«Le radici della nazione»: una ricerca fuorviante

MazziniCristianità n.334 marzo-aprile 2006

di Francesco Pappalardo

Si è concluso l’anno dedicato a Giuseppe Mazzini (1805-1872) nel secondo centenario della nascita e si affaccia all’orizzonte il 2007, anno bicentenario di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Entrambe le ricorrenze cadono nel «decennio di preparazione» al 150° anniversario dell’unità politica italiana (1861-2011), annunciato dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, prima con un’intervista sul quotidiano La Stampa (1), quindi con un discorso alla cerimonia di consegna delle decorazioni dell’Ordine Militare d’Italia, a Roma, il 4 novembre 2002: «Il patriottismo che sta crescendo tra gli italiani è un’occasione che viene offerta alle istituzioni; non dobbiamo perderla.

«Per questa ragione abbiamo il dovere di progettare oggi il percorso che condurrà gli italiani a celebrare, nel 2011, il giubileo della Nazione — il centocinquantenario dell’Unità d’Italia — e, prima di allora, il sessantesimo anniversario della nostra amata Repubblica, i bicentenari di alcuni dei nostri eroi, fondatori della Patria: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso di Cavour

[1810- 1861]. Questi anniversari devono collegarsi in una trama unica che fornisca l’occasione di approfondire e celebrare la nostra storia. «[…] Per “Italia 2011”, come già per il 1911 e il 1961, si renderà necessaria una legge speciale che coinvolga tutte le istituzioni della Nazione nel lavoro di preparazione. Spetta al Parlamento e al Governo stabilire gli obiettivi concreti che portino a vivere il 2011 come un’occasione di crescita per tutti» (2).

L’auspicato intervento legislativo non vi è stato, ma il ministero per i Beni e le Attività Culturali ha messo a punto il progetto Le radici della nazione, articolato in otto tappe annuali, dal 2004 al 2011: Le fonti documentarie, Simboli d’appartenenza, Il governo del territorio, Arti e mestieri, Apprendere e comunicare, Oltre i confini dell’anima, Italia ed Europa. La circolazione dell’esperienza e Le radici della nazione (3).

Sono state realizzate finora le prime due tappe con le esposizioni La storia delle città italiane nella Biblioteca del Senato e Simboli d’appartenenza, tenutesi rispettivamente dal 2 giugno all’8 settembre 2004 e dal 2 giugno al 18 settembre 2005, entrambe a Roma, presso il complesso monumentale del Vittoriano (4).

L’iniziativa, nelle intenzioni del presidente della Repubblica, è finalizzata alla riscoperta dell’identità italiana: «Per noi italiani, dunque, la riscoperta dell’amor di Patria, l’orgoglio di essere Nazione, la consapevolezza della nostra cultura millenaria — cultura da sempre intessuta di ideali civili — si coniugano con la costruzione di una Unione Europea non più solo economica, ma dotata di una vera cittadinanza, di una Costituzione» (5).

Tuttavia, immaginare di celebrare «le radici della nazione» prescindendo dal contributo decisivo del cristianesimo alla storia d’Italia è senz’altro una forzatura. Anche la scelta di Mazzini — indicato «come uno tra i Padri più nobili e lungimiranti della nostra Patria, l’Italia repubblicana, una, indivisibile e democratica» (6) — e di Garibaldi — «un protagonista emblematico del nostro Risorgimento e l’artefice dell’unità d’Italia» (7) — quali personaggi rappresentativi dell’identità nazionale è quanto meno discutibile.

Mazzini e Garibaldi, gli anti-italiani

Poiché si ritiene che «l’eredità ideale di Mazzini, a duecento anni dalla sua nascita, è ancora profondamente attuale» (8) e che «egli non è un’icona del passato: è un maestro, sempre attuale, di moralità politica e civile, di religiosità laica, di senso di umanità aperto al rispetto di tutte le culture e del loro apporto al divenire della umanità» (9), appare opportuno delineare brevemente le caratteristiche salienti del suo pensiero religioso e politico.

Nato a Genova nel 1805 e formatosi in un ambiente familiare caratterizzato da profonde venature giansenistiche, Mazzini elabora una sorta di costruzione filosofica in cui la polemica anticattolica si univa alla ferma adesione a un’indeterminata religione dell’umanità, che avrebbe dovuto realizzarsi pienamente, con il superamento delle vecchie fedi religiose, in una società nuova, nella quale, superata ogni prospettiva dualistica, vi sarebbe stata piena fusione fra religione e politica.

La separazione fra istituti politici e princìpi religiosi non avrà più ragione di essere e alla fede corrisponderà la morale, che si attuerà nella politica, così come lo Stato sarà la Chiesa e la Chiesa sarà lo Stato: «Spenta nell’anima la fede nella sintesi passata, conquistata la fede nella nuova, lo Stato dovrà innalzarsi alla Chiesa, incarnare in sé un principio religioso, rappresentare nelle diverse manifestazioni della vita la legge morale» (10).

Al sacerdote francese Hugues Felicitè-Robert de Lamennais (1782-1854) confida: «Noi non siamo cristiani perché non crediamo più […] alla divinità eccezionale di Cristo, né alla caduta, né alla redenzione per i soli meriti di Cristo, né alla resurrezione, né al cielo cristiano» (11). In un’altra occasione afferma: «[…] noi, società sotto l’impero ancora del Cattolicesimo, non possiamo saltar d’un balzo al di là del Cristianesimo, e predicare il Deismo puro, ch’è la mia religione» (12).

Queste parole esprimono nella forma più esplicita la profonda antitesi fra il pensiero di Mazzini e la religione cattolica. Perciò è un errore credere che egli si sia separato dal cattolicesimo per ragioni politiche contingenti, cioè in seguito all’ostilità dei Pontefici nei confronti della causa nazionale. Dalla concezione religiosa del genovese deriva direttamente la sua teoria politica. Mazzini ritiene che l’Italia sia stata scelta da Dio per diventare una nazione e che soltanto attraverso l’unificazione politica avrebbe potuto adempiere alla sua missione d’ispiratrice delle altre nazioni europee.

Per un’infallibile progressione storica alla Roma dell’Impero e alla Roma del Papato dovrà seguire la Terza Roma, quella del Popolo, a cui spetterà prendere l’iniziativa per bandire la religione dell’Umanità e farsi ancora una volta iniziatrice di un grande movimento della storia. L’Italia ha una doppia missione, religiosa — «abolizione del Papato […] e sostituzione del dogma del PROGRESSO a quello della caduta e della redenzione per grazia» (13) — e politica: «[…] sviluppo del principio di NAZIONALITÀ come regolatore supremo delle relazioni internazionali e pegno securo di pace nell’avvenire» (14).

Mazzini, dunque, sostituisce al lealismo dinastico la fedeltà alla nazione, intesa come fondamento naturale dell’organizzazione del potere politico e principale riferimento della legittimità politica, e invoca la distruzione dei grandi imperi multinazionali, che rappresentano l’ostacolo maggiore alla diffusione del principio di nazionalità.

L’unità che egli auspica è quella di una società completamente nuova, da costruire sulla demolizione non solo di tutti i legittimi ordinamenti preesistenti, ma degli stessi valori, spirituali e storici, comuni alle popolazioni della penisola italiana, in quanto estranei o contrastanti con la sua ideologia. Analogamente Garibaldi ha svolto un ruolo — poco noto — di «educatore» del neonato Regno d’Italia, nel più ampio contesto della politica pedagogica inaugurata dalla Destra Storica, mirante a costruire uno Stato accentratore e a ridimensionare la presenza della Chiesa all’interno della società.

Nato nel 1807 a Nizza, nel Regno di Sardegna, non ha idee religiose ben definite, ma solo sentimenti, e questi piuttosto contraddittori. Il panteismo, il sincretismo, le utopie sansimoniane lo attirano successivamente, senza riuscire a fissarsi nel suo pensiero. Respinge decisamente ogni forma di rivelazione. Cristo stesso viene considerato non più «[…] sotto l’aspetto della Divinità, cui vollero attribuirlo i preti vari secoli dopo morto, e per trafficarlo; ma sotto l’aspetto delle sue virtù, come Uomo e come Legislatore» (15).

La cosiddetta religione del Vero, diffusa con spirito anticattolico fin dal 1861, se non prima, era una nuova credenza in Dio, senza sacerdoti né dogmi, che, in quanti si richiamavano in qualche modo all’esperienza garibaldina, si tradusse spesso in deciso ateismo. Anche in Garibaldi, dunque, l’ostilità al cattolicesimo non è dovuta a ragioni politiche, ma è la manifestazione di un’avversione ben più profonda.

Egli, tuttavia, non riesce ad andare oltre la contrapposizione dei principi del Vero a quelle che definiva menzogne del Vaticano e, come del resto gli altri laicisti del secolo XIX, non disporrà mai di una dottrina organica; ma «[…] il fascino del liberatore — osserva lo storico e uomo politico Giovanni Spadolini (1925-1994) — non permetterà di scorgere la mediocrità del suo pensiero, la vacuità della sua dottrina, l’inconsistenza della sua fede, in tutto adeguata alle “società atee” che gli affidavano la presidenza onoraria e a cui egli rispondeva con immancabili messaggi di speranza» (16).

Dopo la spedizione dei Mille, del 1860, Garibaldi non è più soltanto un generale vittorioso, ma anche un punto di riferimento per molteplici raggruppamenti d’ispirazione democratica e radicale, che danno vita a quel vasto e autonomo movimento politico noto come «garibaldinismo», e si dedica all’opera di «educatore». La sua azione — che si concretizza in battaglie legislative e culturali in funzione anticattolica, delle quali la massoneria doveva essere il perno — ha lo scopo dichiarato di «[…] fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo» (17).

Egli ritiene che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale» sia la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione e che, pertanto, occorra unificare concretamente la nazione con l’elaborazione di una cultura fondata su una nuova concezione della religiosità. Mentre altri operavano a livello della minoranza colta, Garibaldi diffonde, in forme più immediate e comunicative, fermenti anticattolici presso i ceti popolari, anche con la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuivano a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa.

Nella sua indulgenza verso talune manifestazioni di devozione laica — come la celebrazione non sacerdotale di alcuni sacramenti, soprattutto il battesimo e il matrimonio, e la diffusione della sua immagine di «redentore» —, va colto un intento politicopedagogico, mirante a una inculturazione che, machiavellicamente, utilizzava gli strumenti di comunicazione adatti agl’italiani del suo tempo.

Garibaldi è accreditato da cattiva retorica come «eroe dei Due Mondi» con riferimento geografico all’Europa e all’Iberoamerica. «Ma i due “mondi” in questione non sono geografici, bensì quello politicomilitare e quello culturale, e l’agire di Garibaldi nel primo mondo fu animato da una prospettiva culturale, fu anzi a essa direttamente funzionale. Contribuì, infatti, a mutare il quadro politico-istituzionale nella penisola, esponendo i più deboli, i minores, indifesi o scarsamente difesi, all’aggressione di una cultura diametralmente opposta  a quella, naturale e cristiana, di cui avevano vissuto e continuavano a vivere» (18).

Un bicentenario ignorato: l’Insorgenza del 1806

Il nodo del processo di unificazione politica della penisola — che prima ha costruito lo Stato Nazionale e poi ha cercato di «fare gli italiani» secondo un progetto ideologico ispirato dalla minoranza al potere —ne richiama uno precedente, nascosto ma non meno significativo ai fini di una ricostruzione corretta e completa della biografia della nazione italiana. Si tratta del fenomeno delle insorgenze antigiacobine e antifrancesi, più propriamente l’Insorgenza, di cui non ci è stata trasmessa la memoria, se non attraverso una lettura fuorviante.

Circa duecento anni or sono, insurrezioni popolari scoppiano un po’ dovunque in Europa, in coincidenza con la Rivoluzione Francese del 1789 e con la sua graduale esportazione manu militari da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821). In tutta Italia — compresa Malta, ma con l’eccezione della Sicilia, mai occupata dai francesi — le insorgenze si manifestano con particolare ampiezza e intensità nel corso del cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) e riprendono durante il periodo napoleonico, dalla fine del 1805 sino al 1814 (19).

Dopo un prologo nel Ducato di Parma e di Piacenza, dove fra il dicembre del 1805 e i primi mesi del 1806 insorgono i montanari delle valli appenniniche dell’Arda, del Tidone, del Trebbia, del Nure e del Taro (20), scoppia una grande rivolta nel Regno di Napoli, in seguito all’invasione napoleonica del febbraio del 1806. Gli episodi più noti sono l’insorgenza in Terra di Lavoro, che s’intreccia con la resistenza di Gaeta e la guerriglia condotta da Michele Pezza (1771-1806), passato alla storia e alla leggenda con il soprannome di Fra’ Diavolo (21), e l’insorgenza calabrese, animata dagl’inglesi e dallo stesso Fra’ Diavolo a partire dal luglio del 1806.

Migliaia d’insorti non danno tregua agl’invasori, che reagiscono ancora una volta con eccidi e con rappresaglie di ogni genere. Dopo la caduta della fortezza di Gaeta, il 18 luglio, i francesi riconquistano i centri principali della Calabria, ma la rivolta non è affatto domata. Resistono i centri minori e molte aree del Mezzogiorno, la lotta si frantuma in mille episodi e ha inizio una lunga ed estenuante guerriglia, quasi completamente estirpata nel 1811 dalla durissima repressione condotta dal generale Charles-Antoine Manhès (1777-1854) con i metodi terroristici che saranno triste appannaggio anche degli unitari nel 1860: la fucilazione immediata per tutti gl’insorti, l’arresto dei sospetti, il trattamento di ribelle a chi diffonde notizie giudicate tendenziose e premi ai delatori, nonché la responsabilità dei Comuni per i danni causati dai «briganti» nel loro territorio e la confisca dei beni dei «manutengoli», cioè dei loro collaboratori (22).

Lo storico calabrese Gaetano Cingari (1926-1994) commenta: «Nel 1799 e nel 1806 dunque il brigantaggio s’incrociò strettamente con l’insurrezione. Fu controrivoluzione, per estensione ed esito politicosociale, nel 1799. Fu rivolta ampia e sconvolgente nel 1806» (23).

Nonostante l’estensione territoriale, la durata nel tempo e il coinvolgimento popolare — che il Risorgimento cercò invano, senza trovare —, queste sollevazioni spontanee sono considerate dalla storiografia egemone come episodi marginali nella vita delle popolazioni italiane e, conseguentemente, sono quasi ignorate dall’opinione pubblica.

Le insorgenze testimoniano che sul finire del secolo XVIII la nazione italiana, nonostante l’assenza di un organismo statuale unitario, esiste già con una precisa identità religiosa e culturale e con quel «comune sentire» nei valori fondamentali che costituisce premessa indispensabile all’unità di un popolo.

Da ciò scaturisce un atteggiamento immediatamente reattivo nei confronti dell’aggressione rivoluzionaria, che è avversata dagl’italiani non solo per le imposizioni e le ruberie dell’occupante francese, ma pure perché percepita nella sua essenza reale: estranea alle tradizioni, al costume, alle credenze di un popolo, nonché all’ordine politico e sociale costituitosi nei secoli in un ambiente docile all’influsso del cristianesimo. Poiché, dunque, «in Italia, la patria emerge, prima che come copertura del Risorgimento, come realtà difesa con accanimento dall’Insorgenza» (24), il bicentenario della resistenza all’aggressione rivoluzionaria è occasione per riscoprire le radici «vere» della nazione italiana.

Note

(1) Ciampi. «La mia idea dell’Italia», intervista a cura di Aldo Cazzullo, in La Stampa, Torino 1-11-2001.

(2) Cfr. MARZIO BREDA, Ciampi: la storia non divide più gli italiani, in Il Corriere della Sera, Milano 5-11-2002.
(3) Cfr. IDEM, Otto secoli d’Italia. Le radici della nazione, ibid., 22-5-2004.
(4) Cfr. i cataloghi La storia delle città italiane nella Biblioteca del Senato. Statuti dei comuni e libri antichi di storia locale dal XIII al XIX secolo, a cura del Senato della Repubblica, Skira, Milano 2004, e Simboli d’appartenenza, a cura di Giuseppe Galasso, Gangemi, Roma 2005.
(5) Cfr. M. BREDA, Ciampi rilancia l’unità, ma dentro l’Europa, in Il Corriere della Sera, Milano 4-11-2003.
(6) CARLO AZEGLIO CIAMPI, Discorso a una delegazione del Consiglio Regionale della Toscana ed una rappresentanza di studenti toscani per la presentazione della pubblicazione su Giuseppe Mazzini «I doveri dell’uomo», dell’1- 12-2005, www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=28180 (visitato il 29-4-2006).
(7) IDEM, Messaggio alla dott.ssa Anita Garibaldi, Presidente onorario del Comitato Internazionale per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, del 9-2-2006, www.quirinale.it/Comunicati/Comunicato.asp?id=28606 (visitato il 29-4-2006).
(8) IDEM, Discorso a una delegazione del Consiglio Regionale della Toscana ed una rappresentanza di studenti toscani per la presentazione della pubblicazione su Giuseppe Mazzini «I doveri dell’uomo», cit.
(9) IDEM, Messaggio al Sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, in occasione dell’inaugurazione del Museo del Risorgimento, del 22-6-2005, www.quirinale.it/Comunicati/Comunicato. asp?id=27343 (visitato il 29-4-2006).
(10) GIUSEPPE MAZZINI, Questione morale, 1866, in IDEM, Scritti Editi e Inediti. Edizione Nazionale, Galeati, Imola, dal 1906, vol. LXXXIII, p. 206.
(11) IDEM, Lettera del 29-11-1840, ibid., vol. XIX, p. 357.
(12) IDEM, Lettera a Francesco Bertioli (1800-1873), gennaio 1833, ibid., vol. V, p. 216.
(13) IDEM, Politica internazionale, 1871, ibid., vol. XCII, p. 152.
(14) Ibid., pp. 152-153.
(15) GIUSEPPE GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III (1868-1882), Cappelli, Bologna 1937, p. 347.
(16) GIOVANNI SPADOLINI, Cattolicesimo e Risorgimento. (Con la «storia del Sillabo») [ristampa anastatica del saggio del 1950-1951 contenuto in Questioni di storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia, a cura di Ettore Rota (1883-1958), Marzorati, Milano 1951, pp. 821-906], Le Monnier, Firenze 1986, p. 859.
(17) MASSIMO INTROVIGNE, L’«ethos» italiano e lo spirito del federalismo, con una presentazione di Pierferdinando Casini, Gruppo Parlamentare Centro Cristiano Democratico — Camera dei Deputati-Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1995, pp. 20-21.
(18) GIOVANNI CANTONI, Introduzione al mio Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002, pp. 9-14 (pp. 13-14).
(19) Cfr. OSCAR SANGUINETTI (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, San Giuliano Milanese (Milano) 2001.
(20) Cfr. CARLO EMANUELE MANFREDI, Un episodio di contro-rivoluzione nel Ducato di Piacenza (1805-1806), in Cristianità, anno II, n.7, settembre-ottobre 1974, pp. 5-6; e ibid., anno II, n. 8, novembre-dicembre 1974, pp. 7-9.
(21) Cfr. FRANCESCO BARRA, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita, avventure e morte di un guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Avagliano, Cava de’ Tirreni (Salerno) 1999; e GIUSEPPE PECCHIA, Il Colonnello Michele Pezza (fra’ Diavolo). Protagonista dell’Insorgenza in Ciociaria e Terra di Lavoro. 1798-1806, Arti Grafiche Kolbe, Fondi (Latina) 2005.
(22) Cfr. F. BARRA, Il brigantaggio del Decennio francese (1806-1815). Studi e ricerche, Plectica, Salerno 2003.
(23) GAETANO CINGARI, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud. 1799-1900, Editori Meridionali Riuniti, Reggio Calabria 1976, p.92.
(24) G. CANTONI, Prefazione ad ANGELO RUGGIERO, La leggenda nera del Principe di Canosa, terziaria, Milano 1999, pp. XI-XIV (p. XII).