Calabresi: un’aureola per il commissario

Avvenire, 23 febbraio 2007

A 35 anni dall’assassinio nuove testimonianze sulla fede del poliziotto. Faceva parte dell’«Oasi» di padre Rotondi, per due volte pensò alla vocazione sacerdotale e s’arruolò per fare il bene in un ambiente difficile. Enzo Tortora: «Credeva fermamente in Dio»

di Roberto Beretta

«Credeva in Dio, fermamente. Quando una volta gli chiesi, nel periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico linciaggio morale a cui era sottoposto, mi rispose sorridendo: “È semplice. Credo in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto nulla di cui possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici; ho angoscia per loro, non odio. È una parola – odio – che proprio non conosco». Così scriveva Enzo Tortora (sì, proprio il giornalista di Portobello, poi divenuto a sua volta vittima di un altro linciaggio morale) il giorno dopo la morte del commissario Calabresi.

Lui, che non era credente e all’epoca faceva il cronista nella Milano delle incipienti trame terroristiche, racconta di aver voluto tempo prima conoscere «intimamente, al di là cioè dei rapporti di lavoro» quel giovane funzionario di polizia e di aver scoperto così «un ragazzo di incredibile bontà, di un rigore morale, di uno scrupolo e di una umanità che lo allontanavano le mille miglia dal ruolo di “sbirro”».

Perché Luigi Calabresi era un cristiano convinto, impegnato; e – se non lo ostentava – non aveva nemmeno paura di affermarlo, come nella tavola rotonda registrata nel 1966 per il settimanale Epoca e di cui pubblichiamo qui a fianco alcuni stralci. La fede l’aveva ereditata in famiglia, certo (era della parrocchia di Santa Pudenziana a Roma, dove esercitava il futuro arcivescovo Carlo Maccari, e frequentò scuole cattoliche), ma soprattutto la incontrò nei primi anni Sessanta – il periodo dell’università – nel movimento «Oasi» di padre Virginio Rotondi.

Sia il fondatore, sia il suo confessore don Ennio Innocenti hanno scritto testimonianze decise sulla convinzione del giovane Luigi: «Era il migliore fra tutti, per chiarezza di idee, per profondità di riflessioni». Per due volte si esaminò per lui la possibilità di una vocazione sacerdotale. Ma anche l’orientamento a entrare in Polizia dipese dal consiglio del direttore spirituale (padre Rotondi lo avrebbe poi voluto nel presidio del Quirinale) e dal desiderio di compiere il bene in un ambiente difficile: «Anche nella Polizia c’è bisogno di testimonianza cristiana», disse una volta Calabresi. Non per niente i suoi metodi erano spesso diversi da quelli dei colleghi, e talvolta il capo lo rimproverava di condurre gli interrogatori con troppo agio per gli indiziati.

Anche quando Camilla Cederna orchestrò la terribile campagna di stampa contro di lui, condita da molte menzogne, il bersaglio così si confidava col giornalista Giampaolo Pansa: «Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere». Il commissario fu ucciso il 17 maggio 1972, a 34 anni. Adesso che su di lui è avviato un processo di beatificazione, lo storico Giordano Brunettin raduna molte testimonianze nella nuova edizione del suo Luigi Calabresi. Un profilo per la storia (Sacra Fraternitas Aurigarum-Movimento Internazionale Oasi).

C’è il giovane Calabresi che a Roma «convince» i preti adescati da prostitute a lasciar perdere… Il neo-sposo che, dopo aver visto Fratello sole sorella luna di Zeffirelli, affronta il francescano padre Eligio per difendere l’immagine del Poverello… E ovunque, pur lasciando perdere un’agiografia che a volte si fa controproducente, risalta l’immagine di un cristiano che ci credeva davvero; e lo diceva anche. Come scrisse ancora Tortora: «”Vedrai – mi diceva qualche volta –. Vedrai che un giorno o l’altro ti capita di incontrarlo, Iddio»…

INEDITO:

 «Io, da cristiano in Polizia aiuterò i giovani sbandati»

di Luigi Calabresi

Ancora qualche settimana e sarò Commissario di Pubblica Sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane.

Ma riandando indietro con la memoria, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece conta il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso.

Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente.

Noi sentiamo forse più degli altri lo sfasamento, lo squilibrio, il turbamento, perché in ogni istante vediamo noi e vediamo gli altri, mettiamo noi stessi a confronto con gli altri; apparteniamo a due mondi che si scontrano, e perciò ci sentiamo in imbarazzo noi e si sentono in imbarazzo gli altri; in questo mondo neopagano il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla vita non coincide con quello dei più.Ecco il turbamento: sentiamo di vivere, tutto sommato, in un mondo non nostro, che tende a escluderci, a sopprimerci.

Sentiamo però di avere un gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più completo, nella disillusione più amara. Il giovane cattolico, veramente cattolico, avrà le sue crisi passeggere, che però si risolveranno, perché c’è un aiuto di ordine superiore che s’innesta nella sua realtà e nella sua umanità.

Dico di più: so bene che il laico e il pagano possono anche avere una rettitudine di fondo, una morale severa che addita loro obiettivi non edonistici; però se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi, quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la delusione. Io, per quanto posso, cerco di mettere in guardia i giovani su questo punto. E non mi riferisco alle minoranze colte: per esempio, ai giovani comunisti, che vivono per una loro fede, rispettabilissima se è praticata sinceramente. No, mi riferisco ai giovani che costituiscono la maggioranza amorfa…

Quanti ragazzi hanno modo di «sentire» davvero la famiglia? Questo sentimento si dissolve. E la colpa è qualche volta dei genitori, che vogliono sembrare giovani e moderni, ma certo è che fanno a gara coi figli nell’uscire di casa, magari anche a Natale; e sono ridicoli, oltretutto. Il genitore deve fare il padre o la madre; quando vuole fare troppo l’amico o il fratello maggiore, sbaglia. Il figlio vuole avere un padre, cioè ben più di un amico, vuole avere una guida che sappia pronunciare anche i suoi «no», quando sono motivati.

Per quanto mi riguarda prenderò esempio dalla natura. Osserviamo che cosa accade sull’orlo di un nido quanto l’uccellino sta per spiccare il primo volo. Il genitore sa che il piccolo è ormai in grado di volare. Ha fiducia in lui e lo incoraggia. L’uccellino a sua volta ha fiducia nel genitore e segue il suo invito a prendere coscienza dei propri mezzi. Nella famiglia dell’uomo dovrebbe accadere la stessa cosa: amore, fiducia.

E i genitori dovrebbero prendere coscienza della tremenda responsabilità che si sono assunti procreando, cioè collaborando con Dio nella creazione, e tener presente questo in ogni istante della vita. Non è vero che si educa e ci si educa nello stesso momento, come sostiene una certa pedagogia che io rifiuto.

L’uccello sa già volare quando insegna ai suoi piccoli come si dispiegano le ali. Così vorrò essere io con i miei figli, se la fortuna mi aiuterà.