Stranezze da ddl. L’affetto entra nel codice. Per la prima volta

codiceAvvenire 15 febbraio 2007

prof. Giuseppe Dalla Torre

(Presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani)

La strategia che è sotto certe polemiche sembra voler distorcere il  dibattito sui Dico nella trita contrapposizione tra cattolici e  laici, antico vizio italico, sviandolo dall’oggetto principale.  Occorre invece non cadere nella trappola, ribadire che non si tratta  di una “questione cattolica” e riportare il tema sui corretti binari  di una valutazione razionale.

E’ proprio alla luce della ragione che deve essere valutato, nelle sue finalità, nell’insieme e nei dettagli il discusso Disegno di  legge.  Per esempio partendo dallo stesso incipit del testo, vale a dire da  quel comma 1 dell’articolo 1 dove si individuano i destinatari del  provvedimento in due persone maggiorenni e capaci, anche dello  stesso sesso, “unite da reciproci vincoli affettivi”.

Il riferimento ai “vincoli affettivi”, infatti, se letto con gli occhi del giurista risulta assai poco chiaro, anzi del tutto ambiguo. Innanzitutto perché gli affetti, che attengono alla sfera dei sentimenti, sfuggono al diritto: non possono essere rilevati, quantificati, soppesati, quindi regolamentati.

Non è un caso che l’intera disciplina civilistica del matrimonio – ed è tutto dire – ignori totalmente l’elemento affettivo, limitandosi a precisare che dal matrimonio derivano obblighi (e reciprocamente diritti) concreti e verificabili, quali la fedeltà, l’assistenza materiale e morale, la collaborazione nell’interesse della famiglia, la coabitazione (art. 143).

Ed anche per ciò che attiene ai figli, il diritto non dice che i genitori hanno il dovere di amare i figli, limitandosi molto più concretamente a precisare che il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 147): obbligo il cui soddisfacimento è possibile controllare, ad esempio dal giudice.

Insomma: il Disegno di legge introduce nell’ordinamento un elemento, l’affetto, che natura sua esula dalla dimensione giuridica; un elemento che il diritto non ha mai disciplinato perché non è in grado di disciplinare.

Più gravi le conseguenze se per “vincoli affettivi” si volessero intendere rapporti sessuali. A parte l’irragionevolezza di non dire pane al pane e vino al vino, o di voler dare rilievo pubblico ad una dimensione per sua natura intima e privata, rimane il fatto che se così dovesse intendersi la norma indicata, la conseguenza sarebbe quella di introdurre la legittimazione dell’incesto nel nostro ordinamento.

Già: perché il testo del Disegno di legge esclude dal ricorso ai Dico i soli consanguinei in linea retta, permettendolo quindi tra fratelli e sorelle, o tra zii e nipoti. D’altra parte troppi e troppo forti indizi fanno dedurre che l’espressione “vincoli affettivi” voglia alludere nient’altro che ai rapporti sessuali.

Che senso avrebbe altrimenti la preoccupata sollecitudine del legislatore di escludere i consanguinei in linea retta entro il secondo grado (e, specularmente, gli affini) dai Dico? Che senso avrebbe, più ancora, la puntigliosa sottolineatura che i Dico riguardano due persone “anche dello stesso sesso”? Se così non fosse, nell’un caso e nell’altro si tratterebbe, infatti, di precisazioni normative inutiliter datae: date inutilmente.

Ma anche le disposizioni date inutilmente non sono, dal punto di vista giuridico, ragionevoli. Per questo, torniamo alla ragione.