…E io non mangio!

bizza infantileUn inedito per Rassegna Stampa

di Rino Cammilleri

Sono stato per dieci anni figlio unico e, a tavola, il mio ricatto preferito era: «…e allora non mangio!». Dico ricatto perché di questo si trattava. Infatti, i bambini imparano subito, si può dire appena nati, a usare l’unico mezzo di pressione che hanno: la bizza. Se n’era accorto sant’Agostino nelle sue Confessioni, ma è sotto gli occhi di tutti che la prova provata della verità del Peccato originale sono i pargoli.

Ci vogliono anni di educazione per farli diventare civili, cioè adulti, cioè responsabili, cioè autodisciplinati, cioè consapevoli di non essere affatto il centro dell’universo e che gli altri non esistono solo per servirli, soddisfarli e accontentare ogni loro capriccio. Ecco, la differenza tra l’infantile e l’adulto è tutta qui. Ma occorre che qualcuno si sia dato la pena di trarti dall’infanzia, sennò rimani capriccioso e infantile tutta la vita.

Nel Medioevo l’infanzia era considerata un periodo di assoluta dipendenza dal quale era carità cercare di tirarti fuori prima possibile, proprio perché tu potessi diventare veramente libero. Come un adulto autodisciplinato e responsabile. Infatti, i giocattoli non esistevano: ai piccoli si davano gli stessi arnesi di lavoro dei grandi, spade, martelli, bambole da accudire per le femminucce, ovviamente in proporzione.

E’ il motivo per cui si dava del «voi» ai bambini, usanza rimasta a lungo nelle famiglie reali e aristocratiche. Insomma, li si trattava da adulti fin da subito. Il primo a fare dell’infanzia un mondo a parte con regole sue fu Rousseau, il patriarca di tutti i «libertari» (ma anche dei giacobini tagliatori di teste, l’altra faccia della stessa medaglia), il quale non a caso mise i suoi figli in orfanotrofio pur essendo vivo.

Ah, vi chiedete che cosa diceva mio padre a sentirmi esclamare «…e io non mangio!»? Niente, diceva. Le opzioni erano due, a seconda del suo umore: o uno scapaccione o, nei casi estremi, la riproposizione anche nei giorni successivi del piatto che avevo rifiutato, sempre il medesimo, anche se diventato duro come il legno.

Mio padre aveva attraversato la guerra e la fame vera. Per lui, la tavola imbandita era una benedizione celeste perché sapeva quel che la maggior parte di noi, figli del benessere, non sa più: quanto sia realmente precario quel «pane quotidiano» che, non a caso, è la prima delle richieste inserite da Cristo nell’unica preghiera che ha insegnato.

Per tutto questo, cari lettori, quando vedo i radicali fare lo sciopero della fame e/o della sete perché l’Italia intera faccia quel che dicono loro non riesco a trattenermi dal sogghignare. A volte si tratta di richieste davvero singolari, come quando -ricordate?- nel pieno degli Anni di Piombo volevano disarmare la polizia.

Eppure, una strana malìa fa sì che i giornali riportino puntualmente i bollettini medici, quanti chili hanno perso, gli appelli, anche di alte cariche, affinchè non rischino la vita: già, il Paese ha bisogno delle loro «battaglie di civiltà» antiproibizioniste e per l’abolizione di ogni divieto (tranne, ovviamente, ai cattolici «succubi del Vaticano», ai quali, anzi, va vietato anche di parlare).

Quando, da piccolo, ricattavo i miei genitori a colpi di «…e io non mangio!», essendo appunto piccolo non avevo chiaro il meccanismo perverso di cui mi stavo servendo. E che era questo: so che voi, miei genitori, mi volete bene e che soffrite per ogni mia sofferenza; per questo io vi faccio soffrire infliggendomi un pericolo alla salute.

Ora, ecco il punto: quanti sono quelli che vogliono bene ai radicali e soffrono per le loro sofferenze? Stando all’ultimo referendum, molto pochi; anzi, quattro gatti. E allora?