Che cosa c’è dietro l’ecclesialese

Maritain

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Mournier

Mournier

Il Foglio 7 novembre 2006

Gran teologo libertario e tradizionalista spiega perché certa chiesa conciliare non può soffrire gli atei devoti Maritain e Mounier, la fine della cristianità e un problema per i cristiani cattolici: come sostituire la vecchia autorità? Il primato papale è ancora un capitolo della lotta contro i miti giacobini che schiacciavano la persona sotto il tacco del popolo

di Gianni Baget Bozzo

Il punto che ha sollevato più problemi  nella prolissa orazione del Cardinale  Dionigi Tettamanzi a Verona è quello interpretato come rivolto agli “atei devoti”,  con la citazione di Sant’Ignazio di Antiochia: è preferibile essere cristiani senza  dirlo che dirlo senza esserlo. L’informazione dei cattolici parrocchiali e dei movimenti è globalmente favorevole alla sinistra, e quindi si comprende che una parte  dell’assemblea abbia interpretato così la  dichiarazione del cardinale.

Il fenomeno dei teocon è un fatto mediatico americano e italiano, in ambedue i casi essi hanno sostenuto posizioni di destra, appoggiando Bush e Berlusconi. Ma hanno la stampa avversa nel mondo cattolico perché difendono la chiesa come cristianità, cioè come civiltà e non semplicemente come fatto religioso compatibile con tutte le civiltà, capace di inculturazione in tutte le culture perché essa è una metacultura.

La cristianità, cioè il regime civile e cristiano dei paesi occidentali e della Russia, non è mai stata vista bene dalla cultura cattolica del Novecento o meglio da quel filone minoritario di essa che è prevalso dopo il Concilio Vaticano II. La cristianità era il regime delle nazioni cristiane in cui il potere della fede era anche un potere politico, vi era una connessione tra chiesa cristiana e forza pubblica.

Non che la forza pubblica fosse un mezzo abituale di conversione, le conversioni dei popoli germanici, dai franchi agli slavi, avvenne per decisione collettiva, l’ultima conversione collettiva è quella dei lituani del XV secolo. Certamente le conversioni collettive erano un fatto politico, nascevano dal fatto che il re rappresentava il consenso comune del popolo e questi accettava la scelta regale.

Fu certo una conversione che diede luogo a un evento a un tempo politico e religioso ma non fu imposto con la forza ma mediante la tradizione. Nei paesi dell’Impero romano essa avvenne come scelta individuale e passò per la prova del martirio. Ma la cristianità come insieme di popoli di religione cristiana era un fatto pubblico che durò a lungo. E possiamo pensarla finita solo con il secolo scorso, con la fine degli ultimi Stati che si consideravano discendenti dall’Impero romano, formula suprema di legittimità politica nei tempi della cristianità: l’Impero russo, l’Impero asburgico, l’Impero tedesco.

La cristianità finisce nel ventesimo secolo e ha praticato vari regimi politici e la sua evoluzione è giunta a riconoscere la libertà religiosa, cioè la separazione della professione di fede e cittadinanza. Da allora comincia a diffondersi nel mondo cattolico il pensiero che la connessione del cristiano con l’istituzionale sia un principio da dimenticare e che quindi occorra pensare la fine della cristianità come fine della connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche. Si tratta di superare la cristianità per un altro regime.

Pochi libri hanno avuto il successo nel mondo cattolico, durante il secolo ventesimo, di “Umanesimo integrale” di Jacques Maritain, resoconto di conferenze tenute in Spagna nel medesimo anno in cui scoppiava la Guerra civile, 1936. In essa veniva sostenuta l’idea che la cristianità fondata sul primato di Dio andava cambiata con un regime fondato sull’uomo con il supremo valore della sua libertà.

Questa veniva chiamata da Maritain nuova cristianità, ma consisteva in sostanza nella accettazione del principio dello stato laico. In Maritain queste posizioni venivano come ripulsa delle tesi di Charles Maurras e della Action francaise, che vedevano nel cattolicesimo la forma della monarchia francese e quindi della struttura della Francia come nazione. Nacque poi la tesi di Emanuel Mounier nella fine della cristianità. Non era un caso che nella Francia degli anni Quaranta nascesse la tesi della Francia “paese di missione” e sorgesse il movimento dei preti operai per evangelizzare la Francia.

L’operazione compiuta in questi passaggi era più rischiosa di quanto non sembrasse perché voleva dire semplicemente abolire il vincolo religioso dell’istituzione politica. Con quale vincolo sostituirlo? Il moderno aveva elaborato in chiave anticristiana un metodo per legittimare l’autorità politica, cioè il contratto sociale tra gli uomini in stato di natura considerata come la guerra di tutti contro tutti.

In Hobbes e in Locke non prese forme anticristiane perché il loro secolo, il Seicento, conosceva ancora il rapporto tra la religione e le istituzioni civili. Ma nel XVIII secolo il principio di una fondazione non religiosa delle istituzioni politiche prese forma nel contratto sociale di Jean Jacques Rousseau: il conferimento della libertà di ciascuno alla libertà di tutti, facendo così del popolo un soggetto totale e assoluto. Per la prima volta nasceva nella storia della cristianità il potere assoluto del popolo sul singolo. Il popolo costituiva il nuovo soggetto assoluto.

I giacobini di Robespierre fecero di questo assoluto un principio reale e crearono lo stato moderno nella sua forma rivoluzionaria. La chiesa cattolica viene così privata delle sue libertà, conobbe il martirio nelle sue forme più dolorose. La chiesa non ha più di fronte nella Francia rivoluzionaria uno stato cristiano ma una Repubblica in cui il popolo è un assoluto e in cui la chiesa si vede o negata l’ esistenza e la libertà, come dai giacobini, o concessa come libertà limitata da Napoleone.

La chiesa cattolica si trova così a lottare per uno stato di potere limitato e decide di cercare il limite dello stato nei suoi confronti mediante la firma dei concordati con gli stati. La chiesa mantiene il concetto della legittimazione divina dell’autorità istituzionale e quindi il vincolo religioso delle istituzioni politiche.

I cattolici non si sottrarranno al potere delle armi in tutte le guerre combattute nel XIX secolo e nel XX secolo. Il principio che ogni potere viene da Dio si mantiene all’interno della chiesa anche quando all’interno della cristianità nascono gli stati totali nell’Ottocento e gli stati totalitari nel Novecento. Ma proprio l’esistenza di questi stati pone il problema se veramente si debba considerare come cristianamente obbligante per virtù di religione l’obbedienza al potere politico.

Fascismo, nazismo e comunismo danno l’immagine dello stato satanico che vuole inglobare tutto e possedere tutto e quindi implicano la considerazione che il potere politico sia principio di male e non di bene e dunque vada interpretato con categorie apocalittiche come quelle del potere della Bestia. Si prepara così come conseguenza al totalitarismo europeo una rivisitazione del concetto religioso dell’autorità politica e dello stesso fondamento naturale dell’ordine sociale.

Il cristiano di fronte allo stato tende a porsi come soggetto libero, non obbligato ove il potere politico divenisse totale e assoluto. Il caso si pone in modo più netto nella teologia protestante tedesca, dove il luteranesimo aveva affidato il governo della chiesa alle autorità politiche. Qui la chiesa confessante tedesca, animata da Karl Barth, inizia il distacco dalla legittimazione religiosa del potere politico innanzi al caso del nazismo.

E sarà un pastore protestante tedesco, Dietrich Bonhoeffer, a dedurre, sul piano del pensiero e dell’azione, le conseguenze di questa libertà di coscienza dinanzi al potere politico totalitario partecipando all’attentato organizzato da un cattolico contro Hitler. Si consuma così nella coscienza cristiana europea il vincolo originario tra chiesa e istituzioni politiche.

Questa libertà di coscienza di fronte allo stato comunista prenderà la forma della insurrezione degli operai tedeschi nel ’53 e nella rivoluzione ungherese nel ’56 e in quella cecoslovacca nel ’68. Nel ’56 si muoverà anche la Polonia cattolica, che sarà nel 1980 il centro di una insurrezione cattolica, che ricordava quelle nazionali del 1848 e del 1867.

Il diritto di insurrezione in caso di grave crisi dell’ordine politico e sociale, di tirannia insostenibile, ha sempre fatto parte della dottrina cattolica delle istituzioni civili, che non ha mai escluso il principio della rivoluzione. Ma solo nel Novecento l’insurrezione popolare con partecipazione cattolica appare in forma così vistosa come nei paesi cattolici occupati dal potere sovietico.

Negli anni Venti e Trenta del secolo era già avvenuto in più riprese con l’insurrezione dei cattolici messicani contro la dittatura laicista del governo che era giunta fino alla lotta partigiana con i Cristeros, combattenti insorti per la libertà della chiesa in Messico. Così, nel trapassare della cristianità, il principio della soggezione all’autorità civile come potere voluto da Dio viene lentamente meno e si afferma invece un carattere antecedente e primaziale dei diritti di libertà fino all’insurrezione.

Ma con questo rimane anche aperta la definizione dello stato politico del cristiano, e del cattolico in particolare: esso non può più essere definito in primo luogo dalla legittimità e dalla legalità del potere. Risulta così indebolito il principio di autorità non solo nei confronti dello stato ma in quello della chiesa stessa.

Il principio di autorità tende a essere sostituito dal principio del consenso dei governati. Ciò appare già nel fatto che il Concilio Vaticano II stabilisce di non usare la condanna di alcuna dottrina, dandosi il compito di un “aggiornamento” della dottrina comune. Ciò crea il maggior sommovimento di base mai accaduto nel mondo cattolico mettendo in crisi il concetto di tradizione come elemento vincolante le decisioni della chiesa.

Nasce così il modello di una chiesa fondata non sulla autorità pontificia ma sulla codecisione a vari livelli: dei teologi, del clero, dei vescovi. E’ un modello di chiesa della codecisione che si scrive all’interno della chiesa e che ha per centro in modo particolare l’autonomia del dibattito teologico, il punto più sensibile nei rapporti tra autorità e libertà.

Questo modello, che cerca la sua legittimità nella collegialità dell’episcopato insegnata dal Concilio Vaticano II, rimane un modello alternativo di chiesa fondato sul primato romano. E, poiché tutte le altre chiese si fondano su modelli o sinodali, come le chiese ortodosse, o collegiali come le chiese protestanti, la conciliarità della chiesa, come viene definita assume il fascino del richiamo ecumenico.

L’omologazione della chiesa cattolica alla sinodalità delle chiese orientali e alla collegialità delle chiese protestanti è vista come la strada alla realizzazione dell’unità ecumenica della chiesa. Sinora il primato papale ha avuto la capacità di mantenere il concetto dell’autorità derivata direttamente da Cristo a Pietro e ai suoi successori nella sede romana, il carisma petrino. Ma il modello alternativo rimane, nella tesi che il Vaticano II sia stato un concilio ambiguo, in cui le novità conciliari sono state messe in sottordine dal governo papale.

Questo rende possibile la coesistenza di due ecclesiologie, quella tradizionale fondata sul primato petrino e quella che tende a sviluppare lo spirito del “Concilio” e quindi a una espansione della ecclesiologia dal basso, fondata sull’autonomia delle varie componenti ecclesiali e sulla loro codecisione.

Ciò si associa al fatto che la crisi della cristianità conduce alla concezione di un insieme di principi considerati come diritti umani che intendono imporsi come forma totale della società. E questo in chiave internazionale. E, vista l’esistenza dell’Unione europea, come principi obbliganti per tutte le realtà operanti all’interno dell’Unione.

Si forma l’ideologia di un diritto superstatale che attribuisce i diritti fondamentali ai gruppi sociali e culturali, qualunque sia la loro natura, legati al sesso, alle inclinazioni sessuali, alle condizioni culturali e religiose. Essi si impongono come forma di ragione a tutta la società. Essa deve conformarsi a dei principi visti come razionali e imposti come tali come forma del diritto positivo.

La chiesa cattolica è rimasta unica nel suo genere a concepire una autorità derivata dall’alto e legata a un carisma alla persona. Perciò vi è una pressione ambientale che tende a contraddire la differenza cattolica nel suo richiamo esplicito alla trascendenza come fondamento della elezione divina di una persona: il vescovo di Roma. Si comprende quindi come anche i non credenti capiscano che l’autorità del Papa è il presidio della libertà della persona nella sua concretezza contro una dittatura del diritto sopranazionale tendente a creare la legittimità dei gruppi sociali in quanto portatori dei diritti di libertà.

L’elevazione al soglio del Papa in funzione di un carisma divino connesso all’elezione è il simbolo di una relazione diretta della persona con Dio e la sua simbolicità riguarda lo stato di ogni persona. Non è un caso che i Papi che hanno avuto successo nella comunicazione sociale hanno giovato alla autorità della chiesa e hanno avuto il consenso di persone di altra confessione o di nessuna confessione.

Il primato papale, che sembrava al moderno la negazione della libertà e dell’eguaglianza, finisce, nel tempo della globalizzazione, per apparire come una forma della trascendenza della persona sul diritto dei gruppi legati al sesso, alla cultura e alle religioni. Il Papa diviene così il garante del volto umano dell’autorità. Ciò è rafforzato dal fatto che i mezzi di comunicazione sociale fanno sempre più del volto di un uomo il garante del consenso democratico.

Il legame tra il volto e il popolo è ciò che dà alla persona la sua capacità di messaggio e al popolo la sua possibilità di identificazione.La sinodalità e la codecisione tolgono calore alle chiese che vi partecipano e fanno del diritto l’unica norma della decisione. L’autorità carismatica del Papa è l’eccezione che dà personalità alle istituzioni e quindi consente al popolo cattolico di avere un’icona, un simbolo personale di un carisma che viene dall’alto.

E’ questa forza che ha sinora impedito che il sinodalismo e la collegialità divenissero la forma di un governo impersonale della chiesa, non aperto a ciò che solo la persona può ricevere e cioè l’ispirazione divina. Nella società in cui tutto viene dal basso, la trascendenza divina può acquisire una icona, un simbolo, qualcosa che viene dall’alto.

E’ proprio la figura personale del carisma papale che dà al successore di Pietro una capacità di rappresentanza più vasta della stessa chiesa cattolica, perché solo il volto di una persona può rappresentare la dimensione trascendente delle stesse chiese che non sono in comunione con Roma.

Ma questo non toglie il fatto che vi sia una tendenza alla democratizzazione della chiesa, alla sua riduzione ad apparato regolato da norme convenienti che garantiscono la meritocrazia. Ma è la metarazionalità che esprime la figura del pontefice romano a renderlo significativo nella dimensione universale della chiesa.