessione sui vizi capitali nasce in un ambiente profondamente religioso e austero, come gli eremi del deserto egiziano e i monasteri dei secc. III-V, e raggiunge la sistemazione che oggi conosciamo soprattutto ad opera di Cassiano e Gregorio Magno (10).

Le loro riflessioni presentano ogni possibile situazione di vita, di classe sociale, di problematiche presenti nella giornata di ogni essere umano. Come riconoscevano due studiosi presentando una ricerca in proposito: «Parlare dei vizi ci ha indotto a toccare temi vasti e importanti: il corpo, l’anima, le donne, gli intellettuali, il lavoro, la guerra, il denaro […] rappresentano l’inevitabile retroterra di molte delle riflessioni che attorno ai vizi si aggregano e sono una delle ragioni per le quali la cultura medievale ha dedicato ai vizi capitali tante energie e tanta attenzione: il discorso sui vizi si rivela in realtà una sorta di enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un efficace schema classificatorio per parlare, proprio come sostenevano i monaci, del “mondo”. In questo forse sta la radice del suo successo» (11).

Questo tipo di analisi è importante anche perché riconosce un senso alla realtà: classificare le azioni in «virtuose» o «viziose» presuppone infatti una visione unitaria della vita e un significato dell’agire umano capace di valutarle, due elementi decisivi per il pensiero, e per nulla ovvi.

La stessa parola «trasgressione» riconosce una norma da cui si prendono le distanze; si potrebbe dire dei vizi quanto il regista polacco Kieslowski aveva detto dei comandamenti, giustificando la scelta di dedicarvi una celebre serie di film: «Essi riassumono l’intera nostra esistenza, ciò che siamo e ciò che vorremmo essere: tutti li disattendiamo eppure tutti ci riconosciamo in essi».

Una tale riflessione può essere compiuta perché posta alla luce di un orizzonte di senso più grande dei limiti e dei difetti riscontrati, il che infonde forza e coraggio al combattimento spirituale, specie nel momento della prova: «La fortuna del settenario è legata all’idea che esista un ordine “naturale” dei vizi, che ci siano alcuni vizi — sette o otto — più importanti di altri, vizi “capitali” […]. Che si adotti lo schema di Cassiano o quello di Gregorio o un sistema ibrido, nella sterminata letteratura sui vizi capitali un punto rimane assolutamente fermo per tutto il Medioevo: l’universo della colpa è un universo ordinato».(12)

Che cos’è un vizio capitale?

La tradizione filosofica e spirituale classica indica con il termine «vizio» un habitus negativo. Habitus viene impropriamente reso con il termine italiano «abitudine», anche se è possibile riscontrare elementi comuni, come la facilità a compiere un’attività, un apprendimento consolidato dall’uso frequente, «una certa stabilità nell’agire, che costituisce come una seconda natura» (13).

Ciò che tuttavia differenzia un habitus da una «abitudine» è che il primo coinvolge la persona negli aspetti più profondi dal punto di vista psicologico, morale e spirituale, mentre l’abitudine è quasi una sorta di automatismo (14) che conferisce stabilità all’esistenza, rende più facile il compimento di un’azione risparmiando tempo ed energie.

Sia l’habitus sia l’abitudine sono comunque frutto di una ripetizione compiuta nel tempo, e questo le differenzia dalla singola azione, buona o cattiva: in campo morale un singolo peccato non distrugge la virtù, né una buona azione è sufficiente a smantellare un vizio. I termini «vizio» e «virtù» intendono porre l’accento sulla storicità e continuità dell’agire umano, che con le sue scelte delinea un percorso, un orientamento di fondo all’esistenza, un vero patrimonio di bene e di male che si accumula nel tempo, modificando profondamente la persona (15).

Vizi e virtù sono dunque «abiti» morali che conducono a esitI opposti: la virtù a conseguire con maggiore facilità il fine dell’uomo (16), perfezionando se stesso, mentre il vizio lo disattende, giungendo alla distruzione morale, psichica e fisica del soggetto (17). Queste due opposte direzioni erano ben tratteggiate dagli exem-pla, gli aneddoti in voga nella predicazione medievale; si pensi, ad esempio, alla seguente storiella circa la perversione anche intellettuale cui può condurre un vizio come l’invidia: «Un giorno Dio disse a un uomo invidioso che gli avrebbe concesso qualunque cosa avesse chiesto, preavvisandolo che ne avrebbe tuttavia concesso il doppio al suo vicino. Egli dopo aver pensato lungamente, disse: “Ebbene, voglio che tu mi cavi un occhio, così all’altro dovrai cavarglieli tutti e due”» (18).

San Tommaso, riprendendo la riflessione dei Padri della Chiesa, definiva alcuni vizi come capitali perché essi, analogamente al comandante di un esercito, comandano tutti gli altri vizi: «Perché un vizio possa dirsi capitale si richiede che abbia un fine molto appetibile, cosicché per la brama di esso si commettono molti peccati» (19).

Il criterio della loro identificazione risiederebbe così in un bene particolarmente bramato, il possesso del quale comporta però insieme la perdita di un altro bene ad esso corrispettivo: «II bene dell’uomo è triplice: cioè il bene dell’anima, il bene del corpo e il bene delle cose esteriori. Dunque al bene dell’anima, che è un bene immaginato, cioè l’eccellenza dell’onore e della gloria, è ordinata (come al proprio fine) la superbia o vanagloria.

Invece al bene del corpo riguardante la conservazione dell’individuo, cioè il cibo, è ordinata la gola; al bene, poi, del corpo in quanto conservazione della specie, come accade nei piaceri venerei, tende la lussuria. L’avarizia, invece, mira al bene delle cose esteriori» (20).

I vizi rimanenti sono considerati da Tommaso come tendenti ad allontanare l’essere umano dal suo fine proprio, spegnendo l’energia e il desiderio di compiere il bene, e sono l’accidia, l’invidia e l’ira (21); Tommaso parte dalla premessa che l’uomo cerca sempre il bene, anche nel vizio, perché ogni sua azione è animata dall’amore, dal desiderio di essere felice.

Ma un tale desiderio può trovare il suo compimento soltanto mediante l’azione virtuosa, rispettosa di tutti i molteplici aspetti del bene: «La gioia e il piacere riguardano il bene presente e posseduto; il desiderio e la speranza un bene non ancora posseduto. L’amore, invece, riguarda il bene in generale, posseduto o non posseduto […]. L’amore è il principio di tutte le affezioni, e perciò quando si dice che la virtù è l’ordine dell’amore, la predicazione indica la causa non l’essenza: infatti non ogni virtù è essenzialmente amore, ma ogni affezione della virtù deriva da un qualche amore ordinato; e similmente ogni affezione del peccato deriva da qualche amore disordinato» (22)

«Un qualche amore ordinato…», questo è il punto centrale della questione: ciò che fa la differenza tra vizio e virtù non è tanto la ricerca del bene, presente di fatto in ogni azione umana, ma la ricerca ordinata del bene, tale cioè da consentire all’essere umano di raggiungere il fine per cui è stato creato.

Nel comportamento vizioso il bene conseguito è parziale e mutilo, perché va a scapito di altri beni essenziali; quando invece l’uomo consegue il bene a lui proprio, mediante gli atti di virtù, può raggiungere altri beni ad esso collegati, attuando in pienezza i vari aspetti della sua vita. È proprio infatti del bene mostrare armonia e semplicità di fondo, mentre al contrario il male porta a divisioni e lacerazioni, dentro e fuori di sé (23).

Questa conclusione non è altro che l’applicazione concreta della caratteristica essenziale del bene: l’essere unità e proporzione. Il vizio, pur raggiungendo un bene, ne smarrisce altri, anzitutto quel bene fondamentale che è la libertà; inoltre, distruggendo l’armonia e l’unità generale del proprio essere finisce, come un carcinoma impazzito, per portare la morte a chi lo ha lasciato sviluppare.

Come osserva a questo proposito lo psicologo Schimmel: «Per la maggior parte questi vizi sono manifestazioni del nostro rifiuto di padroneggiare i nostri impulsi fisici e psicologici […]. Mangiare quanto più ci piace, dormire con chiunque si voglia, guadagnare ricchezze illecite quando c’è poca probabilità di essere individuati, e attaccare violentemente chi ci frustra o urta è più facile che esercitare resistenze a queste tentazioni.

Nel caso della pigrizia, preferiamo voltare gli occhi e il cuore da un’altra parte e così evitare coinvolgimenti. Questo fallimento nello sviluppo e uso dell’autocontrollo riflette il ridotto interesse della moderna cultura nei confronti dei valori morali e nell’educazione di un buon carattere» (24).

Questo abbaglio avviene perché le tentazioni e i vizi assumono la sembianza di falsa virtù e ingannano la mente e il cuore, un fatto questo ben conosciuto dagli antichi (25). Da qui la sottigliezza e l’acume, proprie della sapienza, richieste per differenziare il vizio dalla virtù, perché tra le due si mette di mezzo non soltanto la considerazione del bene, ma anche l’allettante seppur falsa attrattiva della passione (26).

San Tommaso nota come le passioni manifestino la potente capacità di indebolire le decisioni dell’uomo, in quanto la volontà mira al bene in universale, mentre le passioni si soffermano su di un particolare bene, che da un lato si mostra più limitato, ma dall’altro è più immediato, facile da raggiungere e soprattutto alletta la sensibilità (27). È dunque indispensabile riconoscere ciò che, pur attraente, si rivela essere un pericoloso veleno, ed è prezioso riconoscerlo in tempo, senza dover attendere il momento in cui, troppo tardi, ci si trova a fare i conti con le conseguenze deleterie del vizio.

Un discorso di questo genere è anche una chiara contestazione della tendenza a eliminare gli ideali dalla vita; quando ciò avviene l’essere umano si abbrutisce e manifesta gli aspetti peggiori di sé. Si possono riprendere alcune considerazioni dello scrittore B. Marshall a proposito di ciò che chiamava «la nuova ipocrisia»; «Un tempo la gente si fingeva migliore di quello che non fosse: ora invece si finge peggiore.

Un tempo, gli uomini assicuravano di andare in chiesa la domenica anche se non ci andavano: ora invece raccontano che la domenica vanno a giocare a golf, e chissà come ci resterebbero male se i loro amici scoprissero che invece vanno in chiesa!

In altri termini, l’ipocrisia, una volta, era — come dice uno scrittore francese — il tributo che il vizio paga alla virtù, mentre ora è il tributo che la virtù paga al viziò: e questo, secondo me, è uno stato di cose molto peggiore dell’altro, perché significa che i nostri ideali sono in decadenza e che non abbiamo più il coraggio di essere persone per bene neppure dentro di noi: stiamo invece prendendo anche internamente quell’aspetto che, per motivi di rispetto umano, mostriamo al di fuori»(28).

Il rischio dell’ipocrisia, denunciato con chiarezza dal Vangelo, non porta a ritenere inutile il valore, perché è un elemento di speranza di fronte alle cadute; è questa tensione insopprimibile tra l’ideale e il limite, tra il vizio e la virtù a rendere la vita «umana» e degna di essere vissuta. Come osservava in proposito Montale: «Guai a distruggere i vizi, si rischia di trasformare il mondo nel più arido dei deserti. Se mai, bisogna venire a patti con loro, provocandoli a giocare una partita senza trucchi. È solo comportandosi così che l’uomo può esorcizzare il loro potere malefico e quindi salvare la propria anima» (29)

Vizi e riflessione psicologica

Tutto ciò ha la sua importanza anche dal punto di vista psicologico. La psicanalisi di Freud presenta in forma nuova intuizioni proprie della filosofia classica, come, ad esempio, l’importanza dell’interpretazione e rilettura della propria vita in prospettiva terapeutica: la comprensione di ciò che è accaduto gioca un ruolo fondamentale per la cura della psiche, intesa anzitutto come crescita della conoscenza di sé, mettendo in atto adeguati cambiamenti (30).

Scopo della psicoterapia è di rendere la persona contenta della propria vita e dunque, poiché il vizio ne è la negazione, dovrebbe mirare a introdurre regole che consentano di padroneggiare con maggiore libertà e consapevolezza il comportamento umano, piuttosto che semplicemente indulgervi senza alcun freno (31). Per Freud la perversione è una malattia che rende tristi e infelici coloro che ne sono afflitti, e la sua proposta terapeutica non è mai stata orientata a vivere la sessualità senza regole e controllo: nella sua concezione la psicanalisi non si propone affatto di distruggere ogni norma morale, e nemmeno di esaltare un’impostazione di vita libertina (32).

Il punto di arrivo della riflessione psicologica e psicanalitica in proposito è straordinariamente simile alla morale classica: indulgere al vizio conduce alla scomparsa stessa del piacere (33). Le osservazioni compiute da Freud sui perversi giungono alle medesime conclusioni di chi ha analizzato la tendenza a enfatizzare il desiderio e le aspettative sessuali, come avviene, ad esempio, nella ninfomania: «Molti ninfomani sono incapaci di ricavare soddisfazione emotiva dal sesso. L’incessante aumento del loro desiderio sessuale può risultare da una forma di disturbo cerebrale, psicosi, abuso di sostanze, o ad acting out dovuti a qualche problema emotivo» (34).

Quanto la promiscuità sessuale, tipica della lussuria, sia psicologicamente distruttiva può essere mostrato dalla descrizione compiuta da Giddens di una giovane paziente, Gerri, che era ricorsa a una terapia di sostegno: «Gerri ha vissuto una vita così schizofrenica come quella di qualsiasi uomo che cercasse di abbinare l’integrità sul lavoro con la ricerca sistematica di conquiste sessuali nella sfera non lavorativa. Durante il giorno Gerri faceva l’insegnante di appoggio in una scuola.

La sera a volte seguiva delle lezioni, ma frequentava anche bar per single e aveva avuto rapporti sessuali con quattro uomini diversi, ognuno dei quali era all’oscuro dell’esistenza degli altri tre. La sua esistenza entrò in crisi quando scoprì che, nonostante avesse preso più precauzioni del solito, aveva contratto una malattia venerea (per la dodicesima volta nella sua vita).

Volendo rintracciare tutti gli uomini che aveva contagiato, avrebbe dovuto mettersi in contatto con non meno di quattordici uomini con i quali aveva avuto dei rapporti in un breve periodo» (35). Sarebbe anche importante domandarsi, continua l’Autore, come mai il fenomeno delle dipendenze, ai suoi vari livelli, sia diventato così diffuso e diversificato, ben al di là della classica «sostanza stupefacente», e si ritrovi nelle situazioni più varie dal punto di vista occupazionale, di situazioni di vita e di classi di appartenenza, sviluppandosi in modo così massicciamente invasivo nelle nostre società (36)

I vizi capitali dunque, che lo si voglia o meno, fanno spesso capolino in sede terapeutica e interpellano la visione della vita del cliente come del terapista: «I sette vizi sono direttamente collegati a una serie di problemi di cui si occupa la psicologia clinica e sociale. Bassa stima di sé, aggressione, animosità razziale, ansietà economica, stress, obesità, disfunzioni sessuali, depressioni e suicidio sono tra i principali problemi direttamente collegati ai sette vizi capitali […]. Noi all’inizio possiamo non riconoscere la connessione tra un vizio capitale e i suoi indiretti effetti ma una più profonda indagine spesso lo rivelerà. L’anedonia, ad esempio, la disperazione di trovare significato e scopo nella vita, è rintracciabile in parte nel materialismo proprio della gola, nella spirituale apatia dell’accidia, e nel narcisismo della superbia» (37)

Senza un approccio etico e spirituale diventa tuttavia problematico aiutare le persone: la terapia non può fare a meno di offrire concreti elementi di riferimento, e nemmeno ridursi a un vago appello a seguire «ciò che si sente».

Al fondo della difficoltà odierna a riconoscere la radice dei problemi in sede terapeutica si riscontra la mancanza di un approccio sapienziale all’esistenza, in grado di ricomporne i differenti aspetti, in particolare l’inscindibile legame di azioni e valori che caratterizza l’agire umano, in modo da offrire una concreta speranza di vivere diversamente. In proposito lo psicologo H. Mowrer sottolinea come le nevrosi e le depressioni siano spesso conseguenza di un lassismo sfrenato e della mancanza di una visione unificata, capace di dare significato alle azioni, lasciando le persone con una sensazione di vuoto e insofferenza verso la vita (38).

All’origine dei problemi oggetto di cura psicologica si trova spesso una mancanza di senso in ciò che si vive e insieme una sua richiesta, talvolta non detta ma urgente; una richiesta sapienziale direbbe Socrate, la domanda circa la virtù. Rileggendo in tale prospettiva un vizio così diffuso nel nostro tempo, come l’accidia, si potrebbe riconoscere anche in sede psicologica come il problema di fondo abbia una radice eminentemente spirituale, che va affrontata come tale.

Dal punto di vista terapeutico Jung individuava a questo proposito uno spartiacque a partire dal momento in cui, più o meno a metà della vita, la problematica religiosa si fa sempre più presente in sede di colloquio, o diventa addirittura la motivazione fondamentale che spinge la persona a cercare aiuto: «Tra tutti i miei pazienti che avevano più di 35 anni, non ne ho trovato uno il cui problema ultimo non fosse rappresentato dal suo comportamento religioso. Anzi, in ultima analisi, ognuno si ammala perché ha perduto ciò che le religioni vive hanno dato in tutti i tempi ai loro fedeli, e nessuno è realmente guarito se non ha ricuperato la propria dimensione religiosa, il che naturalmente non ha nulla a che vedere con la confessione o con l’appartenenza a una Chiesa. Prima o poi il tema religioso fa capolino nel racconto di vita dei pazienti e non costituisce una cosa di poco conto nella lettura del senso della propria vita».

Quasi 40 anni più tardi Jung riconfermava questa osservazione negli stessi termini (39).

Un messaggio di speranza

Alla base della riflessione sui vizi c’è comunque una visione di grande fiducia nella libertà e nella bontà dell’uomo, considerato capace di riconoscere il bene e di attuarlo; gli scritti dei Padri della Chiesa mostrano specularmente l’immagine di un uomo autentico e di una vita all’insegna della sapienza. Ma non erano i soli ad affermare ciò: un insegnamento costante della tradizione filosofica e spirituale a questo proposito è che ogni vizio può essere trasformato nella sua corrispondente virtù, vale a dire che i nostri desideri possono trovare il loro oggetto adeguato.

Questa era la conclusione della filosofia classica: per i greci, Platone e Aristotele in primis, con la ragione si può vincere se stessi e conseguire la virtù, che è il governo ordinato di sé. Aristotele, quando parla del giusto mezzo, ad esempio di fronte all’ira (40), presenta un interessante percorso terapeutico per far fronte alle proprie incapacità; considerazioni analoghe si ritrovano anche nello stoicismo che sviluppa una pratica di vita ascetica che darà poi origine agli esercizi spirituali (41).

Autori differenti tra loro per epoca ed estrazione sociale hanno dato origine a una corrente di pensiero unitaria ed estremamente ricca, che va tutelata e valorizzata, perché rischia di essere sbrigativamente messa da parte in nome di un’ambigua e superficiale «liberalità»: «L’idea degli stoici, dei rabbini, degli scrittori cristiani che dobbiamo purificare le nostre vite interiori (pensieri, inclinazioni, emozioni…) non meno di quanto viene espresso all’esterno è alieno dal temperamento moderno […]. Qualunque sia la fonte delle tentazioni, i teologi considerano l’essere umano come capace di resistervi con la sua volontà nella misura in cui la sua ragione sia integra. La somiglianza fra le tre tradizioni morali circa il vizio, la virtù e la natura umana sono più grandi delle loro differenze» (42).

Chiamare la colpa e il vizio con il loro nome non costituisce affatto una crudele umiliazione della spontaneità umana, ma un atto di libertà: è sapere di essere più grandi di ciò che si è compiuto, riconoscendo che si poteva agire diversamente ravvisando possibilità sempre presenti, anche per il vizioso più incallito.

Ciò diventa anche un messaggio di speranza, riconoscendo che dal male è possibile uscire, poiché esso non costituisce né la prima né l’ultima parola dell’agire umano. Il male può infatti essere riconosciuto dall’essere umano soltanto alla luce di un bene più grande che lo abita e gli consente di scorgere anche una possibilità di riconciliazione (43).

E dunque auspicabile che la riflessione sui vizi, da mero dato di cronaca, riprenda il proprio ruolo di rilettura sensata dell’agire umano, recuperando un patrimonio antico e ricchissimo ma poco conosciuto.

Note

* Per un approfondimento cfr G. Cucci, II fascino del male. I vizi capitali, Roma, AdP, 2008.

1) Cfr U. galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli, 2003. I nuovi vizi che secondo Galimberti dovrebbero prendere il posto della lista «classica» (superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria, accidia) sono: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto.
2) C. BROWN, «Out with the old Deadly Sins, in with the new», in Scotsman, Edinburgh, 7 febbraio 2005, citato in M. E. DYSON, Superbia, Milano, Cortina, 2006, 7.
3) In New York Times, November 7, 1990.
4) Ivi, February 7, 1991.
5) Ivi, May 16, 1991.
6) Ivi.
7) IviJune6, 1991.
8) S. SCHIMMEL, Thè Seven Deadly Sms, New York, Oxford University Press, 1997, 2; il libro costituisce anche la fonte di questi fatti di cronaca.
9) In New York Times, May 27, 1991.

10) Cfr G. CASSIANO, s., Le istituzioni cenobitiche, V-XII; GREGORIO MAGNO, s., Moralia, XXXI, 45, 89.
11) C. CASAGRANDE – S. VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, XVI.
12) Ivi, 183 s.
13) V. MIANO, «Abito, abitudine», in Enciclopedia filosofica, voi. I, Milano, Bompia-ni, 2006, 37.
14) Ivi.
15) Quanto l’azione malvagia divenuta vizio arrivi a plasmare anche somaticamente la persona è mostrato in modo efficace dal romanzo di O. WlLDE, Il ritratto di Dorian Gray: a ogni abominio compiuto dal protagonista il suo ritratto diventa sempre più ripugnante, mostrando plasticamente come il male deformi l’animo di chi lo compie.
16) II fine ultimo dell’uomo, ciò per cui è stato creato, è la conoscenza e comunione con Dio; gli altri beni (economici e culturali) sono un aiuto a conseguire il bene ultimo, raggiungendo in tal modo il loro scopo proprio. È la circolarità propria della morale secondo virtù (cfr Summa Theol, I-II, q. 94, a. 2). Cfr anche De malo, q. 8, a. 1, riportato più avanti.
17) Ciò è reso manifesto, ad esempio, dai vizi della gola e dalla lussuria, che comprendono comportamenti essenzialmente distruttivi come la bulimia, l’alcolismo, la dipendenza da sostanze, l’erotismo: «Alla bulimia sono associati dipendenza da alcool, furti nei negozi e labilità emotiva (compresi tentativi di suicidio) […], dipendenza da sostanze e relazioni sessuali autodistruttive» (H. KAPLAN – B. SADOCK, Psichiatria. Manuale di scienze del comportamento e psichiatria clinica, vol. II, Torino, Centro Scientifico Internazionale, 2001, 727).
18) Cfr GIOVANNI DI SALISBURY, Policraticus, VII, 24.
19) TOMMASO D’AQUINO, s., Summa Theol., li-li, q. 158, a. 6.
20) ID., De malo, q. 8, a. 1.
21) Ivi, q. 8, a. 1.
22) id., Summa Theol., I, q. 20, a. 1; Io., De malo, q. 11, a. 1, ad 1.
23) «Come dice Dionigi, il bene è causato da una sola e integra causa, mentre il male è causato da difetti particolari; come la bellezza è causata dal fatto che sono disposte, secondo una conveniente proporzione, tutte le membra del corpo, e se un solo membro di queste è stato disposto non secondo una conveniente proporzione produce la bruttezza» (Io., De malo, q. 8, a. 4). La proporzione caratteristica del bene è la proporzione che si ritrova nell’essere, per questo «essere» è sinonimo di «essere buono»: cfr Summa Theol., MI, q. 54, a. 1; IMI, q. 141, a. 2, ad 3.
24) S. SCHIMMEL, The Severi Deadly Sim, cit., 3.
25) «Alcuni vizi si nascondono sotto l’aspetto di virtù e vengono verso di noi con volto benevolo, ma non appena ci hanno colpito percepiamo la loro ostilità […]. Spesso l’ira smodata si presenta come giustizia, mentre la remissività eccessiva vuole apparire misericordia; il timore ingiustificato assume l’aspetto dell’umiltà, la superbia senza freno quello della libertà» (GREGORIO MAGNO, S., Mordici, III, 33, 65).
26) La passione, che dal sec. XVII viene praticamente assimilata al termine emozione, è la risposta sensibile a uno stimolo: essa può essere anche molto intensa ma è di breve durata.
27) «La volontà si muove verso il suo oggetto senza passione, poiché non si serve di un organo del corpo» (TOMMASO D’AQUINO, S., De malo, q. 8, a. 3).
28) B. MARSHALL, Il mondo, la carne e Padre Smith, Milano, Rizzoli, 1981, 122.
29) Citato in G. GRIECO, I 7 vizi capitali. Viaggio nel pianeta delle passioni umane, Milano, Paoline, 1990, 120.
30) Cfr E. R. GOODENOUGH, The Psychology of Religious Experiences, London, Basic Books, 1965, 32-35; sul rapporto tra la psicanalisi di Freud e la filosofia antica cfr C. Y. OuDAI, Freud e la filosofia antica, Torino, Boringhieri, 2006.
31) Cfr S. SCHIMMEL, The Seven Deadly Sins, cit., 5.
32) Lambertino, nel suo puntuale e accurato studio su Freud dal punto di vista morale, esclude decisamente entrambe le cose: «Freud non intendeva abrogare l’istanza morale, ma soltanto liberarla dalle pastoie della repressione e dell’ipocrisia; gioverà ricordare il suo energico rifiuto per una liberalizzazione sessuale» indiscriminata (A. LAMBERTINO, Psicoanalisi e morale in frena, Napoli, Guida, 1989, 330). Egli riporta in proposito diversi passi dello stesso Freud in cui viene respinta con decisione l’ipotesi che nella cura analitica si ponga come ideale di godersi la vita, o di assecondare le perversioni. Al contrario, «i pervertiti sono piuttosto poveri diavoli, che pagano straordinariamente caro il loro soddisfacimento difficile a conquistarsi» (S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino, Boringhieri, 1974, 290). La terapia non ha come finalità di liberare indiscriminatamente le passioni, ma è piuttosto «l’imbrigliamento della pulsione», il suo inserimento «nell’armonia dell’Io», in modo che non persegua più un «proprio autonomo binario per raggiungere il soddisfacimento» (S. FREUD, Analisi terminabile e interminabile, in Io., Opere, voi. XI, ivi, 1979, 508). Un comportamento erotico senza più norme od ostacoli di qualunque genere diventa «privo di valore, la vita vuota», al punto che una libertà sessuale «illimitata» prima della vita matrimoniale è ritenuta da Freud nefasta non meno di una libertà continuamente frustrata (S. FREUD, Contributi alla psicologia della vita amorosa, in Io., Opere 1905-1921, Roma, Newton, 2002, 448).
33) San Tommaso osserva che una delle caratteristiche peculiari del piacere è di essere un riflesso soggettivo di un bene oggettivo conseguito, un elemento indiretto che giunge quando non lo si cerca, mentre quando diventa lo scopo dell’agire e del vivere si spegne e non lo si raggiunge mai: «Neppure il godimento che accompagna il bene perfetto è l’essenza stessa della beatitudine, ma è un qualcosa che ne deriva come un accidente proprio» (Summa Theol., I-II, q. 2, a. 6; cfr anche q. 4, a. 2). Queste osservazioni sono confermate dalla riflessione filosofica più recente: il piacere non mantiene mai le sue promesse (cfr V. jankélévitch, Traile des vertus, Paris, Bordas, 1949, 5-12). L’attuale ricerca psicologica parla di «assuefazione del piacere» e di «caduta del desiderio», quando questi vengono considerati come ragione esclusiva dell’agire: «II principio del piacere è un principio di auto-sconfitta» (V. FRANKL, «The philosophical foundations of logotherapy», in id., Psycbotherapy and Existentialism, New York, Clarion Books – Simon & Scnuster, 1967, 5); lo stesso Autore mostra in uno studio più dettagliato che chi cerca il piacere come fine in se stesso non lo trova mai (cfr V. FRANKL, «Self-transcendence as a human phenomenon», in ID., The Will to Meaning, New York, Penguin Books, 1970, 31-49). Quando diventa lo scopo dell’agire e del vivere, il piacere muore.
34) S. LEVINE, «A Modern Perspective on Nymphomania», in Journal of Sex and Maritai Therapy 8 (1982)316.
35) A. GIDDENS, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società odierne, Bologna, il Mulino, 1995, 79.
36) Ivi, 77 s.
37) S. SCHIMMEL, The Seven Deadfy Sins, cit., 10.
38) Cfr H. MOWRER, The Crisis in Psychiatry and Religion, New York, D. Van Nostrand Ine, 1961. Lo psichiatra Yalom, rileggendo la varietà di persone e situazioni capitate nel corso della sua lunga professione di terapeuta, riconosceva come la ricerca di un senso capace di unificare resistenza costituisse la motivazione principale che spinge una persona a iniziare questo tipo di lavoro. La ricerca di senso è una caratteristica insopprimibile dell’essere umano: «Questo è l’interrogativo che oggi tormenta uomini e donne, molti dei quali si rivolgono alla terapia proprio a causa di questa sensazione di mancanza di senso e di scopo nella loro vita. Siamo esseri votati alla ricerca di senso. Anche dal punto di vista biologico il nostro sistema nervoso è strutturato in modo tale che gli stimoli provenienti dall’esterno vengono automaticamente organizzati dal cervello in strutture internamente dotate di senso. Funzione non ultima del senso è quella di dare una sensazione di controllo sulle cose: sentendoci impotenti e confusi davanti a fenomeni caotici e casuali, noi cerchiamo di dar loro un ordine, e facendolo ne ricaviamo la sensazione di padroneggiarli. Ma più importante ancora è il fatto che dal senso traggono origine i valori, e conseguentemente un codice di comportamento» (I. yalom, Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta, Milano, Rizzoli, 1990, 18).
39) C. G. JUNG, Psicologia e religione, Milano, Comunità, 1966, 139.
40) Cfr aristotele, Etica nicomachea, II, 6.
41) Cfr P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988.
42) S. SCHIMMEL, The Seven Deadly Sins, cit., 19.
43) È quanto riconosce Ricceur studiando la struttura della confessione del peccato come una modalità di ritorno alla bontà originaria, riaffermando la distinzione tra bene e male: «Dire che l’uomo è così malvagio che noi non sappiamo più che cosa sia la bontà, significa non dire nulla; perché se non comprendo il “buono”, non comprendo neppure il “cattivo” […]: per quanto originaria sia la malvagità, la bontà è ancora più originaria» (P. RlCCEUR, Finitudine e colpa, vol. I: L’uomo fallibile, Bologna, il Mulino, 1970, 241).