Islam moderno e contemporaneo

islamRassegna di Teologia n.5
settembre-ottobre 2006

di Francesco Villano  

LA TRANSIZIONE

II periodo della storia dell’isiam (1) che va fino alla fine del XVI secolo, cioè fino alla fine del suo primo millennio di vita, può essere definito come: “islam classico” (2). In questa fase l’islam, anche se evidenzia notevoli trasformazioni, può essere trattato come un tutt’uno omogeneo, poiché i principi di fondo, pur maturando e adattandosi a circostanze nuove, sono rimasti in definitiva gli stessi.

Questa fase è stata caratterizzata dal principio del consenso (igmà)che, pur rimanendo fedele ai principi basilari, ha permesso all’islam quelle innovazioni e quelle modifiche sollecitate dallo scorrere della storia; ha altresì permesso alla civiltà arabo-islamica (3) di raggiungere l’acme del proprio sviluppo.

Con lo scadere del millennio (1591 del calendario gregoriano) questa prassi entra in crisi a causa dell’irrigidimento dei vari punti di vista presenti nell’islam per cui ogni scuola inizia ad avocare a sé la giusta visione delle cose screditando quella degli altri, chiudendosi al confronto oltre che causando una diffusa disgregazione politica e morale. Viene così a cadere quella visione unificante che aveva da un lato caratterizzato i primi dieci secoli dell’era islamica e dall’altro permesso alle varie scuole di rimanere unite pur mantenendo la loro specifica caratterizzazione.

Si presenta così l’esigenza di un rinnovamento che è visto più che altro come un tentativo di porre un freno alla naturale decadenza del mondo, in accordo con la visione della storia propria dei musulmani per cui la perfezione è da ricercarsi nel passato. Solo in seguito, e su influsso della cultura occidentale, la civiltà islamica (in generale) farà propria l’idea di futuro, visto come “luogo” utopico del collettivo rinnovamento della società.

C’è da dire anche che è proprio della tradizione islamica credere che ad ogni passaggio di secolo, e ancor più di millennio, Dio mandi un inviato alla Sua comunità per rinnovare lo stato della religione. Quindi intorno all’anno mille dell’egira si colloca lo spartiacque tra l’era dell'”islam classico” e l’era “dell’islam moderno”. In questa nuova fase gli intellettuali islamici si confrontano in modo nuovo con le problematiche che la storia presenta loro, anche se con spinto e risultati spesso divergenti.

Due sono le principali articolazioni in cui confluiscono i diversi orientamenti interpretativi del reale. Vi è una prima corrente che propone un ritorno al passato quasi acritico; tra l’altro si afferma che un ritorno letterale alle fonti primarie dell’islam, Corano e Sunna, basterebbe da solo ad allontanare la corruzione imperante. La seconda corrente si limita a stigmatizzare eventuali abusi, eccessi e deviazioni che possono aver caratterizzato alcune linee evolutive dell’islam, ma non considerano come sbagliati e condannabili in toto gli sviluppi che l’islam ha avuto nel corso della storia.

La più grande differenza tra questa seconda corrente e la precedente si coglie sulla questione dell’igmà. Per i primi, che si riferiranno in particolare alla figura di Ahmad Ibn Taymiyya (m. 1328) (4), Corano e Sunna da soli risultano essere i punti di riferimento della dottrina; mentre per i secondi, oltre ovviamente al Corano e alla Sunna, riveste fondamentale importanza l’igmà (il consenso della comunità) al quale è strettamente legato l’igtihad (sforzo interpretativo), cioè la capacità dei singoli sapienti di rielaborare i dati della rivelazione. Nel primo caso, con la cristallizzazione delle concezioni tradizionali, qualsiasi innovazione viene stroncata sul nascere; mentre nel secondo rimangono aperte le porte al nuovo che bussa.

MOVIMENTI MODERNI (5).

II movimento Wahhabita, fondato da Muhammad ibn’Abd al-Wahhab (1703-1792) nel secolo XVIII nel Neged, regione dell’Arabia centrale, ebbe rapida ed ampia diffusione grazie soprattutto all’appoggio del principe del villaggio di Dar’iyya (nei pressi dell’odierna Riyadh), Muham-mad ibn Sa’ud (m. 1765), leader della potente tribù dei Banu Sa’ud.

II wahhabismo riteneva necessario tornare alle due fonti dell’Islam, Corano (6) e Sunna, rimuovendo tutto ciò che si era andato sovrapponendo ad esse nel tempo, così da poter riavere un islam splendente e puro, non corrotto da alcun tipo di innovazione (7). Le concezioni di Ibn ‘Abd al-Wahhab si possono far risalire a Ibn Taimiyya e a un discepolo di questi, ibn Qayyirn al-Gauziyya (m. 1350), che auspicavano, già allora, un radicale e rigoroso islam.

Ibn ‘Abd al-Wahhab espose le sue idee in un breve ma denso trattato Il Libro dell’unità; in esso, tra l’altro, se da un lato sosteneva che la religione e lo Stato sono indissolubilmente legati, dall’altro non considerava l’esistenza del califfato, in quanto istituzione, un dovere fondamentale; la umma (la comunità dei credenti) avrebbe potuto ben vivere come una confederazione di Stati fratelli.

Con l’alleanza (8) stipulata con Ibn Sa’ud nel 1744 il movimento da religioso divenne politico militare e dichiarò la guerra santa agli altri musulmani considerati miscredenti. Erano contrari a ogni scuola o interpretazione dell’islam diversa dalla loro, e specialmente al sufismo (9) di cui condannavano non solo il misticismo e la tolleranza, ma anche quelli che ai loro occhi apparivano culti pagani collegati.

Si resero responsabili di saccheggi e distruzione dei venerati monumenti sepolcrali e dei mausolei delle più eminenti figure dell’islam, che venivano bollati come falsi e idolatri. Il loro intento era purificatorio, anche se alquanto fanatico, e per giustificare il loro agire si appellavano a un hadith in cui si dice: «Non lasciate tomba elevata senza spianarla».

Fortunatamente fu risparmiata da questa furia distruttrice la cupola che si innalza sulla tomba di Muharnmad a Medina. Un’altra pratica fu quella della condanna e del rogo dei libri; in particolare di opere sia teologiche che giuridiche contrarie al loro credo. Al rogo era spesso associata l’esecuzione sommaria di chi li aveva scritti, copiati, o usati per insegnare. Conquistarono tutta la penisola araba, spingendosi fin verso la Siria e l’Iraq meridionale.

A questo punto il sultano ottomano reagì e con l’aiuto del pascià egiziano, nel 1818, riuscì a domarli. Lo stato Saudita cessò di esistere, ma la dottrina wahhabita sopravvisse, e a partire dal 1823 circa un altro membro della dinastia Saud riuscì a ricostituire il principato; anche allora decisiva fu l’alleanza con gli esponenti della dottrina wahbabita.

Nel contempo si ammorbidì l’atteggiamento verso gli altri musulmani che, a loro volta, non li considerarono più scismatici. In ogni caso, poi, le basi per l’affermazione definitiva nella penisola araba sia del wahhabismo che della tribù dei Sa’ud furono poste da un altro discendente della dinastia, Abd al-Aziz ibn Sa’ud, che nel 1902 conquistò Riyadh.

In conclusione bisogna notare che l’influenza del wahhabismo fuori dell’Arabia fu limitata, anche se il puritanesimo che lo caratterizza e il sostegno dato dall’Arabia Saudita a molte organizzazioni islamiche internazionali ne rendono ancora attuale il ruolo nell’insieme del mondo musulmano. Quello dei wahhabiti è stato ed è una sorta di riformismo alla rovescia, dove piuttosto che proporre qualcosa dì nuovo si è voluto riattualizzare un passato visto come ideale. Rimane a loro il merito di aver sollevato per primi la questione della necessità di riformare l’Islam, anche se le soluzioni proposte non erano adeguate alle sfide che sì prospettavano all’orizzonte.

In quegli stessi anni, in Libia, sorse la Sanusia un’altra corrente riformatrice con delle caratteristiche simili a quella wahhabita. Anche questo movimento sorse in una zona che manteneva uno stile di vita più simile a quello dei tempi del Profeta; e ciò colpisce alquanto. Il fondatore, Muhammad ibn ‘Ali al-Sanusi (1787-1859) discepolo del marocchino Ahmad ibn Idris (1760-1837), nacque in una zona che oggi si trova nell’Algeria occidentale; fu uomo colto e profondamente religioso che si fece promotore di una riforma dell’islam che non escludeva l’approccio mistico devozionale senza accoglierne però le pratiche esteriori.

Condannava i musulmani occidentalizzati poiché secondo lui avevano abbandonato le vere tradizioni e l’autentico credo dell’islam. Riprese alcune tesi giuridiche della scuola hanbalita e ciò creò grande sconcerto poiché nell’Africa del nord era ed è predominante la scuola malikita.

Anche in questo movimento come già in quello wahhabita il principio del “consenso” è considerato come una della fonti del diritto, ma non viene considerato in senso lato e lo si restringe solo a quello dei soli compagni del profeta, rigettando in tal modo l’autorità di molti maestri che si sono succeduti nei secoli successivi.

Lo sviluppo della sanusìa continuò anche con il figlio del fondatore, ma dopo la sua morte conobbe un progressivo indebolimento e distacco dalla casa regnante alla quale veniva rimproverato un atteggiamento accondiscendente verso i colonizzatori italiani, opposto a quello del movimento che era caratterizzato da ostilità e rivolta. In ogni caso l’aspetto più interessante di questa esperienza, come di quella wahhabita da cui differisce per il mancato successo politico, è da rintracciarsi nel richiamo alla restaurazione di un islam più genuino e incontaminato che ha avuto e ha molta presa sull’animo dei musulmani.

Nello stesso periodo anche nell’India musulmana si presentarono istanze riformatrici. Rispetto alla penisola araba e al Nord-Africa la situazione si presentava ben diversa nel subcontinente indiano dove la lunga convivenza con la maggioranza induista e la sua ricca tradizione culturale e religiosa aveva fatto sì che si sviluppassero due atteggiamenti contrapposti in seno alla comunità islamica: alcuni privilegiarono quelle correnti di pensiero che si avvicinavano maggiormente alla sensibilità indiana, altri invece si rifecero principalmente alla linea originaria dell’islam ortodosso, evidenziando più volentieri ciò che li distingueva dall’induismo piuttosto che ciò che li avvicinava ad esso.

In questo periodo si snoda la vicenda di Shah Wall AUah (1703-1762), una delle figure più rilevanti in assoluto di tutto il pensiero islamico. Il padre, uomo di grande conoscenza giuridica e di profonda spiritualità oltre che animatore di un’importante scuola religiosa nella quale lo stesso Wali Allah avrebbe in seguito insegnato, gli trasmise l’attaccamento alla tradizione unitamente alla sensibilità per il sufismo (10).

La sua famiglia, con una posizione economica e sociale di tutto rispetto, vantava tra i suoi antenati molti insigni uomini di religione e rivendicava la diretta discendenza dal califfo Ornar. “Wali Allah dimostrò, sin da ragazzo, una spiccata inclinazione per gli studi e la pratica religiosa. Durante l’adolescenza apprese da un lato il persiano, l’arabo e iniziò ad approfondire molte opere fondamentali del pensiero religioso islamico tradizionale oltre che studiare medicina, filosofia, grammatica, retorica, aritmetica e geometria; dall’altro, attraverso commentati e traduzioni, familiarizzò sempre più con il Corano.

Una volta cresciuto si recò in Arabia dove soggiornò per più di un anno. Durante questo periodo di approfondimento della dottrina islamica fece anche un sogno a cui diede molta importanza: “venuto a sapere che un sovrano miscredente aveva preso il potere in India, egli trasmise a una grande folla la propria indignazione e la spronò a intervenire decisamente per il rovesciamento di quel potere iniquo e il ristabilimento della legge islamica”. Una volta ritornato a Delhi fece tradurre il Corano in persiano e urdù (11) sì da rendere il messaggio divino più accessibile a un maggior numero di credenti.

I musulmani più tradizionalisti criticarono questa iniziativa adducendo il classico principio dell’inimitabilità e intraducibilità del testo sacro; non tutti però lo avversarono e lo stesso imperatore moghul gli diede la direzione di un importante centro di studi islamici. Shah Wali Allah fu un educatore e un insegnante, agì in profondità e gli effetti delle novità da lui introdotte nella formazione degli studenti incisero sull’evoluzione e sui cambiamenti dell’islam sul lungo periodo.

Se da un lato esortò i principi musulmani a difendere e promuovere l’islam con ogni mezzo, dall’altro era fautore della divisione dei compiti e dei poteri tra i detentori dell’autorità politica e i custodi della legge e della tradizione religiosa. Operando e vivendo in un contesto in cui la comunità musulmana era minoritaria oltre che divisa al suo interno, cercò di operare su due fronti: da un lato presentava le verità religiose congiuntamente ad argomentazioni filosofiche e sociologiche così da renderle più largamente comprensibili e accettabili; dall’altro cercò di minimizzare le differenze tra le varie scuole giuridiche islamiche, adducendo a cause storiche ormai superate la causa di tali divisioni.

Nella sua vastissima produzione, caratterizzata da un originale e spontaneo moto di.rinnovamento del pensiero islamico, anticipò, nei fatti, degli atteggiamenti che saranno propri dei riformisti dell’800:

a) rifiuto del taqlid (imitazione) e accettazione dell‘igtìhad (libero lavoro interpretativo capace di generare una dinamica innovativa) (12);

b) relativizzazione di norme fissate dalla tradizione ma originatesi in tempi e situazioni particolari e ormai superate;

c) necessità di conciliare ragione e rivelazione relativizzando di quest’ultima le parti non essenziali e riconoscendo alla prima un ruolo autonomo e fattivo.

Un’idea precisa del pensiero di Wali Allah si può avere dal suo L’eloquente dimostrazione d’Iddio; in esso, sebbene non disdegnasse la via dell’ascesi così importante anche per il pensiero hindu, sottolineò come più ordinaria la strada dell’ubbidienza alla legge divina che ha lo scopo non di mutare la natura dell’uomo, ma di rettificarne gli istinti mediante la pratica di specifiche virtù.

Per Wali Allah il monoteismo islamico è da intendersi non tanto e non solo come una statica affermazione e difesa del dogma dell’unicità di Dio, ma come un principio di azione, anticipando in ciò inconsapevolmente posizioni degli odierni movimenti integralisti musulmani per cui ogni cosa deve essere ricondotta sotto il dominio unico di Dio.

Tra l’altro l’opera di Wali Allah è caratterizzata da un notevole realismo che gli fece scegliere le soluzioni migliori in vista del bene comune senza, beninteso, mai venir meno alla fedeltà verso gli immutabili simboli e gesti propri del culto islamico. L’influsso del pensiero di Wall Aliali fu enorme e si può dire che tutte le più recenti espressioni dell’islam indiano sono in qualche modo con esso collegate.

Alcuni hanno voluto vedere nel movimento che fa capo a Wali Aliali una sorta di wahhabismo indiano, ma il parallelo può essere fatto solamente per alcuni aspetti e la radicale differenza del loro atteggiamento verso la mistica non permette di ritenerli imparentati oltre un certo limite (13). In effetti e diversamente dai movimenti puritani Wali Allah si lasciò sempre interpellare dall’ambiente composito in cui visse e operò, e quando le circostanze lo richiedettero seppe agire con coraggio.

L’ETÀ CONTEMPORANEA (14)

II mondo islamico, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, da più di due secoli stava vivendo una fase nuova della sua storia e da circa un secolo si stava confrontando con la superiorità scientifica e tecnologica dell’occidente cercando e sperimentando nuovi e il più possibile soddisfacenti modus vivendi (15) per cui è errata l’idea che vuole che la comunità islamica si sia bruscamente risvegliata, da un supposto letargo di secoli, a causa dell’invasione napoleonica dell’Egitto (1798).

È quindi altrettanto sbagliato tacciare la realtà islamica di immobilismo, anche se solo una lettura più profonda delle dinamiche interne di quelle società rivela l’intenso dinamismo che le pervadeva e tutt’ora le pervade; per cui risulta fuorviante il tentativo di comprenderle solo attraverso i parametri culturali occidentali (16).

E’ vero che tra i tentativi di riforme “interne” dei secoli XVII e XVIII e la situazione che si viene a creare nel XIX secolo c’è decisamente un non eludibile scarto, ma non si può negare il fatto che le esperienze dei secoli precedenti non si sono bruscamente interrotte al sorgere dell’ottocento e che hanno continuato ad affiorare anche nei riformismi di vario tipo succedutisi negli ultimi duecento anni.

Quindi non continuità, ma neanche totale frattura tra fase moderna e contemporanea. Senza dubbio la presenza francese in Egitto fu decisiva nello stimolare e accelerare il rinnovamento già in atto. Anche dopo la fine dell’occupazione militare gli intellettuali e i governanti locali continuarono a muoversi nel solco segnato dai transalpini. Nei decenni seguenti apposite missioni di studio (17) furono inviate in Occidente per acquisire quelle tecniche e conoscenze che mancavano al mondo arabo-musulmano e che costituivano la causa prima della supremazia dei paesi europei.

Le missioni, una volta tornate in patria, promossero innovativi istituti di formazione atti a preparare la nuova classe dirigente. E significativo che divennero materie di studio non solo le discipline più propriamente tecnico-scientifiche, ma anche quelle filosofiche letterarie. Si diffusero i quotidiani; furono introdotte riforme giuridico-militari e fu posto in maniera chiara il problema della lingua che doveva adeguarsi alla funzione di strumento di comunicazione di massa e dotarsi di un lessico rinnovato e di una struttura più elastica per poter esprimere nuove realtà.

La fase di apertura alle novità che arrivavano dall’Europa fu all’inizio incondizionata ed entusiastica ma in seguito le si iniziò a confrontare e porre sempre più in relazione con i contenuti culturali della propria tradizione. Processo inevitabile, causato da un lato dal rischio di perdere la propria identità culturale, e dall’altro dalla politica coloniale dell’Occidente che contraddiceva e impediva la realizzazione di quegli stessi ideali che il contatto con la cultura europea aveva contribuito a diffondere.

Questa nuova fase di riflessione all’interno del mondo arabo-islamico, che prese poi il nome di Nahda (Risorgimento-Rinascimento), iniziò in Egitto con Jamal ai-Din ai-Afghani (1838-1897). Iraniano sciita, si diede l’appellativo di ai-Afghani (18) (afghano) sperando così di potersi rivolgere più facilmente alla gran parte dei musulmani.

Figura complessa e poliedrica, privilegiò sempre l’azione politica; fu assertore del pan-islamismo e auspicò il ritorno al califfato come forma di governo. Scandalizzato dallo stato di decadenza e asservimento politico alle potenze straniere in cui versava la maggior parte dei paesi islamici, si adoperò per risvegliare le coscienze dei musulmani e soprattutto dei loro governanti, affinchè tornassero a impegnarsi per l’affermazione anche temporale della loro fede.

Sosteneva che lo stato dell’attuale situazione di inferiorità nei confronti dell’Occidente non era imputabile a una presunta inadeguatezza dell’islam di fronte alle esigenze del mondo moderno, ma piuttosto alla responsabilità dei suoi seguaci.

Ribadiva altresì che nel Corano, liberato dalle pastoie (19) che nel corso dei secoli lo avevano ricoperto, c’era l’energia spirituale e la forza necessaria per affrontare la modernità; quindi un islam delle origini, ma non legalista e rigido così come inteso dai wabhabiti bensì puro, libero e vivificato da quella dynamis originaria che gli aveva permesso di crescere e di espandersi in tre continenti e in tempi brevissimi.

Contrario al taqlid (pedissequa imitazione), auspicava la riapertura della porta dell’ igtihad affinché gli studiosi in piena libertà, così come era avvenuto nei primi secoli dell’espansione islamica quando i sapienti musulmani si erano creativamente confrontati con l’immenso sapere scientifico-filosofico dell’antichità, potessero continuare l’interpretazione dei testi sì da poter correttamente introdurre tutte quelle innovazioni necessaria alla modernizzazione della comunità islamica.

Nella sua visione l’islam superava tutte le altre religioni per quanto riguarda l’apertura alla razionalità (20) poiché la mancanza di veri e propri dogmi oltre che di sacramenti, con la loro azione di mediazione tra uomo e dio, sarebbe indice di un suo intrinseco carattere laico e moderno. Il suo pensiero e le sue intuizioni sono all’origine di gran parte delle idee tuttora alla base del dibattito nell’islam contemporaneo.

L’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905), che fu anche Muftì (massimo giureconsulto) d’Egitto, continuò la sua opera anche se su di un piano più speculativo che politico (21). Il suo pensiero, anche se non in modo esplicito onde evitare eventuali censure da parte dei tradizionalisti, si rifà alla scuola mu’tazilita (22); in effetti con lui e con altri pensatori ci troviamo di fronte a un vero e proprio neo-mu’tazilismo (23). Egli era convinto che la soluzione ai problemi che affliggevano il mondo arabo-islamico si dovesse ricercare nell’istruzione.

‘Abduh era stato profondamente turbato dall’occupazione britannica dell’Egitto, ma amava l’Europa, si sentiva a suo agio fra gli europei e conosceva assai bene la scienza e la filosofia occidentali. Nutriva grande rispetto per le strutture politiche, legali ed educative del moderno Occidente, ma era convinto che fosse impossibile trapiantarle, senza prima sottoporle a un’accurata revisione in un Paese profondamente religioso come l’Egitto, dove la modernizzazione era stata troppo rapida e, per forza di cose, aveva escluso la vasta massa della popolazione.

Era essenziale congiungere le innovazioni legali e costituzionali alle idee tradizionali islamiche che il popolo poteva capire. Fu un uomo teso alla prevenzione e alla ricomposizione dei conflitti; in tale veste si adoperò a trovare un accordo tra i sunniti e gli sciiti e fu molto tollerante anche nei confronti degli altri musulmani eterodossi oltre che verso i seguaci delle altre religioni. La sua opera fu continuata da un suo discepolo siriano, Muhamniad Rida (1865-1935) (24)

Fervente ammiratore di ‘Abduh e fornito di una buona conoscenza del pensiero occidentale non si trovò mai a suo agio con gli europei così come lo era stato il suo maestro. Da ‘Abduh ereditò la direzione della rivista al Manar (il Faro), che dal 1898 espresse ufficialmente le posizioni della corrente riformista che prese il nome di Salafiyya., dal termine arabo salaf che indica le “prime generazioni” (25) di credenti che avevano fedelmente seguito gli insegnamenti del Corano e l’esempio del Profeta.

Riteneva che l’unico modo che avessero i musulmani moderni per opporsi alla minaccia straniera fosse quello di ritornare agli ideali della prima ora, sì da ripristinare un ipotetico modello originario, visto come autosufficiente e perfetto. In effetti la Salafiyya era allo stesso tempo riflessione teologica e progetto politico, perché il suo intrinseco scopo era di adattare l’islam al mondo moderno.

Tra l’altro, già otto secoli prima, il grande filosofo al-Ghazali (1058-1111) aveva affermato che nei periodi di crisi l’islam “ritorna” al paradigma medinese sì da trovare quelle energie per superare le difficoltà del momento. Rida non desiderava un ottuso ritorno al passato; cercò di inserire i valori occidentali in un attivo contesto islamico, ma si oppose decisamente a una loro accettazione passiva.

In ogni caso la sua opera da un lato si andò ad avvicinare al movimento wahhabita e dall’altro andò a influenzare profondamente i movimenti radicali del futuro tra cui quello dei Fratelli Musulmani. Questo accadde perché la riforma da lui promossa non si sviluppò nel senso di una riformulazione vivificante e rivitalizzante dei principi teorici, quanto piuttosto come eliminazione delle correnti cosiddette “devianti” (principalmente la mistica e le confraternite).

In essa sono già inscritte tutte quelle pulsioni e tensioni che il mondo musulmano vivrà durante il XX secolo; infatti la radicalizzazione delle società islamiche ha il proprio punto di partenza nell’aver posto l’autenticità primigenia come garante di una modernità specificamente islamica.

D’altro canto le drammatiche vicende politiche di quegli anni spinsero la riflessione islamica ad arroccarsi sempre più nella disperata difesa della propria identità percepita, a questo punto, come sopravvivenza politica. Nel mondo islamo-indiano troviamo Sayyid Ahmad Khan di Delhi (1817-1898). Formatesi all’interno della tradizione riformista di Shah Wali Allah ed entusiasta della cultura occidentale e di quella inglese in particolare, era convinto che la cultura moderna poteva ben conciliarsi con la fede islamica.

Sosteneva che ogni dottrina teologica doveva andare d’accordo con la ragione poiché non vi può essere contraddizione tra la rivelazione di Dio e la Sua creazione. Per questo motivo anche il Corano e la Sunna dovevano essere spiegati razionalmente, riconoscendo come allegorici quei versetti che si trovano in contrasto con le leggi naturali; di qui l’appellativo di “naturisti” attribuito ai suoi seguaci. Egli si situa tra i pensatori che vedono nell’islam e nella sua rivelazione la possibilità di sviluppare un pensiero scientista.

Il suo pensiero teologico si realizzò principalmente nel confronto che fa tra la Bibbia e il Corano. Affermò, primo tra i pensatori musulmani, l’autenticità della Bibbia in quanto rivelazione e ne iniziò un ampio commento dal punto di vista musulmano. Cercò sempre il confronto con gli elementi essenziali della religione, rifiutando qualsiasi approccio apologetico. Il tentativo di riconciliazione teologica fra musulmani e cristiani, da lui operato, è stato un unicum che non si è mai più ripetuto a un livello così alto di ricerca sulle scritture.

La sua opera fu continuata da altre eminenti figure, tra le quali ricordiamo il giurista e filosofo Muhammad Iqbal (1876-1938). Egli fa parte di quel gruppo di intellettuali islamici che alla caduta dell’impero ottomano, in un periodo di grande libertà intellettuale per il mondo musulmano, tentarono di elaborare una nuova sintesi del pensiero islamico. Nato in una famiglia di brahmini convertitisi all’islam da lungo tempo, completò i suoi studi in Europa dove entrò in contatto con le più eminenti personalità della cultura occidentale.

Ritornato in India iniziò a impegnarsi politicamente e a svolgere l’attività di insegnante e avvocato. Inizialmente nazionalista hindu, divenne in seguito membro della Lega Musulmana sì da difendere più specificamente gli interessi dei musulmani indiani. Nel 1930 ne divenne presidente e concepì la nascita di uno stato musulmano separato dall’India, che trovò poi attuazione nel 1947 con la nascita del Pakistan, di cui è senza dubbio il padre spirituale.

Nel suo pensiero ritroviamo sia la possibilità di una sintesi tra islam e occidente che l’idea di un creato in continua mutazione; concezione vitalistica, quest’ultima, mutuata probabilmente dal concetto di shakti (forza vitale), presente nel pensiero hindu. Iqbal è il filosofo musulmano più conosciuto nel subcontinente indiano e uno dei più noti nell’intero mondo islamico.

Sebbene si occupasse di tematiche complesse preferì utilizzare un registro poetico per le sue opere filosofiche sì da ottenerne una maggiore diffusione. Ciò si comprende tenendo presente che, nel contesto in cui operò, la poesia è il principale veicolo di propagazione delle idee. In ciò fu un precursore di alcuni dei moderni mezzi di propagazione delle informazioni, come le audio-cassette, utilizzate dai moderni predicatori islamici in ambiti popolari dove la cultura orale tuttora prevale su quella scritta.

IL RADICALISMO 

(26) Diretta conseguenza degli ultimi sviluppi del moto di rinnovamento è la nascita del radicalismo islamico (27). Il primo autentico ideologo dell’isiam moderno è stato un pensatore indiano-musulmano: Abu al-A’la al-Mawdudi (1903-1979). Teorizzò sia teologicamente che politicamente l’idea di anti-occidentalismo come costante nella storia dell’islam. Partì dal principio che la rivelazione coranica e la nascita della prima comunità islamica a Medina (622-632 d.C.) definiscono in modo netto uno spartiacque storico tra un prima e un dopo della vicenda umana.

Da una situazione negativa incentrata sull’ignoranza (società preislamica) si passa a una positiva basata sulla conoscenza della Parola di Dio (società islamica). Il periodo preislamico nel Corano è chiamato anche i faraoni politeisti sono presentati come appartenenti allavale a dire all’ignoranza e all’impurità. In una rivista da lui pubblicata, precisò la sua visione della che viene intesa non più nella sua valenza storica, ma sovrastorica poiché applicabile in tutti i tempi e in tutte le società.

Contro di essa hanno lottato tutti i profeti e devono lottare tutti coloro che sono guidati dal loro messaggio; questa lotta è jihad (28) La jabiliyya del presente contesto storico si identifica con l’Occidente e con i musulmani che si sono occidentalizzati. Definito ciò non gli rimane altro da fare che costruire una teoria politica che porti all’instaurazione di una società islamica. Egli si propose di rifondare l’insieme della vita umana e di ricostruire una società e uno stato islamico nuovi, partendo dall’esperienza della crisi della moderna civiltà occidentale e dalla paralisi della tradizione nei paesi musulmani. Il modello politico elaborato da Mawdudi si basa essenzialmente sul Corano e sulla Sunna, ma del Corano fa una lettura essenzialmente politica.

I principi fondanti la dogmatica islamica divengono per la prima volta, sulla scia del riformismo e della sua crescente radicalizzazione, concetti principalmente politici. Il (uno e unico Dio) non viene più inteso solo nella sua accezione teologica, ma piuttosto definisce l’approccio globale a un Dio di cui è riconosciuta la sovranità nell’aldilà e nel manifesto. Così l’islam diviene un tutto indivisibile, che si deve accettare o rifiutare per intero, ma anche un tutto immutabile che non ammette cambiamenti o trasformazioni. L’islam diviene una costituzione divina ed eterna sulla quale si devono fondare lo Stato e la società islamica: «una vita voluta e guidata da Dio è superiore a una vita scelta dall’uomo» (29).

Mawdudi costruì una forma dì universalismo che, definendo come superiore una vita autenticamente islamica, destituisce di valore tutti i sistemi sociali creati dagli uomini, e la moderna civiltà occidentale: “essa è segnata da una tara che la condurrà all’autodistruzione perché vive nell’ignoranza delle direttive divine”. In accordo con questa visione si oppose alla formazione del Pakistan, poiché riteneva che la nascita di uno Stato islamico territorialmente confinato fosse un ostacolo, pratico ma soprattutto teorico, alla realizzazione di una rivoluzione islamica universale che portasse alla formazione di uno Stato islamico transnazionale. Riuscì solo ad ottenere che il nuovo Stato adottasse una costituzione di tipo islamico.

In seguito si oppone anche al governo socialista di Ali Bhutto; sua l’affermazione: «finché saremo in vita nessuno oserà applicare in questo paese un altro sistema che non sia quello dell’islam, perché questo paese è quello della comunità di Muhammad, e non quello di Marx o di Mao». A causa delle sue radicali posizioni politiche fu più volte imprigionato.

Influenzato dalle esperienze comunitarie che l’India hindu sperimentava in quegli anni (30), cercò di dar vita a qualcosa di analogo in ambito islamico (31). In un primo momento non vi riuscì, ma nel 1945 fondò l’associazione Jama’a islamiyya che divenne il punto di riferimento politico dei futuri movimenti radicali. Così facendo l’islam politico diviene eversivo poiché rifiuta la dialettica politica e le oppone un progetto politico che deve ispirarsi integralmente all’islam. In seguito fu tra i fondatori della Lega del mondo musulmano (Rabita al ‘alam al-islami) per: «propagare l’islam e difendere il mondo islamico dalle correnti sovversive». A tal guisa svolse un’intensa attività di conferenziere in tutto il mondo arabo.

L’islam radicale con il suo apparato ideologico sorge non a caso proprio nel sub-continente indiano dove, caso unico, si era verificata la compresenza di due fenomeni: l’occidentalizzazione dell’intera società attraverso la presenza coloniale britannica e lo sviluppo di un islam indiano che, decontestualizzato storicamente e culturalmente, viene condannato dai radicali in quanto non corrispondente più al “vero e puro islam” della loro intollerante ideologia.

Nell’ambito dei movimenti ebbe più notorietà e si diffuse maggiormente quello dei Fratelli Musulmani fondato da Hasan al-Banna (1906-1949) nel 1929 in Egitto. Prese l’avvio da un’esigenza prettamente religiosa: reislamizzare la società che appariva ormai intorpidita e senza più fervore religioso. C’è da dire che la società egiziana, aggredita e sconvolta dal colonialismo, si era abituata a sentirsi inferiore a quella europea; e questo per Hasan al-Banna era sbagliato. Al contrario egli pensava che le tradizioni culturali egiziane avrebbero servito gli interessi del popolo meglio di qualsiasi ideologia importata.

Essendo un educatore poté constatare di persona come le nuove generazioni stessero perdendo la memoria religiosa, sintomo di una perdita ancora più profonda: l’identità collettiva. All’inizio pensò di raggiungere il suo obiettivo attraverso la predicazione, ma presto si rese conto che ciò non era sufficiente per cui insieme ad alcuni amici decise di creare un movimento per la reislamizzazione dal basso dell’intera società (32). Il movimento prenderà il nome di Fratelli Musulmani (Ikhwan Muslimin) e avrà come sua prima sede una moschea costruita a Isma’iliyya.

In seguito la sede della società sarà trasferita al Cairo. Cinque sono i punti in cui si articola il suo credo:

1) Dio è il nostro scopo;
2) il Messaggero è il nostro modello;
3) il Corano è la nostra legge;
4) la guerra santa è il nostro cammino;
5) il martirio è il nostro desiderio.

Ben presto il movimento iniziò a configurarsi come partito politico con strutture definite e gerarchizzate. I capi non tolleravano alcun dissenso ed era richiesta un’obbe-dienza assoluta agli affiliati. Ebbe anche un ramo femminile anche se per Hasan al-Banna il cambiamento sociale del ruolo femminile è paradigmatico della deislamizzazione della società. Tra l’altro criticò il fatto che le donne della borghesia egiziana suonassero il pianoforte.

La configurazione principale del movimento è, in ogni caso, di avere una caratteristica missionaria e in questo ricorda i movimenti di massa coevi in Europa negli anni trenta. Vennero create scuole, cliniche, ospedali, moderne camere del lavoro per istruire gli operai sui loro diritti, fabbriche e industrie nei settori della stampa, della tessitura, delle costruzioni e dell’ingegneria. Il tutto connotato sempre da una precisa identità musulmana.

Il contesto storico nel quale si inquadra la vicenda del movimento si riflette nelle sue scelte ideologiche: difesa della Palestina araba; fautore della causa nazionalista nei confronti della presenza inglese in Egitto e sostenitore degli Ufficiali Liberi che con Gamal’Abd al-Nasser prenderanno il potere nel 1952. Purtroppo, tangente al movimento, si sviluppò una corrente terroristica denominata “Apparato segreto” che fu coinvolta nell’assassinio di numerose personalità politiche egiziane e che alla fine fu l’indiretta responsabile della morte dello stesso Hasan al-Banna ucciso dalla polizia il 12 febbraio 1949.

Il continuatore dell’opera di Hasan al-Banna fu Sayyid Qutb (1906-1966) che, fortemente influenzato dal pensiero di Abu al-Mawdudì, diede un ulteriore sviluppo al movimento che si andò a caratterizzare come politico rivoluzionano e con un raggio d’azione transnazionale. Due esperienze in particolare influenzarono l’evoluzione del suo pensiero: un soggiorno negli Stati Uniti che lo allontanò definitivamente dalla modernità e la dura esperienza della prigionia, che fece in seguito, e che lo portò a radicalizzare ancora di più le idee che aveva mutuato da Mawdudi. Le sue opere (33) sono state lette e continuano ad essere lette dai membri dei movimenti radicali contemporanei. Fondamentale è, nel suo pensiero, la reinterpretazione e la riformulazione della jihad:

«L’islam è costretto alla lotta dall’obiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli avversari sono anch’essi degli individui, raggruppati in classi, in stati, in coalizioni. Lo jìhad, in reazione, è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza. È uno jihad mondiale, permanente. Cosi essere musulmano significa essere un guerriero, una comunità di guerrieri sinceri in permanenza, pronti ad essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e quando lo vuole, poiché Lui solo è il capo della battaglia» (34).

Nel 1954, con l’inasprirsi dello scontro che vede i Fratelli Musulmani opposti a Gamal ‘Abd-al Nasser, venne incarcerato. Dopo dodici anni di prigione, il 29 agosto del 1966, a seguito di un’altra sua pubblicazione, Ma’alim fi’l tarìq (Segnali lungo la via) considerata sovversiva, fu condannato a morte e giustiziato.

I movimenti che si rifanno al suo pensiero non sono riusciti, almeno per ora, ad andare al potere; mentre un esito completamente diverso si è avuto nell’Iran sciita (35) con la rivoluzione islamica che, sotto la guida di Ruhullah al-Musavi al-Khomeyni (1902-1989), è riuscita nel 1979 a defenestrare l’ultimo Shah della dinastia Pahlavi sì da instaurare una repubblica islamica.

CONCLUSIONE

II volto che l’islam ci svela attraverso una più profonda conoscenza del suo pensiero, così come sì è andato ad articolare in questi ultimi cinque secoli, è alquanto complesso e ben lontano da alcune concezioni stereotipate che di volta in volta l’hanno presentato come arretrato e incapace di continuare a produrre una qualsiasi accettabile novità dopo i gloriosi fasti dei primi secoli della propria era. Le soluzioni che di volta in volta si sono ipotizzate essere le più idonee a far fronte a un farsi della storia che spesso, in particolare dal XVI secolo in poi, è stato percepito come minaccioso sono state molteplici anche se non sempre adeguate a sostenere il passo dei tempi. Ed è qui che bisogna rintracciare le cause delle problematiche che al giorno d’oggi affliggono l’universo islamico.

Tra l’altro, i complessi e drammatici intrecci tra la religione, la politica, la violenza terroristica, le guerre vere e proprie, l’incessante flusso migratorio verso l’Europa, uniti a un’esplosione demografica inarrestabile (circa 750 milioni di islamici hanno al massimo 25 anni) con conseguenti enormi disagi sociali, rendono alquanto problematico il rapportarsi al diverso da sé, a ciò che islamico non è.

Paradigmatico di quanto appena detto è ciò che è accaduto dopo il discorso che Papa Benedetto XVI ha tenuto a Ratisbona il 12 settembre 2006 durante il Viaggio Apostolico in Germania. All’interno di un’ampia e articolata riflessione sul rapporto tra fede e ragione il Papa ha fatto riferimento a un dialogo avvenuto intorno al 1391 d.C, tra l’imperatore bizantino Marmele II Paleologo e un persiano colto su cristianesimo e islam.

Alcune espressioni contenute nel dialogo, estrapolate dal discorso generale e rapidamente diffuse dai media, sono state ritenute, dai fedeli islamici, fortemente lesive dell’immagine della propria religione per cui, in tutto l’ecumene islamico, ci sono state vibranti proteste, anche da parte di alcuni governi, che talvolta sono degenerate in violenza e in comportamenti dissacranti riguardo alla persona stessa del Papa.

Per qualche giorno si è temuto che la situazione potesse degenerare creando profondi solchi di incomprensione e rancore tra islamici e cristiani. Il 16 settembre il nuovo Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, è intervenuto dicendo che: «il Papa è vivamente dispiaciuto che il suo discorso di Ratisbona sia stato ritenuto offensivo della sensibilità dei musulmani; ma è stato interpretato in modo del tutto non corrispondente alle sue intenzioni».

Il giorno dopo all’Angelus e il mercoledì successivo, alla consueta udienza generale, è stato il Papa stesso a chiarire ulteriormente i termini della questione; tra l’altro ha detto: «Non volevo in nessun modo far mie le parole negative pronunciate dall’imperatore medievale in questo dialogo. Il loro contenuto polemico non esprime la mia convinzione personale». L’incontro del 25 settembre, a Castel Gandolfo, con gli ambasciatori e le personalità più autorevoli del mondo musulmano, ha rinsaldato ulteriormente i rapporti tra i fedeli delle due Fedi.

Questa vicenda, inedita nel suo dispiegarsi, ha evidenziato ancora una volta l’enorme complessità e fragilità dell’attuale momento storico.

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