«Diritti riproduttivi», porte aperte all’eugenetica

ONU_sededa Avvenire del 15 febbraio 2007

di Eugenia Roccella

C’è una guerra molto aspra in corso, di cui però pochi si accorgono: è la guerra delle parole. La si combatte soprattutto a livello degli organismi internazionali, come l’Onu e l’Unione europea, con estenuanti conflitti intorno a vocaboli che a un comune osservatore potrebbero sembrare del tutto innocui.

L’essenza del contendere, infatti, è mascherata da una terminologia convenzionale, connotata positivamente, che ha lo scopo di confondere l’opinione pubblica.

Come si può non essere d’accordo sui diritti dei bambini o dei disabili? E perché impuntarsi sulle parole, invece di fidarsi tranquillamente delle intenzioni umanitarie delle Nazioni Unite? Chi diffida, però, lo fa dopo anni di esperienze negative, di cui si potrebbe tracciare un pesante bilancio.

Attraverso la nuova definizione dei diritti umani stanno infatti passando la disgregazione dell’identità maschile e femminile, l’eutanasia, la selezione genetica, i piani autoritari di controllo delle nascite, con un curioso rovesciamento di significati. L’affermazione dei cosiddetti diritti riproduttivi, per esempio, ha funzionato da copertura ideologica per le più violente campagne demografiche degli ultimi decenni, e nei Paesi del terzo mondo si è tradotta in una lotta, spesso cruenta, contro la scelta di essere madri.

L’impegno antinatalista dell’Onu e degli organismi a essa collegati ha ottenuto vistosi risultati, come il vertiginoso aumento di donne sterilizzate (oggi circa 160 milioni), mentre la percentuale di mortalità materna è tragicamente sempre la stessa (più di 500 mila donne ogni anno) perché i programmi internazionali non mirano tanto a salvare le donne incinte, quanto ad assicurare loro il “diritto” di abortire.

Persino sui bambini si è riusciti a creare una frattura. Quando il Vaticano stabilì di bloccare i propri aiuti all’Unicef, fu accusato di mancanza di sensibilità verso i diritti dell’infanzia, e le sue motivazioni furono considerate pretestuose.

Perché serpeggiasse qualche dubbio sull’efficacia della politica che la nuova presidente dell’ente, Carol Bellamy, aveva inaugurato, fu necessario un clamoroso attacco di Lancet, rivista medico-scientifica notoriamente laica e a favore dell’aborto.

Nell’articolo si denunciava come ormai l’Unicef, lungi dal tutelare l’infanzia, costituisse addirittura «uno dei maggiori ostacoli alla sopravvivenza dei bambini nei paesi in via di sviluppo», con un incredibile capovolgimento della propria missione. Aderire alle Convenzioni internazionali richiede un’attenta lettura delle stesse, un po’ come accade a tutti noi con le polizze di assicurazione o i contratti privati. Qui, però, il trucco non si nasconde in un poscritto in caratteri minuscoli relegato in fondo alla pagina, né in un comma abilmente mimetizzato fra tanti altri.

Il trucco è nella possibilità di interpretare certi vocaboli in maniera impropria o estensiva, e di stabilire poi che quell’interpretazione è vincolante per chi ha sottoscritto il documento. Esaminando il testo della Convenzione sui disabili, per esempio, salta agli occhi l’inutilità di una riaffermazione dei diritti riproduttivi. Le persone con disabilità godono ovviamente degli stessi diritti degli altri. Perché mettere l’accento sulla salute riproduttiva, definizione che comprende contraccezione, aborto e sterilizzazione?

Qualche dubbio è lecito, e il pensiero corre immediatamente alla terribile campagna cinese per il figlio unico; una campagna finanziata e sostenuta dalle Nazioni Unite, che per molto tempo hanno scelto di ignorare il prezzo pagato dalle donne cinesi, le violenze, gli infanticidi e gli aborti forzati.

Anche in Paesi di solida democrazia i disabili sono ormai oggetto di una politica eugenetica strisciante. In Italia e in Francia non nascono quasi più bambini Down, e diventare genitore, per una persona con qualche disabilità, è drammaticamente difficile.

In Defiant birth – libro purtroppo non tradotto in Italia – l’australiana Melinda Tankard-Reisz ha riunito le sconvolgenti testimonianze di donne disabili, che raccontano come la loro volontà di diventare madri sia stata contrastata in ogni modo dall’organizzazione sanitaria e da una cultura ormai esplicitamente percorsa da pulsioni eugeniste.

Cosa può accadere in Paesi come l’India o il Bangladesh, dove la disinvoltura delle organizzazioni antinataliste nel proporre sterilizzazione e aborto sconfina nel cinismo? Il dubbio diventa qualcosa di peggio quando si va avanti nella lettura della Convenzione, e si scopre che il testo invita alla «precoce individuazione» della disabilità e ad «appropriati interventi» per prevenirla.

È della settimana scorsa la dura presa di posizione del presidente del Comitato di bioetica francese, Didier Sicard, che su Le Monde ha denunciato come il ricorso sempre più ampio alle indagini prenatali e alla diagnosi pre-impianto si sia trasformato in una pratica eugenetica diffusa, e soprattutto alimenti una cultura che rifiuta la malattia e l’imperfezione.

Oggi i disabili vengono blanditi a parole, e discriminati nei fatti. Il progressivo alleggerimento semantico della definizione di diversità (dal termine “handicap” si è passati a “disabilità” e ora a “diversabilità”) non ha prodotto un atteggiamento di reale accoglienza, se poi i disabili sono giudicati indegni di nascere e di riprodursi.

Siamo troppo sospettosi, troppo inclini a leggere tra le righe? Può darsi. Oppure, più semplicemente, conosciamo il gioco, e sappiamo che il lessico dei diritti ha spesso (troppo spesso) distolto l’attenzione dal modo concreto in cui quei diritti sono stati interpretati e applicati.

«Selezione prenatale»

«Eugenisme». La parola è rispuntata domenica 4 quattro febbraio sulla prima pagina di «Le Monde». Didier Sicard, presidente del «Comitato consultivo d’etica», ha offerto una testimonianza su quanto accade nei laboratori d’Oltralpe dov’è autorizzata la diagnosi pre-impianto sugli embrioni.

Sicard sostiene che negli ultimi anni i centri per la fecondazione assistita sono stati sommersi di richieste da parte di coppie desiderose di accertare l’assenza nel dna dei “potenziali” nascituri di geni di malattie incurabili o invalidanti. «La verità – ha detto Sicard – è che la parte essenziale dell’attività di prevenzione prenatale mira alla soppressione e non al trattamento. Questo rinvia a una prospettiva terrificante: quella dell’estirpazione».