La frontiera sbagliata

eutanasiaLa Croce quotidiano

venerdì 5 giugno 2015

A leggere certa “letteratura scientifica” si vede chiaramente che non esistono centri di ricerca indipendenti da pressioni economiche

di Giuseppe Brienza

La nota rivista scientifica internazionale “Journal of Medical Ethics”, specializzata in etica medica, il 2 maggio scorso ha anticipato on line un saggio (“paper”) nel quale due “bioeticisti”, il canadese Udo Schuklenk e l’olandese Suzanne van de Vathorst chiedono l’accesso all’eutanasia per i pazienti con gravi problemi psichiatrici (cfr. Udo Schuklenk-Suzanne van de Vathorst, Treatment-resistant major depressive disorder and assisted dying, in Journal of Medical Ethics, on line version http://jme.bmj.com/, 2 May 2015).

Il testo, che è stato appena pubblicato anche su cartaceo, provenendo da due accreditati accademici (il primo docente alla Queen’s University e vicedirettore del Journal Bioethics, la seconda che insegna “Qualità della fase finale della vita e della morte” all’Università di Amsterdam), ci conferma come ormai i falsi miti del Progresso passano dritti dritti per Soloni e Centri di ricerca apparentemente neutrali… I quali in questo saggio, per quanto paradossale possa sembrare, ci fanno passare delle argomentazioni eutanasiche in salsa “anti-discriminazione”.

Sì, perché secondo loro “limitare” l’accesso all’eutanasia “solamente” a persone con malattie fisiche incurabili sarebbe un’ingiusta discriminazione nei confronti di quei malati, anch’essi incurabili, di tipo psichiatrico. «Secondo gli autori dell’articolo – commenta Samuele Maniscalco, promotore del progetto “Voglio Vivere”, creato nel 2001 per introdurre nella Costituzione italiana un emendamento che garantisca la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale -, questa diseguaglianza andrebbe sanata con provvedimenti legislativi che tengano conto della capacità del paziente di “essere in grado di esaminare e decidere il caso in questione” e dell’impossibilità di vivere una vita degna di essere vissuta (sic!) a prescindere dalla malattia. […]

Rimane però un dilemma quantomeno di tipo razionale: come può una persona depressa o un paziente psichiatrico “essere in grado di esaminare” correttamente il proprio caso e di decidere per l’eutanasia?

Ormai non vengono più citate nemmeno le cure palliative, semplicemente si chiede di uccidere le persone a richiesta: non c’è più bisogno di casi estremi per portare avanti la battaglia pro eutanasia, basta “semplicemente” essere stanchi di vivere. È questo il futuro che vogliamo per i nostri figli?» (Samuele Maniscalco, L’ultima disuguaglianza da eliminare: la morte, in “Generazione Voglio Vivere”, 4 giugno 2015).

Come abbiamo visto anche su questo giornale esaminando la “bioetica mortifera” dell’australiano Peter Singer (cfr. Niente contro Singer ma la sua “canzone” non ci piace, in La Croce quotidiano, 21 maggio 2015, p. 6), le posizioni tipo quelle di Schuklenk e van de Vathorst sono sempre meno isolate a livello “scientifico” internazionale.

Appena pochi giorni fa, aggiunge Maniscalco, al festival della Scienza medica di Bologna il britannico John Harris, docente di Bioetica e Direttore dell’Istituto per le Scienze, l’Etica e l’Innovazione dell’Università di Manchester, ha espresso i medesimi concetti, e «i dati che provengono dall’Olanda e dal Belgio, dove l’eutanasia è accessibile anche a pazienti psichiatrici, ma anche a persone con “disordini mentali” fra i quali la depressione, mostrano che la richiesta di morte è contagiosa» (art. cit.).

In questo senso le differenze fra quello che Edward Luttwak chiama (senza però colpevolmente guardare al dato etico-pubblico) “turbo-capitalismo” o “terzo capitalismo” ed il “socialismo reale” ancora vigente non se ne notano. Basti guardare ad esempio alla Corea del Nord, la cui propaganda usa spesso frasi di questo tipo: «Non esistono persone con disabilità sotto il governo dei Kim», la dinastia dei dittatori, «tutti sono uguali e vivono bene».

La diversità in un totalitarismo è una colpa ed è per questo che «i bambini disabili vengono sottratti alle madri e portati via, costretti a soffrire pene indescrivibili, quando non vengono uccisi» come ha recentemente testimoniato Ji Seong-ho, 32 anni, scappato dal Paese dopo una serie di amputazioni subite a seguito di un “incidente” (cfr. Leone Grotti, La Corea del Nord uccide i disabili perché improduttivi. Noi lo facciamo «per motivi compassionevoli», in Tempi.it, 14 dicembre 2014.

«Questo bambino [disabile] ha la capacità di crescere in modo tale da avere una vita e non semplicemente essere vivo? Se capiamo che non ce l’ha, allora dovremmo concludere che la sua vita non è degna di essere vissuta». Ma un ragionamento non dissimile da una qualsiasi autorità nordcoreana è stato fatto da Udo Schuklenk in un articolo dal titolo “I medici possono a ragione fare l’eutanasia a certi bambini gravemente compromessi”, pubblicato nel dicembre scorso su un’altra rivista scientifica, il “Journal of Thoracic and Cardiovascular Surgery”.

In questo saggio, il “recidivo” Schuklenk, ci ha spiegato che «il rispetto per la dignità umana richiede che si ponga fine alla vita dei bambini per motivi compassionevoli». L’infanticidio, infatti, secondo lui è legittimo una volta che si ragiona dal punto di vista della «qualità della vita». Il “bioetista” canadese concludeva infine che non bisogna aver paura se nel futuro i bambini verranno uccisi dopo la nascita, perché in Olanda, dove la pratica è già legale, sono stati uccisi “solo” quattro neonati in 15 anni. Le tesi di Schuklenk sono frutto del “duello” da lui condotto contro Gilbert Meilaender, dell’università di Valparaiso (Cile), il cui resoconto è stato appunto pubblicato sulle pagine della “Rivista di Medicina Toracica e Cardiovascolare”.

Per fortuna, la posizione del suo avversario, sul tema dell’eutanasia per i disabili gravi, è stata diametralmente opposta. Mentre Schuklenk ha affermato che «Nel caso di un neonato colpito da grave disabilità, la sedazione profonda non risolverebbe nulla. Al contrario, alla lunga potrebbe rivelarsi controproducente per la famiglia del piccolo paziente e per tutti coloro che gravitano attorno, inclusi medici e infermieri», secondo Meilaender è fondamentale piuttosto non dimenticare il principio della compassione: il personale medico e ospedaliero ha il dovere morale di stare vicino al paziente nel momento del dolore e della sofferenza, «sia essa fisica che psichica».

Per questo lo scienziato cileno, citando peraltro un Autore liberale e laicista, rigetta decisamente l’eutanasia con queste chiare parole: «Se mi ponessi nella posizione di decidere delle sorti di un altro essere umano, rientrerei nella categoria che il filosofo inglese John Locke chiamava “il livello inferiore delle Creature”. La mia azione andrebbe oltre l’autorità concessa agli uomini».

Il fatto è che, oggi, giocare a essere Dio non solo genera pericoli, ma tronca anche le vite di concreti esseri umani. Insomma, è un “gioco” solo per chi lo fa, e non è mai “a costo zero”. Quando se ne renderanno conto i politici e le legislazioni?