Tocca al Papa di Roma difendere i fondamenti della civilità

proteste islamAvvenire, martedì 19 settembre 2006

Al dunque di tante chiacchiere e troppi silenzi

Marina Corradi

Bruciano le immagini del Papa nelle strade di Bassora, in Iran l’ayatollah Khamenei definisce il discorso di Regensburg «l’ultimo anello di una catena» nel quadro di una «crociata americano-sionista» contro i musulmani. E in questo teatro incandescente si alza come una vampata la minaccia del Consiglio dei Mujaheddin, vale a dire della guerriglia irachena armata da al-Qaeda: «Conquisteremo Roma come promesso dal Profeta. Proseguiremo il Jihad finché la nostra bandiera dominerà tutto il mondo».

Invano, si direbbe, la Segreteria di Stato vaticana ha chiarito il senso del discorso di Regensburg («un radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza, da qualunque parte essa provenga”), invano Benedetto XVI ha invitato a comprendere nell’Angelus il “vero significato” delle sue parole.

Come in un ostinato dialogo con dei sordi, le voci più estreme dell’islamismo alzano il bersaglio fino a evocare la guerra santa contro gli infedeli, in uno di quei deliri collettivi che potrebbero parere incredibili, se la storia degli uomini non avesse già, nel tempo, testimoniato di essere capace di aderire alla più cieca follia. Parrebbe anzi che il tentativo di dissipare l’incomprensione di Regensburg e la volontà di chiarezza siano state interpretate dall’Islam radicale come segno di debolezza, un chinare il capo dell'”avversario” sul quale dunque infierire, fino a una “resa” completa.

Il che induce a dubitare dell’intenzione di certo islam di dialogare davvero, e fa invece pensare che, a Bassora come a Teheran, alcuni abbiano colto nelle parole di Benedetto XVI solo un pretesto per far divampare un odio a lungo covato. In Occidente intanto, nella reazione dei quotidiani internazionali, si scopre un fraintendimento quasi simmetrico all'”equivoco” in cui sono caduti gli ayatollah.

Il New York Times, dopo avere scritto che il Papa ha «insultato l’islam», ieri titolava sulle sue «inusuali scuse», così come il Los Angeles Times e l’inglese Independent. Scuse? Questa espressione non compare nel testo del cardinale Bertone, né nelle parole dell’Angelus. Una cosa è chiarire la ratio di un intervento, rammaricandosi di non essere stati compresi – altra è chiedere scusa, e propria invece di chi sa di aver sbagliato.

Singolare simmetria di fraintendimenti: per l’Islam radicale il Papa ha offeso, per la stampa liberal ha dunque, coerentemente, chiesto scusa. Ma chi va a leggersi la lezione di Regensburg, incentrata sul rapporto necessario fra ragione e fede – quel rapporto che è il fondamento, la colonna portante della cultura occidentale – prova, davanti alle reazioni che il discorso ha generato, una profonda inquietudine.

Non solo per la reazione islamica – che pure il cardinale di Parigi Lustiger ha definito «effrayant», spaventosa – ma per quelle di certo Occidente, più sottilmente e pure intimamente preoccupanti. Come se i più autorevoli intellettuali, i sacerdoti del pensiero “corretto” e del relativismo militante, non capissero che cos’è, davvero, questo divampare di piazze frementi e di foto bruciate. Né di cosa in realtà sarebbe “colpevole” il Papa quando argomenta teologicamente la inscindibilità fra ragione e fede nel cristianesimo.

Con quelle parole dette in un’aula di teologia della vecchia Europa, un Papa si è trovato a difendere tutto l’Occidente, la sua libertà di pensiero, i diritti dell’uomo che questo stesso Occidente è faticosamente arrivato a affermare dopo secoli di storia. I relativisti del New York Times, i teorici di un multiculturalismo spensierato per cui ogni cultura vale l’altra firmano le loro corrette omelie, svagatamente dimentichi di ciò che scrisse con la profezia dei poeti il loro Nobel Eliot: «Avete bisogno che vi si dica che persino modeste cognizioni/ che vi permettono di essere orgogliosi di una società educata/ difficilmente sopravviveranno alla fede cui loro devono il loro significato?».