Il mito dell’eterna vecchiezza

Eros e TitoneIl Domenicale sabato 17 giugno 2006

C’era una volta il bel Titone. l’aurora s’innamorò di lui e chiese a Zeus che vivesse per sempre. dimenticando che sarebbe invecchiato…

Il neoministro Fabio Mussi s’è subito sbilanciato a favore delle cellule staminali embrionali, compromettendo l’Italia ad accettare e favorire la ricerca in questo campo. Cosa c’è dietro? Un’antica leggenda d’immortalità, una moderna presunzione tecnocratica, l’incapacità di situarsi tra presente e futuro

di Emilio Mordini

Com’era prevedibile, il cambio di equilibri politici ha subito riportato alla ribalta l’appena sopita polemica sulle cellule staminali embrionali. È un tema su cui si è detto di tutto e non c’è ragionamento che non sia stato, propriamente o impropriamente, già usato. Il più irrazionale tra gli argomenti è quello inerente il possibile uso delle cellule staminali embrionali nella terapia di non si sa quali e quante malattie, quasi a promettere una forma di immortalità.

La ragione per cui un’affermazione così palesemente priva di ogni riscontro sperimentale sia riuscita ad avere qualche presa sul pubblico sta nello spirito del nostro tempo, ossessionato dalla paura della morte e del decadimento fisico. Le radici di questa paura sono lontane.

Gli antichi greci raccontavano il mito di Titone, un giovane di stirpe reale, fratello di Priamo. Di Titone si dice che fosse bellissimo, così bello che di lui si innamorò Eos, l’aurora, che un giorno lo prese come marito. Eos, preoccupata per il destino mortale del giovane sposo, chiese a Zeus come dono di nozze che fosse concessa l’immortalità a Titone. Zeus accordò il dono, ma Eos si era scordata di chiedere insieme all’immortalità anche l’eterna giovinezza. Così gli anni passarono e Titone diventò un uomo maturo, poi anziano, poi ogni giorno più vecchio, di una vecchiezza sempre più orribile e decrepita.

Eos assisteva inorridita alle trasformazioni del suo amante, sino a che, non più in grado di tollerare la vecchiaia di colui che era stato il suo sposo, lo rinchiuse in una grotta per nasconderlo per sempre alla propria vista. I lamenti di Titone, inebetito dal dolore e dalla vecchiaia, si spandevano per l’aria e giunsero sino a Zeus che, mosso a compassione, trasformò il povero vecchio in una cicala. Ancora oggi, racconta il mito, le cicale che friniscono la notte d’estate ci ricordano il pianto disperato di Titone che invecchia, invecchia e mai non muore.

Gli dei non muoiono

La favola di Titone ci interroga sul nostro rapporto con l’invecchiare e il morire. I Greci avevano così presente la mortalità della specie umana da aver diviso il mondo tra mortali e immortali. Nei manuali si ripete sovente la banalità secondo cui la religione omerica non era sufficientemente sviluppata perché venerava Dei in tutto e per tutto uguali agli uomini eccetto che per il destino mortale.

Si tratta di una profonda incomprensione della dimensione teologica arcaica: proprio l’aver reso gli Dei così simili all’uomo, tranne che nella morte, individua ed esalta la radice profonda della divinità. La divinità – ci dice la religione trascendente e inconcepibile caratteristica, nemmeno in un’astratta categoria metafisica, ma nell’essere sciolti dall’obbligo di morire.

In questa affermazione risiede anche il senso del cristianesimo. Proprio come per la religione omerica, anche per il cristianesimo è la morte lo spartiacque tra l’umano e il divino, tanto è vero che l’incarnazione del Cristo si compie perfettamente (tutto è compiuto) soltanto sulla croce. Detto in altre parole, Dio non è pienamente uomo finché non attraversa l’esperienza della morte: solo nella morte Egli diventa perfettamente nostro fratello.

All’inizio del secolo scorso le filosofie esistenzialiste hanno espresso un concetto simile sostenendo che la possibilità più propria dell’essere è quella di non-essere, in altre parole affermando, che la migliore definizione di vivente sarebbe “ciò che ha la possibilità di morire”. Ovviamente questo argomento conduce all’impossibilità logica che possa esistere un essere mancante di questa qualità essenziale, cioè Dio.

L’idea di Dio o è una pura assurdità, oppure implica un totalmente altro, come il Dio di Meister Eckhart, che non è né essere né non essere, ma “negazione sovraessenziale”. Gli antichi però sapevano quello che scienziati e filosofi paiono oggi ignorare, cioè che la vera immortalità per gli uomini non è la durata infinita (che può persino trasformarsi in un incubo, come mostra il mito) ma l’ eterna giovinezza.

La società occidentale è una civiltà che sta invecchiando. La durata della vita aumenta, nascono sempre meno figli e sempre più la maggioranza della popolazione è costituita da anziani. Nell’Europa a 25 nessuna nazione, tranne la Francia, ha un bilancio nascite-morti positivo e le stime statistiche dicono che nel 2050 un terzo della popolazione europea sarà costituito da ultrasessantacinquenni. Scenario demografico che pone il problema di ripensare i sistemi assistenziali e il mercato del lavoro.

Paranoia-negazione-omicidio

Dinanzi a questi processi la nostra società ha avuto tre principali reazioni.

La prima è stata una reazione paranoica. I vecchi sono stati visti come una minaccia sociale. Politici ed economisti hanno agitato lo spettro della piramide rovesciata, di un’estesa società di vecchi basata sul lavoro di pochi giovani. Sono state propagandate immagini apocalittiche di sistemi sanitario-assistenziali ridotti al disastro economico dalla necessità di curare turbe di anziani non autosufficienti.

Gli anziani hanno percepito lo stigma su se stessi e da un lato si sono costituiti in gruppo di pressione (basti pensare in Italia al ruolo predominante dei pensionati nelle organizzazioni sindacali tradizionali), dall’altro hanno cercato di “mimetizzarsi”.

Questo ci conduce alla seconda reazione che è stata di tipo maniacale, cioè di negazione della inevitabilità della vecchiaia. La scienza è venuta in soccorso di questa negazione. Sono state fatte due ipotesi: la prima è stata chiamata “compressione della morbilità”, la seconda è stata chiamata “prolungamento indefinito della vita”.

L’ipotesi della compressione della morbilità assume che esistano limiti genetici alla durata della vita umana, probabilmente attorno ai 120-150 anni. Oltre questi limiti l’organismo smetterebbe di funzionare per propri meccanismi intrinseci. Si sostiene che sarebbe scientificamente possibile non solo spingersi sino a questi limiti, ma che lo si potrebbe fare in buona salute.

Secondo questi studiosi lo scenario futuro potrà essere quello di una società in cui tutti vivono in buona salute sino ai propri confini genetici per poi morire rapidamente in pochi giorni o settimane senza gravare economicamente sulla società. La seconda ipotesi è ancora più ottimista. In questo caso si assume che i limiti genetici possano esser superati grazie alle nuove biotecnologie e all’uso delle cellule staminali e che i confini della vita umana possano essere spinti sempre più in là, quasi verso l’immortalità.

La terza reazione è stata una reazione omicida, spesso mascherata come “diritto a morire”. Gli anziani dovrebbero essere aiutati a essere autonomi il più possibile e quindi, quando il bene sommo dell’autonomia fosse andato perduto, accompagnati verso una buona morte, un po’ come nell’antico Giappone, dove gli anziani, quando diventavano non più utili alla società, erano accompagnati su un monte per attendere di essere presi dalla divinità. Si è spesa molta poesia su queste morti, ma in effetti dietro a tanta letteratura si celava l’atroce realtà di persone che venivano lasciate morire di fame nell’abbandono più totale.

La morte (altrui)? O cara!

Questo quadro, seppure solo tratteggiato, ci permette di fare due considerazioni. La prima considerazione è che la tecnologia, quando diventa un modo per non pensare i problemi connessi alla condizione umana, non solo è inutile ma è dannosa: crea più problemi di quanti ne risolva.

È difficile, forse impossibile, dire quale sia il senso dell’invecchiare, e se poi vi sia un senso. Ma non è vero che ci si debbano porre solo le domande che ammettono una risposta. Ci sono alcune domande il cui valore sta nel continuare a essere poste. Le domande senza soluzione sono pedagogiche, obbligano a sviluppare una salutare dose di umiltà e a non disprezzare le opinioni degli altri.

La seconda considerazione riguarda proprio l’invecchiamento e la morte. Non è vero che gli esseri umani temano la morte: ne sono, purtroppo, estremamente affascinati, se così non fosse non si capirebbe per quale ragione hanno fatto della guerra il loro principale divertissement e, in assenza di guerre, s’inventino mille altri modi per morire prima del tempo. Il fatto è che tutti noi viviamo in attesa della morte e questa consapevolezza, per quanto attutita dalla quotidianità, rimane nel fondo della nostra mente.

Più cerchiamo di non averne coscienza, più essa ci sfida dal nostro inconscio rendendoci intollerabile il vivere aspettando di morire; più la presenza della morte è espulsa dalla sfera cosciente di una società, più essa riappare sotto forma di sintomo individuale e collettivo. La vecchiaia, quando implica un lento degradarsi delle funzioni organiche, è percepita da tutti come una prefigurazione della morte.

L’atrocità della vecchiaia estrema – il mito di Titone – sta nell’essere un’agonia senza fine. Anche un’agonia può avere senso – anzi un tempo si pregava Dio di essere scampati dalla morte improvvisa, a subitanea morte libera nos Domine –, ma allora bisognerebbe avere il coraggio di tornare a quelle lezioni sul “come ci si deve preparare alla morte” che costituivano il nucleo dei quaresimali nei secoli passati e che furono un fortunato genere letterario tra il Cinquecento e il Seicento.

Riposati, mangia, bevi

Infine, tutto questo interrogarsi su come ritardare o evitare la vecchiaia, questo affannarsi alla ricerca di una pseudo immortalità tecnologica, hanno un che di insalubre e malato. Nascono anche dalla nostra incapacità a vivere nel presente e proiettarci nel futuro senza far troppi conti. La salute mentale dei singoli e l’igiene mentale delle società si manifestano con la capacità di essere assolutamente immersi nel proprio presente e di progettare futuri lontanissimi.

Questa doppia dimensione – solo in apparenza contraddittoria – è quella che ha sempre permesso ai grandi uomini e alle grandi civiltà di essere concreti e sognatori, sempre di sperare (anche contro ogni logica) ma di non farsi mai illusioni. Al contrario i piccoli uomini e le società meschine sono sempre stati uomini e società che vivevano rimuginando sul passato e facendo calcoli da bottegaio sul futuro imminente.

E qui si cela l’insidia più grande, perché passato prossimo e domani immediato sono proprio la tana dove si nasconde, già pronta a ghermirci, la morte. «Le terre di un uomo ricco avevano dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé così: “Ora non ho più dove mettere i miei raccolti: che cosa farò?”

E disse: “Farò così, demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi, così che vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Bene! Ora hai fatto molte provviste per molti anni. Ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa stessa notte dovrai morire, e a chi andranno le ricchezze che hai accumulato?”» (Luca 12, 18-22).