1453 così muore un impero per mano dell’islam

caduta_CostantinopoliIl Foglio, 23 settembre 2006, pp. VI e VII

La conquista di Costantinopoli. Cronaca dell’ultimo giorno, ora per ora. “I tuoi giovani li divorò il fuoco e nessuno prese il lutto per le tue vergini”. “Costantinopoli cadde sotto il regno dell’imperatore Costantino, settimo dei Paleologi, il 29 maggio secondo il calendario bizantino nell’anno 6961 dall’inizio del mondo e 1124 dalla fondazione e colonizzazione della Città” (Critobulo di Imbro, “Sulle imprese compiute da Mehmed II negli anni 1451-1467”). “… l’imperiale e nobilissima città di Costantinopoli è perduta… E’ accaduto il giorno 29 maggio or ora  trascorso, giorno quanto mai infausto” (Missiva spedita da Candia di Paolo Dotti, 11 giugno 1453). “Tutto questo avvenne nell’anno dell’Egira, cioè nell’857” (Qyvâmî, “Racconto delle conquiste del sultano Mehmed”).

di Stefano di Michele

A voler credere a certi segnali, era chiaro che la faccenda buttava malissimo. Racconta John Julius Norwich in “Bisanzio” (Mondadori): “Intanto erano comparsi i prodigi. Il 22 maggio ci fu un’eclissi di luna: un paio di giorni dopo l’icona più venerata della Vergine, portata in processione perché intercedesse per la città, cadde a terra. Qualche minuto dopo scoppiò un violento temporale che costrinse i fedeli a rientrare nello loro case. Il giorno successivo Costantinopoli si svegliò sotto una fitta nebbia, un fenomeno inaudito alla fine di maggio, e alla sera la cupola di Santa Sofia fu avvolta da un arcano bagliore rossastro, che dalla base salì lentamente fino alla cima e quindi si dissolse.

Lo notarono anche i turchi da Galata e lo stesso Mehemet ne fu molto turbato e si rassicurò soltanto dopo che i suoi astrologi lo ebbero interpretato come il segno che la Chiesa sarebbe ben presto stata illuminata dalla vera fede. I bizantini non ebbero dubbi sul suo significato: lo Spirito divino aveva abbandonato la loro città”. Costantinopoli sprofondava.

Tra poche ore il sultano turco entrerà in Santa Sofia, che secondo i cronisti “ha un perimetro grande come il circuito di una corsa e quattrocentosessantatre porte d’onore e 6.000.600 e 66 colonne che la reggono ed è stata costruita in nome delle piaghe di nostro Signore”. “Un prodigio del paradiso”, la definiscono Tursun Beg e Ibn Kemâl, storici turchi dell’epoca. “Se desideri contemplare il paradiso, visita l’Aya Sofya.

L’Aya Sofya è il più alto cerchio del Paradiso”. Raccontano ammirati nella “Storia del signore della conquista”: “E’ un edificio solido, una costruzione poderosa, al punto che, per salire sulla cima, che assomiglia al cielo, è necessario essere immuni dalle vertigini. Nulla di simile esiste al mondo, bisogna riconoscere che nulla di simile fu costruito sulla terra”. Sotto quella cupola, “che pretende di uguagliare la cupola dei nove cieli” – ora passeggia Mehmet (Maometto) II il Conquistatore. Con un gesto della mano ferma un soldato che sta devastando il pavimento di marmo a colpi d’ascia, con un secondo gesto invita l’imam più anziano a salire sul pulpito, da dove pronuncia il nome di Allah, “clemente e misericordioso”.

Dal libro di Norwich: “Il sultano chinò il capo avvolto nel turbante  fino a sfiorare il pavimento in segno di preghiera e di ringraziamento. Santa Sofia era diventata una moschea”. E’ in questo preciso istante che davvero Costantinopoli, la nuova Roma, smette di esistere. Ma mancano ancora alcune ore a tutto questo, le ore più tragiche della storia millenaria della città. Da quasi cinquanta giorni Mehmet bombarda le mura teodosiane, che per secoli l’avevano difesa.

“All’assedio c’erano parecchie grosse bombarde e un gran numero di colubrine e altri strumenti per il lancio di proiettili”, scrisse nelle sue memorie Jacopo Tedaldi, mercante fiorentino che partecipò alla difesa della città. Intanto dentro Santa Sofia, quasi al buio, “tutte le candele, tranne quelle perenni, si spensero”, l’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, prega. Non sono arrivate le navi veneziane, non si è mossa la cristianità. La città aspetta l’inevitabile.

Costantino torna nel palazzo delle Blacherne, saluta i familiari. Percorre per l’ultima volta a cavallo il perimetro delle mura. Sta per morire. Di sicuro in battaglia. Ma nessuno saprà mai come, né dove sia finito il suo corpo. Ha lasciato scritto Giorgio Sphrantzès, che fu suo “gran logothetes”, più o meno il ministro delle finanze: “La vita di lui, imperatore e martire, di buona memoria, durò in tutto quarantanove anni, tre mesi e venti giorni, di cui quattro anni, quattro mesi e ventiquattro giorni come imperatore, ottavo nella successione della casa del Paleologi”.

L’inizio della fine di Costantinopoli prende corpo all’una e mezza di notte, tra il 28 e il 29 maggio, quando il sultano dà il segnale dell’attacco finale. “La stella di Lucifero – scrisse l’umanista Ubertino Pusculo – impallidendo portava con sé il sorgere dell’aurora e per la città il suo ultimo giorno, la sua caduta”.

Dall’accampamento turco urla, squilli di tromba, rullio di tamburi. Oltre le mura, suonano tutte le campane dell’antica Bisanzio. E’ l’inizio della battaglia. Ecco ciò che il cardinale Isidoro di Kiev vede con i suoi occhi e racconta in una lettera a Papa Nicolò V qualche settimana dopo: “Al termine della battaglia durata tutta la notte, quando le truppe turche erano ormai esauste, essendo riuscite a penetrare verso l’alba attraverso una breccia delle mura, la città di Costantinopoli, un tempo felice capitale di tutte le città, ora invece quanto mai infelice e degna di pietà, fu presa: era il giorno 29 maggio. La sua conquista supera di gran lunga tutte le conquiste di città avvenute dall’inizio del nostro secolo: quella di Gerusalemme da parte del re Nabucodonosor fu una piccola e povera cosa in confronto a questa, così grande e così grave”.

E il racconto di Nicolò Barbaro, medico veneziano imbarcato su una galera della Serenissima: “Or i nostri cristiani avea una gran paura, fexe sonar el serenissimo imperador campana martelo per tutta la zitade, e cusì a le poste de le mure cridando  ognomo: ‘Mixericordia eterno Dio’; cusì cridava homeni come done, e masima le muneghe e  donzele; iera tanti i pianti che l’avaria fato pietà ad ogni crudo Zudeo”.

E c’è scritto nel “Racconto di Costantinopoli” di Nestore Iskinder: “I cadaveri dei soldati di ambedue gli eserciti cadevano a mucchi dai bastioni e il loro sangue scorreva a fiumi lungo le mura ed i fossati si riempirono interamente di cadaveri, così che i turchi potevano passare su di essi, come se fossero delle scale, e combattere; per loro i morti erano come un ponte e una scala per penetrare nella città”.

Infine, da una porticina penetrano i primi gruppi di assalitori – forse irregolari, non i temuti giannizzeri – appare una bandiera turca su un torrione a nord. La città cede. E’ l’inizio del suo giorno più duro e più lungo. Scrittori e testimoni di entrambi i fronti hanno lasciato testimonianza di quelle ore. Per alcuni di tremenda sconfitta, per altri di esaltante vittoria. Ma sempre testimonianze di un saccheggio sono.

E un saccheggio è un saccheggio. Cioè, crudele sempre. Ecco come, per Isidoro di Kiev cardinale Ruteno, in una missiva “al reverendissimo signor Bessarione, vescovo di Tusculo cardinale Niceno, legato papale a Bologna”, morì Costantinopoli: “Tutte le vie, le strade e i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri degli uccisi e fatti a pezzi.

Dalle case venivano tratte fuori le donne, nobili e libere, legate fra loro con una fune al collo, la serva assieme alla padrona e a piedi nudi, per lo più, e così pure i figli,  rapiti con le loro sorelle, separati dai loro padri e dalle loro madri, erano trascinati via da ogni parte. Avresti potuto poi vedere – o sole, o terra! – schiavi e servi turchi d’infimo grado portar fuori e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose, e trascinarle fuori dalla città, non come buoi o pecore o altri animali domestici e mansueti, ma come se fossero un gregge indomabile di fiere spaventevoli, selvagge e crudeli, circondate tutt’attorno da spade, sicari, guardie e assassini… ”.

E poi, là dove sta per mettere piede il sultano: “Appena fu loro possibile buttarono giù e fecero a pezzi nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia e che ora è una moschea turca, tutte le statue, tutte le icone e le immagini di Cristo, dei santi e delle sante, compiendovi ogni sorta di nefandezza. Saliti come invasati sul ripiano dell’ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto. Abbattute le porte del santuario, ghermivano tutte le cose sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che han fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d’oro con le immagini di Cristo e i santi li usavano come giacigli in parte per i cani, in parte per i cavalli. Calpestano coi piedi gli Evangeli ed i libri delle chiese, abbattevano monumenti di marmo lucido e splendente, tutto facevano a pezzi…”.

Lo stesso cardinale rischiò grosso. Nello scritto di un certo Enrico di Soemmern (forse un addetto alla cancelleria papale) si racconta: “Il cardinale Ruteno, greco di nascita, mandato lo scorso anno dal pontefice a Costantinopoli per indurre i greci a riconoscere anch’essi il primato della Chiesa di Roma e, fin dove è possibile, il suo potere di giurisdizione su tutte le Chiese del mondo (cosa che egli fece, ed è atteso a Roma tra otto giorni) riuscì a salvarsi. Quando la città cadde in mano a Mehmed, egli si era recato a Santa Sofia credendo che lì vi fossero degli armati in grado di resistere ai turchi.

Non avendovi trovato nessuno in armi e vedendo che tutti fuggivano, il buon padre volle andare incontro ai turchi per versare il sangue per la fede. Poi, costretto da alcuni suoi servitori, si rifugiò nella chiesa, dove fu catturato dai turchi e rimase poi per tre giorni in incognito nel grande esercito dei turchi. Lo salvava il fatto che correva voce – e ci credeva anche l’imperatore dei turchi – che fosse stato ucciso”.

Insomma, in un modo o nell’altro, Isidoro di Kiev se la cavò. In seguito racconterà: “Ho visto io stesso, con i miei occhi, le loro azioni ed i loro misfatti, e anch’io, assieme a tutti gli altri costantinopoliani, sono passato attraverso le stesse sofferenze, anche se Iddio mi ha strappato dalle mani degli empi, come Giona dal ventre del mostro”.

Ed ecco le stesse scene di saccheggio – che viste dai vincitori assumono la valenza di scene di  conquista – rievocate nella “Storia del signore della conquista” di Tursun Beg e Ibn Kemâl:  Quando per il favore divino la fortezza fu espugnata, il nemico perdette ogni forza e fu incapace di reagire. Il popolo fedele non incontrò più ostacoli e pose mano al saccheggio in piena sicurezza.

Si potrebbe dire che la vista della possibilità di poter fare bottino di ragazzi e di belle donne devastasse i loro cuori e i loro animi. Trassero fuori da tutti i palazzi, che uguagliavano il palazzo di Salomone e si avvicinavano alla sfera del cielo, trassero nelle strade, strappandole dai letti d’oro, dalle tende tempestate di pietre preziose, le beltà greche, franche, russe, ungheresi, cinesi, khotanesi, cioè in breve le belle dai morbidi capelli, uguali alle chiome degli idoli, appartenenti alle razze più diverse, e i giovanetti che suscitano turbamento, incontri paradisiaci… ”.

E oro e pietre e perle e tessuti e argento e ogni sorta di cosa preziosa, “in una tale quantità che sembrò di vedere la terra far uscir fuori i suoi tesori”. Ciò che invece vide il medico veneziano Nicolò Barbaro: “Or per tuta questa zornada Turchi si fexe una gran taiada de cristiani per la tera; el sangue se coreva per la tera come el fosse stà piovesto, e che l’aqua si fosse andada per rigatoli cusì feva el sangue; i corpi morti cusì de cristiani, come de Turchi, queli si fo butdi in nel Dardanelo, i qual andava a segonda per mar, come fa i meloni per i canali. De l’imperador mai non se potè saver novela de fatti soi, nì vivo, nì morto, ma alguni dixe che el fo visto in nel numero di corpi morti, el qua fo dito, che el se sofegà al intra’ che fexe i Turchi a la porta de San Romano”.

Già, dov’era finito Costantino XI, l’ultimo imperatore? Morto di sicuro, ma la sua fine resta un punto controverso. Silvia Ronchey, nel suo appassionante “L’enigma di Piero” – dove viene svelata l’ombra e rivelato un possibile tentativo di far rinascere a occidente parte della civiltà bizantina,  attraverso l’analisi di simboli e figure della grandiosa Flagellazione di Piero della Francesca – rievoca una leggenda: “Costantino XI, l’ultimo eroico imperatore, era morto in battaglia.

Molti non riuscivano a crederci e dicevano che si era marmificato: una statua di marmo sprofondata nei sotterranei della Città, che ogni notte si animava e continuava a combattere contro gli infedeli, lanciando con la spada scintille nel buio”.

Scrive John Julius Norwich: “Correva naturalmente voce che si fosse salvato, ma quasi tutte le fonti, compreso Giorgio Sphrantzes, l’amico più intimo con cui Costatino avrebbe sicuramente comunicato se fosse stato vivo, sono concordi nel dire che egli  morì combattendo. Un cronista racconta che i soldati turchi ne riconobbero il cadavere dalle aquile imperiali ricamate sugli stivali.

Mehmet non poteva riservargli un sepolcro, che sarebbe diventato una meta di pellegrinaggio per tutti i filobizantini, ma non è del tutto escluso che le spoglie di Costantino siano state nascoste e sepolte in segreto. Fra tutte le versioni sul destino di Costatino XI, la più probabile tuttavia è la più semplice: che il cadavere non sia mai stato identificato e che l’ultimo imperatore di Bisanzio sia stato gettato in una fossa comune insieme ai suoi soldati”.

Anche se altre storie, altre leggende, altri racconti dicono cose diverse. Una conclusione che trova qualche riscontro nelle cronache dello storico bizantino Ducas: “Allora l’imperatore, sentendosi perduto, tenendo saldamente ancora la spada e lo scudo disse queste parole commoventi: ‘Non c’è cristiano che mi tagli la testa?’. Era rimasto completamente solo. Allora uno dei turchi lo colpì e lo ferì al viso, ed egli gli restituì il colpo, ma uno di quelli che gli stavano alle spalle gli inferse un colpo mortale ed egli cadde a terra. I turchi però non sapevano che era l’imperatore, e quindi, dopo averlo ucciso, credendolo un soldato comune, lo lasciarono lì”.

Invece Costantino di Ostrovica, che era giannizzero e che partecipò alla presa di Costantinopoli, sostiene che Costantino fu ucciso insieme ai suoi fanti e “tagliò la testa del suo cadavere un giannizzero di nome Sarielles, che la portò all’imperatore all’imperatore e gettatala ai suoi piedi disse: ‘Beatissimo signore, eccoti la testa del più crudele dei tuoi nemici’ ”.

Finì così, sotto un mucchio di altri anonimi cadaveri, il sangue nobile mischiato a quello degli schiavi, una fossa o un rogo comune, l’ultimo basileus – Costantino XI Paleologo, figlio di quel Manuele citato da Benedetto XVI – della splendida Costantinopoli. O si può anche credere, come racconta Silvia Ronchey, che si sia fatto pietra e poi sprofondato sotto la terra, per tornare a combattere un giorno.

Morti e sangue e urla e violenze accompagnano la fine di Bisanzio. Perché ogni testimone – cristiano o musulmano – pure questo racconta. Ecco cosa si trova, a proposito della sorte di Costantino XI e di quella della sua città, nelle pagine del “Libro che descrive il mondo” dello storico turco Mehmet Nesri, forse un dottore della legge islamica al tempo di Mehmet II: “I ghâzî penetrarono nella fortezza, tagliarono la testa al principe infedele, fecero  prigioniero il suo vizir Kyr Luka con tutte le persone che da lui dipendevano. Nella fortezza vi era anche un altro discendente di Osman e sgozzarono pure lui. Passarono a fil di spada tutti i maschi  dello stolto popolino della città, resero prigionieri delle catene e dei gioghi i loro familiari. In Aya Sofya e in altre chiese i ghâzî fecero a pezzi a colpi di scure gli idoli d’oro e d’argento, e chi si prese il braccio, chi le gambe, chi la testa. Misero a sacco tutto ciò che trovarono dei beni degli infedeli. Il bottino fu enorme. Disse il profeta: ‘Certo conquisteranno Costantinopoli e il suo principe sarà un principe eccellente e l’esercito che la conquisterà sarà un esercito eccellente’ (… ) Da quel momento è divenuto proverbiale dire a coloro cui si vuole attribuire una grande ricchezza: ‘Hai partecipato al sacco di Istanbul?’. Se dovessimo descrivere tutto il bottino che fu fatto, il discorso diventerebbe lungo. In questa guerra ci furono così tanti eventi che la penna non riesce a descriverli tutti, la lingua non riesce a enumerarli”.

La stessa cosa, pur con altri occhi, vide Leonardo di Chio, arcivescovo di Mitilene, che fu fatto anche prigioniero e riuscì a fuggire. Scrisse “al signore nostro beatissimo” Papa Nicolò V nell’agosto del 1453: “Per tre giorni dunque la città fu percorsa da predatori e saccheggiatori e poi questi, sazi di ricchezze, la lasciarono in potere del sovrano turco. Ogni ricchezza ed ogni preda viene trasportata nelle tende; tutti i cristiani, in numero di circa sessantamila, legati con funi, cadono prigionieri. Le croci, strappate dalle cupole e dalle pareti delle chiese, furono calpestate sotto i piedi; vennero violentate le donne, deflorate le fanciulle, oltraggiati turpemente i giovanetti, contaminate con atti di lussuria le monache e quelle che le servivano. Dio mio, quanto devi esser adirato contro di noi, con quanta durezza hai distolto il tuo sguardo da noi tuoi fedeli! Che dire? Tacerò e racconterò le offese arrecate al Salvatore e alle sante immagini? Perdonami, o Signore, se narro crimini così orribili… Gettarono a terra le sacre icone di Dio e dei santi e su di esse compirono non solo orge, ma anche atti di lussuria. Poi portarono in giro per gli accampamenti il Crocefisso, facendolo precedere da suoni di timpani, per irrisione, e lo crocifissero di nuovo durante la processione…”.

Fu più che la conquista di un esercito che espugna la capitale di un altro esercito. Fu sfida furibonda tra le due maggiori fedi, fu un epilogo e un nuovo avvio tra sante crociate e guerre sante. E perciò, nelle testimonianze del tempo – insieme al racconto degli abitanti uccisi o fatti schiavi, “uomini, donne, bambini, vecchi, giovani, sacerdoti, monaci, gente di ogni età e condizione”, elenca Critobulo di Imbro, allo scorrere del sangue, alle teste che volano, a una città che brucia – molto si insiste sulla profanazione delle chiese e dei luoghi santi.

E tra mille e mille calici e altari, icone e quadri, paramenti e croci, il cuore di Costantinopoli era la grande icona che raffigurava la Vergine, da secoli al vertice della venerazione bizantina, quella che cadde poche ore prima della caduta della città. Ducas racconta dei giannizzeri che penetrano nel monastero del Grande Precursore e nel monastero di Chora, “in cui si trovava allora l’icona dell’intemerata mia Madre di Dio. ‘O lingua e labbra, come potrete dire dire ad alta voce ciò che fu perpetrato contro l’icona, a causa dei tuoi peccati?’. Mentre gli infedeli cercavano di volgere i loro assalti anche altrove, uno di loro, empio, impugnata la scure con le sue mani turpi, spaccò in quattro parti l’immagine e l’ornamento che essa aveva; e tirate a sorte le singole parti, ciascuno prese quella che gli toccò. E non se ne andarono prima di aver depredato le sacre suppellettili del monastero”.

Il volto della Vergine strappato in più parti fece grande impressione nei testimoni del tempo. E in “Bisanzio”, secoli dopo, rievoca John Julius Norwich: “A mezzogiorno le strade di Costantinopoli erano rosse di sangue. Le case erano vuote, le donne e i bambini violentati o impalati, le chiese rase al suolo, le icone strappate dalle cornici, i libri stracciati. Il palazzo imperiale delle Blacherne era un guscio vuoto, l’icona più venerata dell’impero, la Vergine Odigitria, tagliata in quattro pezzi e distrutta. Le scene più odiose avvennero in Santa Sofia. I sacerdoti stavano celebrando il mattutino, quando si udirono i passi dei conquistatori, ebbri di sangue. Le porte di bronzo furono sbarrate, ma i turchi le abbatterono. Fra i fedeli, i più miseri e meno attraenti furono massacrati all’istante; gli altri furono trascinati all’accampamento turco in attesa di conoscere il loro destino. I sacerdoti continuarono a celebrare finché non furono abbattuti davanti all’altare. Ancora oggi però c’è chi crede che due di essi, afferrati i calici e le patene, si siano volatilizzati dentro il muro  sud del santuario, da cui usciranno di nuovo soltanto quando Costantinopoli tornerà a essere una città cristiana. Allora la funzione riprenderà dal punto in cui era stata interrotta”.

I monaci scomparsi con i calici, l’imperatore che dorme un sonno di marmo, la Vergine che cade: la fine di un impero millenario genera sempre grandi leggende. Ma Costantinopoli era già una leggenda in terra. Lo era anche per il suo conquistatore, Mehmet II. Era salito sul trono a diciannove anni, riuscì a passeggiare sotto la cupola di Santa Sofia ad appena ventun anni, quando, come dice poeticamente Tursun Beg, conquistò “la giovane sposa a cui aspirarono molti re e molti sultani dell’Islam”.

Il sultano è ovviamente un personaggio centrale nella letteratura del tempo. Lo racconta benissimo Agostino Pertusi, che fu professore di letteratura greca e filologia bizantina presso la Cattolica di Milano, e curò per la Fondazione Lorenzo Valla due bellissimi volumi su “La caduta di Costantinopoli”, con le testimonianze dei contemporanei e l’eco suscitato nel mondo dall’evento, ampiamente usati in questa ricostruzione.

Scrive dunque Pertusi, analizzando i testi islamici del tempo: “Mehmed è costantemente rappresentato come ‘saldo e forte’, con ‘spirito rivolto alla giustizia e alla misericordia’, osservante ‘delle norme della legge divina’, combattente ‘per Dio la vera guerra santa’, confidente nei detti del Corano”.

Pertugi cita l’opera di Tursun Beg che si rivolge a Mehmet. “ ‘L’evento della conquista’, egli scrive, ‘ebbe luogo in un momento storico, il momento felice della tua fede – ed è Dio che percuote con la sua spada – un momento senza precedenti’. Mehmed è il destino di Dio’, l sue bombarde sono le ‘esecutrici del destino’, la sua vittoria è ‘quella che viene da Dio’; al momento della sua entrata a cavallo ‘davanti a lui si teneva il Favore celeste, dietro di lui la Felicità, a destra la Vittoria, a sinistra la Potenza’, Come Maometto divenne a suo tempo ‘il suggello della Profezia’, così Mehmed è divenuto ‘l’illustrazione di ciò che significhi la devozione della Fede… l’ombra della bontà di Dio’ ”. Ovviamente, tutt’altra lettura della personalità del sultano turco davano i cristiani. Il mercante fiorentino che combattè sulle mura di Costantinopoli, Jacopo Tedaldi, scrisse: “Si sa da coloro che sono scampati al Turco e che sono a conoscenza delle sue condizioni e della sua potenza che egli ha ventitrè o ventiquattro anni, che è più crudele di Nerone, si compiace di spargere sangue umano, pieno di coraggio e desideroso di signoreggiare e di convertire tutto il mondo, assai più che Alessandro o Cesare o altro potente che viene ricordato, poiché egli stima di avere una potenza ed una signoria assai più grande di quella che sia mai stata posseduta da altri”.

Per il cardinale Isidoro di Kiev “egli nutre un odio, un’avversione e un furore così forte contro i cristiani, che quando egli vede con i suoi occhi un cristiano, ritenendo di aver subito una grave deturpazione e sozzura, lava e deterge i propri occhi. Un nemico tale della fede cristiana non ci fu mai, e non ce n’è uno simile a lui, né alcun uomo vide mai né vedrà tra il popolo cristiano”.

Ecco che se dal punto di vista degli sconfitti la caduta di Costantinopoli rappresentò un colpo tremendo, dal punto di vista dei vincitori la presa di Costantinopoli segnò un trionfo senza pari. Sul Bosforo il mondo di allora finì in un equilibrio non molto diverso da quello di oggi. Perché Costantinopoli, la greca Costantinopoli, la cristiana Costantinopoli, l’ortodossa Costantinopoli, esercitava un grande fascino sullo stesso sultano turco. Il racconto è nel “Libro che racconta la conquista di Istanbul protetta da Dio” del poeta Tâdij Beg-zâde Ga’fer Celebi: “Visitò da un capo all’altro i larghi quartieri, le piazze quadrate, i posti meravigliosi, i luoghi strani, le località amene e le posizioni fortificate, i palazzi e i castelli dalle solide strutture che ne facevano la gloria, le case dai mattoni colorati, i luoghi di preghiera, i templi dalla pura forma. Infine si recò a visitare il grande edificio, l’alto tempio conosciuto con il nome di Aya Sofya… di cui la grandiosità e la sublimità non può esser descritta con le parole…”.

Questo, e molto altro, successe il giorno che Costantinopoli cadde. E il 29 maggio 1453 divenne una data simbolo, un crinale tra un tempo storico e un altro, perché non una città cristiana, ma la città cristiana – di Costantino e sant’Elena, di mille reliquie, di infiniti concili, di dispute eterne, l’ultima precariamente sanata, a fittizia unione tra i cristiani pochi mesi prima che tutto crollasse – cadde nelle mani dell’islam.

Perché in realtà già Bisanzio aveva subito un saccheggio destinato forse a piegarla per sempre: quello del 1204, durante la quarta crociata. A opera dei crociati cattolici. Né fu – seppur tra fratelli,  diciamo così, di fede – meno crudele di quello che avverrà quattro secoli dopo. “Fu l’ora più buia per Costantinopoli, ancora più buia, forse – secondo Norwich – di quella che avrebbe visto la sua caduta definitiva per mano del sultano ottomano”. Racconta lo storico: “Alla breccia nelle mura della città seguì una carneficina spaventosa.

I vincitori proclamarono la tregua soltanto a sera e si accamparono in una delle grandi piazze di Costantinopoli. Al mattino ogni resistenza era stata domata. Ma per i bizantini era soltanto il primo atto della tragedia. I francesi non avevano aspettato tutto quel tempo davanti alle porte della capitale più ricca del mondo per andarsene a mani vuote.

Nei tre abituali giorni di saccheggio concessi alle truppe vittoriose, si gettarono sulla preda come cavallette. Era dai tempi delle invasioni barbariche che in Europa non si vedevano più brutalità e vandalismi del genere. E mai tanta bellezza e tanta straordinaria maestria furono cancellate per capriccio, in così breve tempo, dalla faccia della terra”. Né i crociati, con in petto la croce, furono più rispettosi dei luoghi sacri di quanto lo furono i conquistatori ottomani secolo dopo.

Ecco il racconto del grande storico bizantino Niceta Coniata, testimone della furia di quei giorni: “Sfasciarono le sacre immagini e gettarono le sacre reliquie dei martiri in luoghi che ho vergogna a nominare, spargendo ovunque il corpo e il sangue del Salvatore… Quanto alla profanazione della Chiesa Grande, essi distrussero l’altare maggiore e se ne spartirono i pezzi… E introdussero nella chiesa muli e cavalli, per portare via con più facilità i sacri calici e il pulpito e le porte e gli arredi su cui mettevano le mani, e quando qualche animale scivolava e cadeva lo trapassavano con la spada, insozzando di sangue e lordura la chiesa. Sul trono del patriarca fu fatta sedere una prostituta per insultare Gesù Cristo; e la donna cantò canzoni sconce e danzò con immodestia nel luogo santo… né ci fu pietà per le matrone virtuose, per le fanciulle innocenti e neppure per le vergini consacrate a Dio”.

Un saccheggio è un saccheggio. Ma fu quello che avvenne secoli dopo, a opera di Mehmet II, il saccheggio che colpì il cuore della cristianità. Letto come castigo del cielo, ira divina, fulmine sull’ignavia dei cattolici. E chi si lamentava e chi invocava la riscossa. Chi prometteva guerra santa a guerra santa e chi già stringeva accordi con i nuovi padroni di Istanbul, non più Costantinopoli, mai più Bisanzio.

“Ma fu forse la pietà divina a permettere ciò – scriveva Fra Girolamo da Firenze – Ed ora la potenza e il valore dei cristiani, che sono pieni di spavento, sorgano in armi in modo più coraggioso e virile, come è necessario, con l’aiuto del signor nostro Gesù Cristo: si tratta della sua difesa”. E il cardinale Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II, scrive al Papa Nicolò V.

Una lettera piuttosto maliziosa: “Vostra Beatitudine ha fatto ciò che ha potuto. Non c’è nulla che possa esser posto a carico di vostra Clemenza; ciò malgrado i posteri, ignari della situazione, ve ne faranno carico, quando leggeranno che Costantinopoli fu presa durante il vostro regno… E’ vostro dovere ormai muovervi, scrivere ai re, inviare legati, ammonire, esortare i principi ed i comuni perché si riuniscano o inviino i loro rappresentanti in un luogo comune. Ora che la ferita è ancora fresca, si affrettino a venire in aiuto della comunità cristiana, in nome della fede facciano pace o tregua tra alleati e, unite le forze, muovano contro i nemici della croce salvifica… ”. Scrive al Papa pure Isidoro di Kiev: “Suscita dunque la tua potenza, o più santo dei padri, e poiché tu conosci a fondo le cose e le capisci e hai potere di influenza notevole su tutte le altre podestà inferiori, cerca di assumerti con la forza necessaria e di affrontare questa che è la causa di Cristo, nostro Dio; volgi ad essa la tua ira possente…”.

Un monaco del santuario della Vergine Pammakaristos, Gennadio Scolario: “La sciagure abbattutesi sulla nostra capitale provenivano manifestamente da Dio e dalla giustizia celeste. La potenza, l’arte e la tecnica di guerra dei nemici, che si abbatterono su di noi e che ci distrussero, non ebbero la loro forza da altri che da Dio… ”.

Giorgio di Trebisonda nientemeno scrive allo stesso Mehmed II per proporgli di unificare la religione cattolica e quella musulmana, e “nessuno meglio di te, mirabile emiro, può portare a termine un’impresa di tal genere”. Non succede quasi niente.

Persino il Senato veneziano si rivolge al Papa, “noi ricorriamo a vostra Santità come al pastore sommo del gregge di Dio, supplicandovi con la nostra solita devozione filiale che vi degniate di provvedere a un tal male con tutti i mezzi e con tutte le preghiere che parranno opportune alla vostra saggezza”.

Tutti quelli che non avevano fatto, ora sembrano smaniare per fare. Vengono composte opera, canti, suppliche, pianti e monodie. Si lamenta Abraham di Ankara, poeta armeno, forse un monaco, “pieno di peccati ho composto questo lamento con grande dolore”. E dice, appunto, questo lamento dedicato alla città appena conquistata: “Ti hanno reso obbrobrio dei vicini e sei divenuta oggetto di derisione per chi ti sta intorno. I tuoi giovani li divorò il fuoco e nessuno prese il lutto per le tue vergini, i tuoi sacerdoti caddero di spada, nessuno pianse le tue vedove”.

Di qua il lamento, di là il canto di gioia. “Gli amici del sultano ottomano ne esultarono e ne furono felici, i nemici della fede e dello stato ne rimasero stupefatti e schiacciati”, scrive Tâdji Beg-zâde Ga’fer Celebi. Non succederà quasi nulla. Mehmet non arriverà a Roma, come qualcuno paventava, ma gli ottomani da Istanbul non andranno più via, Costantinopoli sarà sepolta per sempre.

Comincerà anche la leggenda nera di Bisanzio, come quella raccontata nell’Ottocento nella “History of European Morals” di W.E.H. Lecky, “i suoi vizi erano i vizi di uomini che avevano cessato di essere eroici senza avere imparato a essere virtuosi… la storia dell’impero è un racconto monotono di intrighi di preti, eunuchi e donne, di avvelenamenti, di cospirazioni, di continua ingratitudine e di perenni fraticidi”. Alla faccia del racconto monotono.

Fondato lunedì 11 maggio 330 da Costantino il Grande, l’impero romano d’Oriente finì martedì 29 maggio 1453, sotto Costantino XI: da allora nel mondo greco martedì è giorno infausto. E’ durato 1123 anni e diciotto giorni: un tempo immenso. Ecco, questa è la storia dell’ultimo giorno di Costantinopoli, di martedì 29 maggio 1453, di ciò che videro quelli che c’erano, quelli che poi piansero e quelli che gioirono.

Sulla cupola di Santa Sofia, ora moschea, sale Mehmet II, si guarda ammirato intorno e recita antichi versi persiani: “Il ragno assolve alla funzione di portinaio nel palazzo di Cosroe… ”. Sotto, Costantinopoli e il suo ultimo imperatore sono ora pietra che arde.