Il linciaggio del commisario Calabresi

calabresiTratto da Mio Marito il commissario Calabresi, ed. Paoline Milano 1990

Il commissario di PS Luigi Calabresi fu acusato della morte dell’anarchico Pinelli, indiziato della strage di piazza Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. Il commissario, come stabilì la magistatura, era innocente ma Lotta Continua e Adriano Sofri, con tutta la sinistra al seguito imbastirono un vergognoso linciaggio, una vera e propria istigazione all’assassinio…

di Gemma Capra

«Lotta Continua» allo scoperto

Quando sento ancora oggi affermare, da personaggi come Lanfranco Bolis o Marco Boato, che «Calabresi lo volevamo vivo per sapere come e perché era morto Pinelli», e che «cercavamo le sue denunce, volevamo un processo pubblico», devo concludere che queste persone hanno la memoria corta.

Dichiarazioni come queste contengono tra l’altro l’implicita accusa a Gigi di essere stato il responsabile della morte di Pinelli, quando è stato accertato, al di là di ogni possibile dubbio, che, al momento del fatto, egli neppure si trovava nella stanza.

Può darsi che Bolis e Boato abbiano voluto davvero un processo a Calabresi, ma in questo caso essi non possono oggi parlare a nome di Lotta Continua, bensì soltanto a titolo personale. Il processo lo volle la controparte, lo vollero i giudici che raccolsero la denuncia sottoscritta da Licia Pinelli, ma Lotta Continua ne auspicò, fin dal primo istante, una cosa soltanto: la morte. Ciò è provato mille volte.

Dopo la serie di vignette dedicate a Gigi, Lotta Continua uscì allo scoperto con un suo ritratto dal titolo Un uomo di successo. L’articolo riassumeva e faceva proprie le insinuazioni già diffuse con le istanze alla Procura e con gli articoli dei quotidiani del PSI e del PCI: il segno di agopuntura, l’ambulanza che sarebbe stata chiamata prima della caduta di Pinelli, il particolare della versione della scarpa rimasta in mano al brigadiere, inventato dall‘Avanti!’.

Accompagnato dalla battuta: «A meno che questi anarchici non abbiano addirittura tre piedi: gente strana, d’altronde, da cui ci si può aspettare qualsiasi cosa». Tutte queste falsità venivano naturalmente presentate come verità assolute. Di loro iniziativa, i redattori di Lotta Continua aggiungevano una novità che, fino a quel momento, era stata anticipata, ma soltanto marginalmente, da l’Unità: l’appartenenza di Gigi alla CIA, la sua «formazione» negli Stati Uniti, dove mio marito non si era mai recato, i servigi che egli avrebbe reso «al generale Edwin A. Walker, uomo di Barry Goldwater». Il tutto condito con due fotografie: una di Gigi e una dell’attore Gianmaria Volente, protagonista del film Un cittadino al di sopra di ogni sospetto. E la dicitura: «Due commissari: uno ha già confessato».

Fu l’articolo per il quale Gigi presentò la sua prima querela per diffamazione. La risposta di Lotta Continua non si fece attendere. Nel numero del 14 maggio 1970, sotto il titolo: Gli assassini di Pinelli escono allo scoperto — La querela del commissario finestra contro LC —- CALABRESI, SEI TU L’ACCUSATO, si poteva leggere: «Le nostre armi sono altre, più difficili, più faticose, più pericolose, ma infinitamente più efficaci. E l’organizzazione della forza e dell’autonomia del proletariato che farà giustizia di tutti i suoi nemici. Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte».

Ben presto questo lugubre auspicio divenne volontà esplicita, minaccia inequivocabile urlata a squarciagola nelle assemblee e nelle piazze, promessa scritta e ossessivamente ripetuta sul giornale del movimento.

«Questo marine dalla finestra facile», scrive Lotta Continua il 6 giugno 1970 «dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito (…) Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte…».

Il primo ottobre, nell’imminenza del processo, esce l’articolo dal titolo Pinelli un rivoluzionario, Calabresi un assassino. L’articolo ripropone dapprima il repertorio delle «torture» ai giovani anarchici, quindi la ormai consueta versione della morte di Pinelli: «Intorno alla mezzanotte viene spinto giù dalla finestra dopo che un colpo di karaté gli ha procurato una lesione bulbare».

Infine, la più esplicita delle minacce: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di PS Luigi Calabresi.  Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare Ì compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo. E’ chiaro a tutti, infatti, che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara. (…) È per questo motivo che nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo servo zelante; non dai giudici “progressisti e onesti”; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole, creati dalla borghesia per controllare gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti. (…) Ma dentro l’aula della prima sezione, dentro il tribunale, attorno ad esso, nelle strade e nelle piazze, II proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà, e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più. Quando gli sfruttati rompono le catene dell’ideologia borghese e praticano le proprie idee, la forza dell’esempio diventa dirompente; i proletari di Trento che hanno rifiutato la legalità borghese per assumere quella rivoluzionaria, hanno compiuto il primo processo e la prima esecuzione. L’imputato e vittima del secondo è già da tempo designato: un commissario aggiunto di PS, torturatore e assassino: Luigi Calabresi».

E affinchè non possano più sussistere dubbi, il giornale aggiunge: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino».

«La sentenza esiste già»

Piovono le lettere di approvazione.

Il fascicolo del 30 ottobre pubblica questa lettera di un «compagno carcerato»: «L’articolo su Calabresi mi ha ricordato che la sentenza esiste già nel cuore di tutti i proletari: manca solo che la si esegua».

Del resto, quale verità poteva attendere, Lotta Continua, da un tribunale di giudici che disprezzava e rifiutava? Sotto il tìtolo Chi sono i magistrati, ecco che cosa scriveva il 15 ottobre 1970: «Sono quegli squallidi avanzi dell’umanità che si fanno pagare fior dì quattrini per continuare a condannare i proletari. Selezionati in base al censo e al ruffianismo, sono scagnozzi chiamati dai padroni ad amministrare la giustizia contro il popolo. Al processo borghese, ai suoi riti giuridici, alla sua conclusione, siamo e ci sentiamo profondamente estranei. La chiarezza, la verità sulla morte di Pino Pinelli, del proletario assassinato perché aveva potuto capire troppe cose, non ce l’aspettiamo sicuro né dal dibattimento, né dalla conclusione, quale che sia, dì quella lugubre farsa, recitata in toga nel chiuso di un palazzo fascista. La chiarezza, la verità sulla strage di Stato, come ogni chiarezza e verità che conti, non può trovare spazio alcuno nei palazzi di giustizia, nelle aule dei tribunali borghesi. In quei luoghi, su quel terreno, tale chiarezza o verità può solo rimanere mortificata, distorta, stravolta in menzogna e complotto».

In un’altra occasione, il 6 giugno, aveva scritto: «Quando si tratta di magistrati e poliziotti, dobbiamo sempre andare oltre nell’ ipotizzarne e prevederne il comportamento criminale». E il 24 novembre ribadirà: «Questo processo serve solo a dimostrare il totale e assoluto antagonismo tra noi, la nostra pratica, le nostre idee, e la giustizia dei padroni. A riaffermare ancora una volta che non esiste possibilità alcuna di uso alternativo del tribunale, che non sia la sua distruzione. La coscienza della nostra assoluta estraneità alle regole della giustizia borghese diventa sempre più radicale e lucida: è questo il dato formidabile. La nostra volontà di opporre a questo processo la pratica della giustizia proletaria, di restituire al popolo la possibilità materiale di applicare la sua legge, è anche l’unico modo concreto di spezzare la criminale catena della strage di Stato».

Perciò, non si chiede giustizia a magistrati che si ritengono incapaci di farla, non sì attende da terzi, per di più sospetti, il giudizio su un uomo che si è già condannato. Anche se, per avventura, fosse innocente. Come afferma questo brano di Lotta Continua, pubblicato nel già ricordato articolo del 14 maggio 1970 sotto il titolo: Calabresi, sei tu l’accusato: «Abbiamo scritto più volte che Calabresi è un assassino. Era giusto farlo e oggi lo ribadiamo con più forza e convinzione, e non sarà una querela per diffamazione che ce lo impedirà. E questo anche se, per caso, il colpo di karaté non fosse stato lui a darlo, ma, mettiamo, l’agente Mucilli, o se, per ipotesi, non fosse stato Calabresi a buttare il corpo di Pinelli dalla finestra, ma, mettiamo, Vito Panessa. È lui l’organizzatore e quindi è lui l’assassino».

La campagna di Lotta Continua contro Gigi prosegue lungo tutto il 1971. Naturalmente, non basterebbe un volume per documentarla tutta, per cui mi limiterò a qualche cenno. Il 6 maggio 1971, sotto il titolo L’assassino alle corde — Calabresi tenta il tutto per tutto: «…Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista». II 25 maggio, dopo la ricusazione del presidente del Tribunale: «Questo processo non ha più storia, se mai ne ha avuta.

L’assassinio di Pinelli è qualcosa di cui i padroni non riescono a controllare gli effetti a catena, al punto da non trovare più neppure uno straccio di servo disposto a condannarci». Il 26 giugno, in un articolo in difesa di Braschi, Faccioli e Pella Savia, appena condannati grazie alle prove fornite dalla questura: «La fine di questa storia sarà il proletariato a scriverla: un tribunale popolare e soprattutto una giuria che non potrà essere assolutamente ricusata. E questo vale naturalmente anche per Calabresi».

«Ci vuole la calibro 38 special»

Gli attacchi riesplodono dopo la morte di Franco Serantini, un anarchico di Pisa morto in carcere per malore, «a seguito», scrive Lotta Continua, nel frattempo divenuta quotidiano da mercoledì 12 aprile 1972, «del pestaggio subito dalla polizia».

Nell’articolo di fondo del 9 maggio: «Così, tutta la capacità di odio e di violenza vigliacca di un pugno di poliziotti, uomini come Calabresi, si è congiunta con le decisioni e i programmi dei potenti, dei padroni e dei ministri, di quelli che dosano la quantità di furia omicida dei loro dipendenti a seconda dei tempi». Il titolo dell’articolo di fondo è esplicito: Da Pinelli a Serantini. In un vistoso riquadro di prima pagina, una frase di Antonio Granisci, dall’‘Avanti! del 7 giugno 1910: «Un questurino vale oggi politicamente più di un deputato: un deputato è una finzione giuridica, un questurino è una parte del potere».

Il 13 maggio (mancano cinque giorni all’uccisione di Gigi), Adriano Sofri tiene a Pisa un comizio per commemorare Serantini. Le sue parole sono pubblicate in prima pagina nel quotidiano del 16 maggio (manca un giorno all’uccisione di Gigi): «Siamo venuti a dire che, come il ferroviere anarchico Pinelli non era solo, così lo studente rivoluzionario Serantini, figlio di nessuno, non è solo… A dire che noi strumentalizziamo Pinelli e Serantini, perché Pinelli e Franco, e ogni altro compagno rivoluzionario, sono, da vivi e da morti, strumento cosciente e volontario di una lotta collettiva: la lotta per il comunismo… Al contrario che nel 1921-22, lo squadrismo irregolare è oggi la truppa di rincalzo nei confronti della truppa decisiva, formata dalla polizia… I militanti, i proletari, si trovano immediatamente contro la violenza squadrista dell’apparato statale e la individuano come il nemico principale». Tale nemico, «proletari del PCI e proletari delle organizzazioni extraparlamentari» devono affrontarlo uniti «con tutta la loro forza, politica e militare».

La mattina del delitto, Pinelli e Calabresi scompaiono dalle pagine di Lotta Continua. Negli Stati Uniti hanno sparato a George Wallace, candidato democratico alla presidenza. Il quotidiano ne da notizia in prima pagina scrivendo: «George Wallace, bianco, 53 anni, fascista, criminale, assassino, forse sopravviverà. Peccato. Tutti i criminali che ordinano i bombardamenti dei popoli indocinesi, quando viene toccato uno della loro cricca, un porco dello stesso porcile, allora piangono e parlano, come il boia Nixon, di violenza. All’attentatore suggeriamo, per la prossima volta, di non usare una pistola calibro 22. Come dicono i compagni rivoluzionari neri, che lo hanno imparato a proprie spese, per ammazzare il porco ci vuole la calibro 38 Special».

«Sa, eravamo tutti giovani e scatenati»

Su Panorama del 21 agosto 1988, Enrico Deaglio, ex direttore di Lotta Contìnua e ora redattore di Epoca, ebbe a dichiarare, in un’intervista: «Sandro Pertini ci prese in simpatia per un nostro titolo sulla sua elezione a presidente della Repubblica e invitava ogni tanto al Quirinale Sofri e altri di LC».

Su L’Espresso del 4 settembre 1988, Gad Lerner, ex vicedirettore di Lotta Continua e ora redattore di quel settimanale, scriveva: «Bompressi? L’ultima volta insieme è stato nientemeno che al Quirinale, quando andammo in visita al neo eletto presidente Pertini»,

Su una facciata di un «45 giri» stampato e venduto da Lotta Continua in 50 mila esemplari era incisa una canzone dal titolo Scade la ferma, «parole e musica del proletariato». La strofa d’inizio diceva: «Scade la ferma al Quirinale / ogni sette anni cambia maiale».

Sull’altra facciata era incisa La ballata del Pinelli: «Quella sera a Milano era caldo / Calabresi nervoso fumava. / “Tu Lograno apri un po’ la finestra”. / Ad un tratto Pinelli cascò. / “Poche storie, confessa, Pinelli, / c’è Valpreda che ha già parlato. / È l’autore di questo attentato / ed il complice è certo sei tu”. / “Impossibile — grida Pinelli — /un compagno non può averlo fatto. / E l’autore di questo delitto / tra i padroni bisogna cercar”./ “Stai attento indiziato Pinelli. / Questa stanza è già piena di fumo. / Se tu insisti apriam la finestra: / quattro piani son duri da far”. / Calabresi e tu Guida assassini / se un compagno avete ammazzato / questa lotta non avete fermato / la vendetta più dura sarà».

Altri «45 giri» stampati e diffusi da Lotta Continua erano «La violenza» («E ho visto le autoblindo / rovesciate e poi bruciate / tanti e tanti baschi neri / con le teste fracassate»), «L’ora del fucile» («Cosa vuoi di più compagno per capire / che è suonata l’ora del fucile?»), «Trenta luglio alla Ignis» («Cari compagni quella gran forca / dovremo farla ben resistente / per impiccarci assieme ai fascisti / il padron Borghi porco fetente»),

II 18 ottobre 1971 il procuratore della Repubblica di Torino citò un gruppo di militanti sorpresi a vendere questi dischi, e i sei direttori di Lotta Continua, per istigazione a delinquere. Cinquanta intellettuali (artisti, saggisti, romanzieri e registi) firmarono un manifesto di solidarietà dichiarando di condividere gli incitamenti di Lotta Continua alla lotta armata contro lo Stato, e facendo capire al procurato­re «che un’eventuale condanna avrebbe dovuto passare sul loro corpo».

Nella lettera aperta al procuratore sì poteva leggere: «Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione delle lotte di classe”, noi Io affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andarci a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro».

Seguivano le firme: Enzo Paci, Giulio A. Maccacaro, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Marino Barengo, Umberto Eco, Paolo Portoghesi, Vladimiro Scatturin, Alberto Samonà, Lucio Colletti, Tinto Brass, Paolo Pernici, Giancarlo Maiorino, Francesco Leonetti, Manfredo Tafuri, Carlo Gregoretti, Giorgio Pecorini, Michele Canonica, Paolo Mieli, Giuseppe Catalano, Mario Scialoja, Saverio Tutine, Giampaolo Bultrini, Sergio Saviane, Serena Rossetti, Franco Lefevre, Elio Aloisio, Alfredo Zennaro, Renato Izozzi, Giovan Battista Zorzoli, Cesare Zavattini, Bruno Caruso, Mario Ceroli, Franco Mulas, Emilie Garroni, Nelo Risi, Valentino Orsini, Giovanni Raboni, Luciano Guardigli, Franco Mogni, Giulio Carlo Argan, Alessandro Casillin, Domenico Porzio, Giovanni Giolitti, Marmele Fontana, Giuseppe Samonà, Salvatore Samperi, Pasquale Squitieri, Natalia Ginzburg, Tullio De Mauro, Francesco Valentini.

L’Europeo, che diciassette anni dopo ripescò questo documento, andò a chiedere ad alcuni degli autori perché lo avessero firmato. Le risposte sono state pubblicate dal settimanale il 12 agosto 1988.

Il 17 agosto cosi le ha commentate il filosofo Saverìo Vertone in un corsivo di prima pagina sul Corriere della Sera: «[Dalle loro risposte] è uscito un nuovo manifesto, più frammentario e meno curato, ma se possibile ancora più stupefacente dell’altro. Sempre sensitivi, come quelli dei cani da caccia, questa volta i nasi hanno fiutato un’aria diversa, ed esposti tra una corrente e l’altra si sono raffreddati. Samperi, ad esempio, ha sommessamente aspirato con una narice e sonoramente starnutito con l’altra: “Ognuno ha diritto di sostenere che bisogna prendere le armi, senza che questo significhi prenderle”. Argan ha arricciato le sue con severità: “Non ricordo più nulla. Firmai il documento, ma non vorrei tornarci sopra”. Natalia Ginzburg sì è turata occhi e bocca: “Non capisco che cosa si vuole da me. Non ho niente da dichiarare”.

Domenico Porzio, che all’epoca doveva avere almeno 45 anni, ha fatto una smorfia sbarazzina: “Sa, eravamo tutti giovani e scatenati”. Altri, compuntamente, hanno definito “metafore” (di che?) quelle dichiarazioni, quelle grida, quegli impegni. Tutti hanno usato il tono di chi abbia nascosto alla dogana tutt’al più una bottiglia di whisky o una stecca di Marlboro. Samperi ha battuto tutti in acrobazia, rivelando allo stato puro la prudente vocazione italiana a stipulare patti col diavolo senza rinunciare alla protezione dell’acqua santa. È una tradizione che vanta nobili precedenti e sostanziose ragioni e che consente di mettere d’accordo coscienza e incoscienza, tasche e vessilli, carriere ben protette e glorie ribelli.

«Siamo abituati a condannare il linguaggio, l’irresponsabilità e l’arroganza della nostra classe politica. Bisogna riconoscere che l’irresponsabilità e l’arroganza di questo linguaggio potrebbero fare ombra a quelle del peggior sottosegretario ai Lavori Pubblici. In compenso ci aiutano a capire quel che è successo in un decennio tra i più singolari della nostra storia, durante il quale nulla è stato vero, non la repressione, non la rivoluzione, non i governi, non l’opposizione, e però un poderoso schieramento di idee, parole, atteggiamenti non veri ha prodotto pistolettate vere. L’unica cosa reale degli anni Settanta sono stati purtroppo i morti. Tutto il resto, come dimostra questo documento, era finto».

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