Il comunismo nel Vietnam “liberato”

comunism_VietnamCristianità n.105 gennaio 1984

Sulla base di un rapporto recente e accuratamente documentato campi di «rieducazione» nel Vietnam sotto il giogo comunistico

La opinione pubblica mondiale – a suo tempo informata con ricchezza di particolari sulla «liberazione» del Vietnam e sulla «corruzione» dei governi anticomunistici – non ha strumenti corrispondenti per farsi un quadro adeguato di quanto è accaduto e accade ancora nel Vietnam settentrionale dagli anni Sessanta e in tutto il paese dal 1975. Una indagine qualificata documenta la quantità, la dislocazione e le caratteristiche dei campi di «rieducazione», uno strumento di tortura fisica e psicologica inflitta a un popolo intero, se si pensa che in essi – negli ultimi otto anni – sono passati più di un milione di vietnamiti «ostinati» nel rifiutare. il regime comunistico.

di Mario Villani

Fino al 1975 – e precisamente fino all’aprile di quell’anno – il Vietnam era uno degli argomenti di moda, o almeno di permanente attualità, sui giornali e, in genere, presso gli organi di informazione sia in Italia che all’estero. Attraverso una marea di notizie, di servizi speciali, di articoli di commento più o meno impegnato era stata costruita la immagine di un paese infelice soprattutto, se non solamente, a causa della presenza delle forze americane e del «feroce» governo fantoccio, che provvedeva alla loro copertura politica.

Le bombe, le stragi, le violenze erano sempre e soltanto imperialistiche e reazionarie, mentre un pugno di idealisti si batteva contro questo «sistema», fruendo dell’appoggio di tutto un popolo, armato e spinto solamente dal desiderio di ridare al paese pace e libertà. Né servirono a incrinare quella immagine le notizie giunte durante gli ultimi drammatici giorni di guerra, relative a ondate di profughi che fuggivano davanti alla avanzata delle truppe comunistiche: «Fuggono dalla guerra» – si diceva -, «Sono le ultime sofferenze, poi verrà finalmente la pace».

Ma non poteva essere così, e Cosi non è stato. Infatti, sorprendendo solamente chi ancora si ostinava a farsi del comunismo e dei suoi partigiani una immagine scioccamente irrealistica, ad avere pace in Vietnam, dopo la sconfitta degli anticomunisti «corrotti e corruttori», furono soltanto i morti, e talora neppure loro!

Grazie alla testimonianza di centinaia di migliaia di profughi, oggi, nonostante la ferrea censura operata dalle autorità comunistiche e l’inquietante disinteresse subentrato presso gli organi di informazione, è possibile farsi una idea e descrivere un quadro abbastanza preciso a proposito di quanto è avvenuto dopo quel tragico aprile 1975 e di quello che ancora continua a succedere in Vietnam.

Per diversi aspetti il quadro non differisce da quello presentato da molte altre nazioni che hanno vissuto la sciagurata esperienza dell’avvento del comunismo, sempre accompagnato, con diverse cadenze ma senza differenze sostanziali, dalla abolizione della proprietà privata e dalla soppressione della iniziativa privata, con il conseguente crollo della economia e del livello di vita economica; da epurazioni; da processi «popolari» con esecuzioni sommarie; dalla soppressione di ogni libertà politica e religiosa – con particolare accanimento verso il cattolicesimo, sia con procedimenti di corruzione che con pratiche persecutorie -; dalla abolizione di ogni garanzia del cittadino nei confronti dello Stato totalitario e del partito che se ne fa strumento.

Per altri aspetti, invece, si può dire che nella esperienza vietnamita sono stati drammaticamente superati esempi precedenti già tragicamente noti e compianti. Uno degli aspetti «nuovi» di un copione reiteratamente sperimentato è certamente costituito dall’uso larghissimo che in questi anni, in Vietnam, è stato fatto dei cosiddetti campi di «rieducazione».

Il tema è accuratamente trattato da Ginetta Sagan e da Stephen Denney nello studio su Violations of human rights in the Socialistic Republic of Vietnam. Apri1 30, 1975 – Apri1 30, 1983, frutto di una indagine svolta sotto gli auspici della Aurora., Foundation di Atherton, in California .

1. La pratica della «rieducazione» dal nord al sud, al seguito dei ‘comunisti

Il governo comunistico, attraverso dichiarazioni ufficiali, riconosce la esistenza dei campi di «rieducazione» nel Vietnam settentrionale a partire dal 1961. All’epoca, gli internati in tali campi sono rastrellati fra gli «elementi contro-rivoluzionari» accusati di rispondere agli incitamenti alla rivolta lanciati dagli Stati Uniti e dal governo del Vietnam meridionale e di «sabotaggio economico».

Questi «ostinati elementi contro-rivoluzionari» sono cosi ufficialmente classificati dall’autorità del regime: 1. Tutte le vecchie e pericolose spie, guide o agenti, tutti gli elementi dei vecchio esercito fantoccio o della precedente amministrazione, ex appartenenti a reparti speciali con a carico molti odiosi crimini, e che sono stati graziati e a lungo rieducati dal governo, ma che rifiutano ancora ostinatamente di riformarsi, e che compiono ancora atti contrari all’ordine pubblico; 2. Tutti i membri dei nucleo centrale delle precedenti organizzazioni e partiti di opposizione […]; 3. Gli elementi ostinati della vecchia classe degli sfruttatori e tutti gh altri contro-rivoluzionari animati da profondo spirito di vendetta verso il nostro sistema e sempre operanti alla opposizione; 4. Tutti i pericolosi contro-rivoluzionari che hanno scontato una pena detentiva e che rifiutano di riformarsi».

Nel 1975; con la vittoria delle forze comunistiche, l’uso dei campi di «rieducazione» per. «contro-rivoluzionari», cioè per tutti gli oppositori a qualsiasi titolo del nuovo regime, viene esteso anche al meridione del paese. Questa è la fredda e burocratica descrizione.del lavoro che in essi si svolge fornita – in un articolo pubblicato sul Quan Dai Nhan Dan, il giornale dell’esercito comunistico, nel giugno del 1975 – dal dirigente Nguyen Ngoc Giao: «La rieducazione è un processo accurato e di vasta portata. La direzione deve essere severa, continua, totale e specifica.

«Dobbiamo dirigere ogni persona. Dobbiamo dirigere i loro pensieri e le loro azioni, le loro parole e i loro gesti. la loro filosofia di vita e le loro modalità di sussistenza. le loro relazioni sociali e i loro spostamenti. […]

«Dobbiamo combinare strettamente la direzione e la educazione con gli interrogatori».

Dall’aprile del 1975 oltre un milione di vietnamiti è stato internato in un sistema di più di centocinquanta campi, sottocampi e prigioni. Una parte di essi è stata rilasciata dopo periodi più o meno lunghi di detenzione, molti sono morti o sono stati direttamente uccisi: a morte certa sono destinati – secondo le testimonianze – gli ex vietcong che avevano disertato dalle file dell’esercito comunistico. Attualmente la stima più accreditata fa ascendere il numero delle persone ancora recluse a molte decine di migliaia.

2. Le disumane condizioni di vita nei campi

Le condizioni di vita nei campi variano di molto, a secondo della loro dislocazione, della composizione della popolazione carceraria e di altri fattori. Molti ex prigionieri raccontano di essere stati detenuti in più campi diversi. Con grande probabilità questi continui trasferimenti hanno lo scopo di fare desistere le famiglie dai tentativi di sapere dove sono rinchiusi i loro parenti,, nonché di prevenire l’eventuale insorgere di rapporti di amicizia tra i prigionieri e degli stessi con le guardie dei campi.

Comunque, se è vero che le condizioni di vita nei diversi campi variano notevolmente, è anche vero che certi elementi caratteristici compaiono con assoluta regolarità nei racconti dei superstiti. Indottrinamento politico e confessioni estorte, pesante e pericoloso lavoro fisico, assenza di cure mediche e scarsità di cibo possono essere considerate il minimo comune denominatore costantemente riscontrabile, sì che le differenze si riducono praticamente solo al genere e alla intensità dei maltrattamenti fisici inflitti ai prigionieri, che sono per altro presenti ovunque.

Durante la prima fase del processo di «rieducazione», di durata variabile, da alcune settimane ad alcuni mesi, la vittima è sottoposta a un intenso indottrinamento politico. Gli argomenti trattati sono: lo sfruttamento per opera degli imperialisti americani dei lavoratori negli altri paesi; la «gloria» che deriva dal lavoro; la inevitabile vittoria del Vietnam, guidato dal partito comunista, sugli Stati Uniti, e la generosità dimostrata dal governo verso i «ribelli», cioè verso coloro che hanno combattuto contro i comunisti durante la guerra.

Un’altra attività messa in atto durante il primo periodo di «rieducazione», anche se non trascurata nelle successive fasi di imprigionamento, è volta a ottenere la confessione di presunti passati misfatti. Tali confessioni forniscono così al governo una giustificazione retroattiva per la propria decisione di imprigionare centinaia di migliaia di vietnamiti.

A tutti i prigionieri si richiede di scrivere le proprie confessioni, per quanto banali e insignificanti possano essere i fatti per i quali si è incriminati. I postini, per esempio, vengono dichiarati colpevoli di avere collaborato con l’apparato militare del deposto regime attraverso la circolazione della posta. I cappellani militari sono accusati di avere dato conforto alle truppe combattenti. A un ufficiale della riserva, che aveva insegnato letteratura in diverse scuole, fu imputato di avere «ingannato intere generazioni di bambini innocenti».

Oltre alle confessioni di tali «crimini» i prigionieri devono scrivere la loro autobiografia e illustrare le loro condizioni economiche. Un ex prigioniero racconta: «Dovevi scrivere la storia della tua vita, compresa quella di tuo padre, di tuo nonno, dei tuoi bambini, descrivendo le loro vicende, come erano morti, ogni cosa posseduta, comprese radio, televisione e macchina ,fotografica. «Tutto questo doveva essere scritto due volte al mese, sia nei campi di rieducazione che in prigione. Se in qualche caso scoprivano che avevi tralasciato qualcosa che precedentemente avevi incluso, eri nei guai. A questo punto eri costretto a scrivere nuove confessioni molte volte al giorno».

Dopo le confessioni scritte vengono quella pubbliche, durante le quali il prigioniero descrive i propri «crimini» di fronte alle autorità del campo e agli altri compagni di pena. Tra gli internati vengono incoraggiate la reciproca critica e le reciproche accuse allo scopo, dicono i testimoni, di suscitare e di diffondere l’odio e la diffidenza. Più crimini un prigioniero confessa e più viene elogiato come «in via di miglioramento» dai suoi carcerieri.

La pressione psicologica per ottenere questo genere di confessioni conduce non di rado alla pazzia. «Ho visto molti casi di persone in preda a crisi isteriche». testimonia un medico recluso in uno di questi campi; ma, nonostante la sua esperienza nel ramo, non gli fu mai permesso di fare qualcosa per aiutarle. Lo scopo di tutto questo trattamento è non solo quello di fare nascere un senso di colpa nei prigionieri e di stabilire un dominio su di essi, ma anche quello di ottenere la denuncia di altri ex soldati e ufficiali dell’esercito sudvietnamita eventualmente sfuggiti al trattamento di rieducazione.

Il governo comunistico; infatti, appare preoccupato per le diverse migliaia di vietnamiti che avrebbero finora evitato, con la fuga, i campi.

3. La «gloria» del lavoro forzato

Un altro aspetto tenuto in grande considerazione nella rieducazione è il «lavoro produttivo». Gli internati, infatti, sono costretti a svolgere un lavoro fisico estremamente duro e, nella maggiore parte dei casi, pericoloso. Un tipico esempio è costituito dalla bonifica dei campi minati, nonostante la Convenzione di Ginevra proibisca che a tale attività siano costretti dei prigionieri. In Vietnam essa viene svolta proprio da loro e, oltretutto, senza che siano fomiti di. un minimo di attrezzatura specifica. Il risultato è che molti vengono uccisi o mutilati dalle esplosioni.

Altri lavori svolti sono il taglio delle piante, la costruzione di muri, di latrine e di fosse biologiche, il disboscamento della giungla, la edificazione di altri campi di concentramento. I prigionieri sono organizzati in squadre e costretti a lavorare fino all’esaurimento. Chi non riesce a raggiungere le quote di lavoro previste dalle norme del campo, viene punito con ore di lavoro supplementare, oppure messo ai ceppi o confinato in celle-di isolamento. Va tenuto presente che questo lavoro viene effettuato da persone assolutamente denutrite.

4. Fame e mancanza di assistenza medica

La fame, infatti, è un altro grande tormento degli internati. Secondo i racconti degli ex prigionieri essi vengono tenuti a regime alimentare ridottissimo per indebolirli al massimo e per prevenire resistenze e rivolte. Ogni giorno vengono distribuiti a ciascun detenuto un pugno di riso e pochi vegetali. Sconosciuta la carne e i condimenti, in modo che la dieta risulta assolutamente priva di proteine.

La mancanza di cibo causa un generale scadimento delle condizioni fisiche e indebolisce la resistenza alla malattia. Beri-beri, tubercolosi, dissenteria, sono infatti estremamente diffuse. L’assistenza medica non esiste e le cure sono assolutamente inadeguate e limitate in generale all’opera di qualche possesso di qualche cognizione medica. Il risultato è. ovviamente, un alto tasso di mortalità. Solo in casi eccezionali è concessa a un prigioniero ammalato la possibilità di essere curato in un ospedale all’esterno. Generalmente i malati muoiono nel campo, senza cure e senza che le famiglie vengano neppure avvertite.

5. Regolamento e punizioni

Le regole che disciplinano la vita dei campi sono rigidissime. Le autorità cercano di mantenere il controllo sui pensieri dei prigionieri. A questo line viene proibito detenere e leggere libri e riviste editi durante il passato regime, ricordarlo nelle conversazioni. parlare di politica al di fuori delle discussioni ufficiali, cantare vecchie canzoni, avere credenze «superstiziose» e, in genere, nutrire pensieri «reazionari». E’ inoltre proibita ogni mancanza di rispetto nei confronti delle autorità del campo. Questa regola è applicata in maniera talmente inflessibile che la minima indicazione di una infrazione alla stessa è punita severamente.

Le forme di punizione previste sono diverse. Molto diffuse sono la reclusione in camere di punizione o celle buie, la riduzione del cibo, la legatura in posizioni contorte. Molti prigionieri vengono picchiati, talvolta a morte. Anche le esecuzioni sono frequenti, generalmente in caso di tentata fuga.

Le camere di punizione sono dei container di metallo dentro ai quali vengono accatastati e legati i puniti; sotto il sole la temperatura all’interno diviene intollerabilmente calda, al punto da provocare non rari decessi. I prigionieri condannati a questa punizione nel campo di Ham Tam giacciono all’interno della cella, distesi sul fondo, le gambe sollevate e i piedi strettamente serrati in ceppi di legno. Nel campo di Nyhe Tinh, invece, è d’uso legare loro strettamente le mani e i piedi così da provocare la cancrena degli arti. Una forma di punizione simile a quella praticata nei container è la reclusione in profondi pozzi: a questa punizione venne condannato, nel campo di Long Khanh, un prigioniero perché era stato sentito cantare il giorno di Natale la canzone Notte Santa.

Altri tipi di tortura sono stati descritti da ex internati nel campo di Don Duang: per esempio, il prigioniero, con le mani e i piedi legati assieme, viene appeso e fatto oscillare mentre i carcerieri lo percuotono. Altri descrivono tutta una serie di diversi tipi di legatura.

Nel suo libro The will of Heaven, Nguyen Ngoc Ngan racconta un episodio estremamente indicativo per capire come e quando questi metodi sono usati. L’episodio avvenne nel maggio del 1977 nel campo di Bu Gia Map, situato in una giungla malarica al confine con la Cambogia. Un prigioniero, Tru, vedendo una guardia usare una bandiera del precedente regime come straccio per la polvere reagisce strappandogliela dalle mani. Il giorno dopo Tru viene condotto davanti a un «tribunale del popolo», ma, invece di confessare il «crimine» e chiedere clemenza, egli si lascia andare a una pesante critica del regime comunistico.

Di conseguenza, viene condannato a stare in piedi, legato a un tronco d’albero, per tre mesi. Dopo essere stato imbavagliato, è legato con le braccia stese dietro la schiena e serrate attorno al tronco. Le corde sono avvinte Cosi strettamente che già al termine del primo giorno gli sono penetrate nella carne. Il prigioniero è costretto a rimanere così, in piedi, senza riparo dal sole del giorno e dal freddo della notte, incessantemente torturato dalle zanzare.

Durante la seconda settimana egli contrae la malaria e le sue condizioni peggiorarono rapidamente. A un mese dalla sentenza, in occasione della visita di un ufficiale superiore, Tru viene slegato e gli viene portato davanti. L’alto ufficiale vuole concedergli un’altra possibilità di pentirsi, ma coraggiosamente Tru oppone un rifiuto. Il giorno dopo egli viene condotto fuori dal campo e nessuno ne sa più nulla.

6. Il ricatto alle famiglie 

Ai disgraziati prigionieri viene anche praticamente negato qualsiasi conforto che possa venire dagli incontri con le famiglie. Il regolamento dei campi prevederebbe la possibilità di visite dei parenti della durata di quindici minuti ogni tre mesi, ma è sufficiente la minima mancanza disciplinare perché tale diritto venga soppresso. Non solo, ma per ottenere il permesso di vedere i propri cari detenuti i familiari devono dare prova di fedeltà e di lealtà nei confronti del nuovo regime. In pratica tutto è affidato all’arbitrio del comandante del campo e dei funzionari di partito. La vita degli stessi familiari dei detenuti è pesantemente condizionata.

Non solo vengono loro richieste continue prove di fedeltà al regime, con la implicita minaccia di inasprire ulteriormente le condizioni di vita del parente detenuto, ma, sovente, vengono costretti a chiedere di essere inviati «volontariamente» nelle Nuove Zone di Sviluppo Economico, veri e propri campi di lavoro forzato collocati nelle aree più inospitali della giungla. Cosi, la efficacia coercitiva dei campi si moltiplica fino a interessare tutta la popolazione.

Chi non vi è stato personalmente, o non vi è tuttora rinchiuso, ha comunque qualche parente o amico che sta Vivendo questa tremenda esperienza ed è costretto, per evitargli ulteriori sofferenze, a tenere un comportamento gradito al regime. Si può, quindi, affermare che oggi il Vietnam, a quasi nove anni dalla presa del potere da parte di coloro che anche la stampa occidentale chiamava «liberatori», può essere considerato un immenso Gulag.

Forse solo rendendosene conto si può capire perché milioni di vietnamiti hanno scelto di fuggire verso l’ignoto, a bordo di fragili imbarcazioni, sfidando pericoli sovente mortali, pure di lasciarsi alle spalle la cappa di terrore e di disperazione calata sul paese con l’avvento del comunismo.

Note

1) Cfr. GINETTA SAGAN e STEPHEN DENNEY, Violations of human rights in Socia& Republic of Vietnam. Apri1 30, 1975 – Apri1 30, 1983, Aurora Foundation, Atherton 1983, soprattutto le pp. 18-46,specificamente dedicate al tema dei campi di «rieducazione». Il rapporto ha tre fonti principali: le dichiarazioni governative, i racconti dei visitatori stranieri in Vietnam e quelli dei profughi. Di questi ultimi, dagli autori del rapporto ne sono stati intervistati più di 500, sistematicamente dal 1978 al dicembre 1982, in Europa e negli Stati Uniti: fra i profughi sono compresi non solamente esponenti militari e civili del passato regime, ma anche giornalisti, scrittori, insegnanti medici, avvocati e studenti. Sono state raccolte e considerate anche notizie provenienti da ex membri del Fronte di Liberazione Nazionale e da persone che hanno rotto con l’attuale governo.

Da questo rapporto – a tutt’oggi non uguagliato per ricchezza di documentazione di informazione – traggo tutti i dati per la mia esposizione.