Cina – Bastoni di partito

Cina-bastonatada Internazionale n.635, 31 marzo 2006

In Cina bande di picchiatori attaccano i contadini perché lascino la terra alle imprese che vogliono sfruttare le materie prime . I dirigenti del partito comunista fanno finta di niente. Reportage da Luji

di Georg Blume
(traduzione di un articolo pubblicato su Die Zeit (Germania)

I LINEAMENTI DI WANG SHEN (i nomi dei contadini sono stati cambiati) sono così delicati che lasciano trapelare tutte le sue emozioni, ma non la durezza del lavoro quotidiano che svolge nei campi. Wang Shen è una contadina di trent’anni, vestita con un grembiule blu, ed è fuori di sé.

Ogni gesto, ogni parola scava un nuovo solco sul suo volto. Si muove nervosamente avanti e indietro nella sua minuscola capanna d’argilla grattando con le unghie rovinate il bordo del vecchio tavolo. È il suo unico mobile. Il pavimento è di terra e dalle pareti spuntano fili di paglia. In cucina c’è solo un fornello a gas alto fino alle ginocchia, con la griglia composta da due sbarre di latta incrociate. I vicini sono arrivati e si stringono nella stanza.

All’inizio sono dieci, poi venti, alla fine non c’è più nemmeno un angolo libero. Hanno tutti i volti furibondi. Guardano Wang Shen e ne condividono la rabbia e la disperazione. La donna racconta cos’è accaduto il terzo lunedì dell’anno lunare, il 20 febbraio.

Quel giorno, verso le due, il suo uomo, Lu Xiaoming, ha ricevuto sul cellulare una richiesta di aiuto dai contadini del monte Dalao. Sul monte, dove si trova il villaggio di Luji, i minatori avevano cominciato a scavare senza il permesso degli abitanti. Lu Xiaoming e altri diciassette uomini del paese sono saltati subito su un’auto e su un trattore per raggiungerli.

I cinque in macchina sono arrivati per primi. Ad aspettarli c’erano centocinquanta minatori, schierati davanti alle gru e alle scavatrici. Erano tutti giovani braccianti provenienti da altre province. Indossavano elmetti rossi e gialli e tenevano in mano lunghe spranghe di legno spesse come un pugno. Al loro fianco c’era il generai manager Fan, capo dell’impresa di estrazione Jianshan.

Al segnale di Fan gli operai hanno cominciato a picchiare i contadini: li hanno trascinati fuori dall’auto e li hanno pestati con i loro bastoni. Appena Lu Xiaoming è arrivato con il suo trattore, ha provato a chiamare la polizia dal suo cellulare. Ma Fan se n’è accorto e ha gridato: “Ha un cellulare. Prendetelo!”. Gli operai hanno scaraventato Lu Xiaoming e gli altri contadini fuori dal trattore e hanno cominciato a bastonarli finché non hanno perso conoscenza, lasciandoli poi a terra, nel fango, con le ossa rotte.

Solo uno di loro è riuscito a scappare e a dare l’allarme a Luji. Dal villaggio, vecchi, donne e bambini si sono precipitati verso la cima del monte. Ma lì gli operai avevano già scavato con la ruspa una profonda buca che interrompeva la strada. Gli abitanti erano rimasti bloccati e i minatori festeggiavano oltre il fossato, con tanto di petardi. I fuochi d’artificio li aveva portati il generai manager Fan per indispettire ancora di più i contadini.

La polizia era rimasta a guardare senza intervenire e ha aspettato tre ore prima di soccorrere le vittime. Per tutto quel tempo i contadini sono rimasti a terra tra i minatori festanti: i feriti erano diciassette, cinque dei quali gravi. Tra loro c’è anche Lu Xiaoming. Probabilmente non potrà mai più lavorare nei campi. “Nessuno ci ha spiegato perché siamo stati pestati dai minatori”, ha detto Wang Shen, prima di scoppiare in lacrime e uscire dalla capanna.

Il nuovo socialismo di villaggio

Alla fine hanno preso la parola gli uomini di Luji. Sanno che nessuno è autorizzato a pubblicare le loro denunce perché potrebbe finire nelle maglie della censura del partito comunista, specialmente in una settimana come quella, quando a Pechino era convocato il congresso del popolo. Ogni anno, a marzo, il governo comunista presenta il suo programma davanti al parlamento.

Questa volta al centro dell’attenzione c’erano i contadini. “Costruire nuovi villaggi socialisti è uno dei compiti storici che si è prefissata la quinta assemblea plenaria del sedicesimo comitato centrale del partito”, ha proclamato il primo ministro Wen Jiabao aprendo il congresso con parole molto formali. Il tema è riemerso per sette volte nel suo discorso e nessun altro argomento ha ricevuto altrettanta attenzione.

Il premier cinese conosce le pessime condizioni in cui vivono gli 800 milioni di contadini del suo paese. Sa che sono la maggioranza della popolazione e malgrado questo sono le vittime della crescita economica comunista, e che vivono nella miseria e nell’ingiustizia.

Ora il partito vuole distribuire più denaro ai contadini e, come durante il regime di Mao, cercherà di farsi nuovamente carico della spesa necessaria a garantire anche a loro l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Comunque, il mondo non deve venire a sapere i problemi del paese. Le notizie sui contadini bastonati darebbero fastidio alla propaganda del nuovo socialismo di villaggio.

I contadini sanno che Pechino sarà di poco aiuto, anche se non chiedono nuovi finanziamenti, ma solo di non essere trattati come bestie. Vogliono pene giuste per i picchiatori e per i loro capi, come il generai manager Fan. Chiedono che la proprietà della loro terra e dei loro villaggi non sia espropriata a vantaggio degli investitori, che vanno a caccia di terreni in tutto il paese.

Non è certo quello che ci si aspetterebbe da uno stato comunista. “Ha ancora un senso la giustizia in Cina?”, chiede un giovane contadino tra quelli che si trovano nella capanna di Wang Shen. Ha ragione di dubitarne. Nessuno degli abitanti di Luji presenti osa consigliare alle persone bastonate e ai loro familiari di sporgere denuncia o anche semplicemente di protestare presso la polizia o i rappresentanti della comunità.

“I funzionari della nostra zona aiutano sempre le imprese”, dicono amareggiati i più anziani. Raccontano che il monte Dalao è stato usato per coltivare la frutta e come cimitero fin dall’epoca della famosa riforma agraria di Deng Xiaoping, quando all’inizio degli anni ottanta ogni famiglia di contadini cinesi ottenne un pezzo di terra. Solo nel 2002 è stata scoperta la presenza di minerale di ferro.

L’impresa Jianshan, che controlla diverse miniere nell’area, a novembre del 2005 ha spedito a Luji il generai manager Fan, che lavorava nella regione da giugno. Fan è considerato un professionista e doveva contratture con i contadini per ottenere una concessione. Questi ultimi hanno delegato dodici rappresentanti chiedendo tre milioni di yuan (circa 300mila euro) per i diritti di scavo. Certo non una somma atta, ma comunque eccessiva per Fan, che ha rifiutato mandando a monte la trattativa. Per tre mesi è rimasto tutto tranquillo. Fino al 20 febbraio, quando le scavatrici sono arrivate sul monte.

Il coraggio di protestare

“Pestaggi e fuochi d’artificio. Era tutto organizzato”, dicono oggi i contadini. Ormai è diventata quasi un’abitudine in Cina, dice uno dei dodici rappresentanti. “Chi ha i soldi crede di poterai permettere tutto” ribadisce Lu Bin. Di mezza età, indossa una giacca nera, e interviene dopo un’iniziale diffidenza. Anche lui ripete la sua formula: “Sono ricchi e fanno quello che vogliono con noi”. E non solo a Luji. Oggi dappertutto, in Cina, i contadini protestano contro gli espropri delle terre, contro l’annullamento delle riforme di Deng e contro la sottrazione dei terreni senza risarcimenti.

Le montagne diventano miniere e i campi sono trasformati in stabilimenti industriali. Ci guadagnano solo i capì del partito e i dirigenti delle imprese. Lu Bin è arrabbiato. Sa che il congresso del popolo ha rinviato la discussione sul tema della proprietà terriera ancora di un anno, anche se nel 2001 il governo ha svolto indagini su 70.600 espropri illegali. Eppure per i contadini non è previsto alcun miglioramento in materia di diritti sulla terra. Gli uomini di Luji devono sbrigarsela da soli. Sta a loro trovare il modo, se fosse necessario anche con l’aiuto della stampa straniera.

Lu Bin si avvicina e mi chiede con durezza di mostrargli una tessera stampa. Allo stesso tempo ridacchia: “Anche altri contadini della zona sono stati picchiali dalle bande delle impreso, ma solo noi di Luji osiamo parlare con un giornalista straniero”. Lu Bin sa di correre un rischio: in poche ore la polizia arriverà per interrogare l’intero villaggio. Ma lui ha un piano: vuole mostrarmi i feriti gravi ricoverali in ospedale. La storia di Luji deve essere pubblicata per mettere sotto pressione i rappresentanti delle istituzioni locali grazie a un intervento esterno.

I contadini riflettono; i malati sono sorvegliati dalla polizia. Lu Shengying, il padre di una delle vittime, decide di correre il rischio. L’anziano contadino, corpulento, indossa un basco blu e una pesante giacca di lana. Dice semplicemente: “Andiamo!” Ai piedi ha dei grandi stivali neri coperti di fango e un’ora dopo, con gli stessi stivali, attraversa l’atrio appena pulito dell’ospedale popolare numero 2 della città di Chaohu.

Non guarda né a destra né a sinistra. Nessuno lo ferma. Arriva al letto di Lu Faming, uno dei feriti gravi: il fratello lavora a Pechino come vicedirettore della Xinhua, l’agenzia di stampa governativa. Gli ha spedito un cesto di uova, ma Xinhua non ha scritto una riga sui pestaggi.

Lu Faming è stato operato da poco al braccio ed è sotto sedativi. Il contadino va verso il letto di suo figlio, picchiato al corpo e alla testa. È sotto l’effetto degli psicofarmaci e non è permesso parlargli. I medici devono evitare che i testimoni raccontino cosa è successo. “La sua testa sanguinava e gridava per il dolore quando l’ho visto a terra di fronte a me”, racconta il padre.

Arriva un uomo con il distintivo del partito. Dice di essere il direttore dell’ospedale e che dobbiamo lasciare subito l’edificio. È gentile. Chiamerà la polizia solo quando ce ne saremo andati. I contadini del villaggio faranno poi finta di non aver capito e racconteranno che il giornalista si era spacciato per un corrispondente ufficiale dell’agenzia Xinhua.