I totalitarismi nella storia del Novecento

Incontro a cura della Circoscrizione 1 del Comune di Pisa

e del Centro Cattolico di Documentazione 

Marina di Pisa – Venerdì 8 ottobre 2004

prof. Ettore Cannella

(Ricercatore di Storia Contemporanea all’Università di Pisa)

– trascrizione riveduta dall’autore –

Hitler_Stalin_Mao

Sono contento d’essere qui con voi stasera, anche perché scorgo tra il pubblico amici che non vedevo da anni. Ringrazio tutti i presenti e il dottor Andrea Bartelloni, che ha voluto organizzare quest’incontro. Il tema dell’odierna conversazione è alquanto vasto, complesso e controverso. Si tratta d’un argomento incandescente che, toccando pagine drammatiche della storia del Novecento e grandi tragedie storiche, suscita emozioni e passioni.

Io mi sforzerò d’affrontarlo con pacatezza, esponendo i risultati delle mie letture, ricerche e riflessioni.Sono oltre trent’anni che mi occupo di questa temi. Il mio non sarà dunque un comizio politico, ma un discorso il più possibile rigoroso e argomentato, che spero susciti obiezioni e critiche, insomma un franco e vivace dibattito. Poiché la materia è vastissima, grande è la tentazione di parlare a lungo. Tenterò di frenarmi e di essere il più breve possibile, sfiorando sì molte questioni ma lasciando spazio agli interventi e alle osservazioni dei presenti.

«Totalitario» e «totalitarismo» sono termini controversi. Innanzi tutto sono termini molto diffusi e addirittura abusati, che ricorrono continuamente sui giornali, nei libri e nel linguaggio quotidiano. Tante volte li usiamo per scherzo o per ingiuria: per esempio, parlando d’un avversario politico, ci capita di bollarlo con l’accusa di «totalitario».

Che cosa dunque significa tale parola nel linguaggio di tutti i giorni? E’ per lo più intesa come sinonimo di dittatoriale, dispotico o tirannico. Potevamo allora intitolare il nostro incontro «le dittature del ventesimo secolo»? No, perché secondo me totalitario e totalitarismo hanno un significato ben preciso, benché controverso e tale da non trovare concordi gli stessi storici.

Addirittura alcuni, e non sono pochi, negano vi sia stato un fenomeno totalitario nel Novecento; e anche coloro che ne ammettono l’esistenza, poi divergono tra loro nel definire quali sono i tratti essenziali del totalitarismo. Una tendenza che è stata dominante per tantissimo tempo, sebbene ora sia un po’ in declino, è quella della scuola anglosassone. Volendo caratterizzarla nelle linee generali, possiamo dire che questa scuola ha un approccio di tipo politologico. In concreto, essa si dedica a costruire modelli d’interpretazione del fenomeno totalitario; insomma, essa definisce e analizza la realtà del totalitarismo servendosi di modelli.

I regimi che rientrano in un determinato modello sono chiamati «totalitari». Personalmente non trovo molto fecondo un simile approccio, perché la storia umana è oltremodo complicata e, soprattutto, dinamica e in continuo divenire. Le realtà totalitarie non sono statiche, ma tendono anch’esse ad evolversi. Prima della nascita di un regime totalitario, troviamo un partito o un movimento totalitario.

Quindi bisogna spiegare come quest’ultimo è giunto al potere, quali sono la sua ideologia e la sua composizione sociale, come si è venuto sviluppandosi, e infine come ha dato vita ad un regime che chiamiamo totalitario. E anche il regime totalitario va visto e studiato non come una realtà statica e immobile, bensì nelle sue strutture di potere e nell’evoluzione interna fino al crollo finale.

E’ dunque l’approccio storico-descrittivo o storico-comparativo quello più utile. Ovvero, una volta individuati i regimi totalitari, occorre studiarli e analizzarli uno per uno e metterli a confronto per vedere se e quali siano, al di là delle differenze, i tatti comuni. Questa è l’operazione che ho sempre cercato di fare nei miei studi e che vorrei qui esporre brevemente.

Come procedere? Parto da alcune tesi generali perché, qualunque studio s’intraprenda, la concettualizzazione è importante. Prima di tutto il totalitarismo è un fenomeno circoscritto nello spazio e nel tempo; presuppone l’avvento della società di massa, che nasce tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nella storia umana si sono avute innumerevoli dittature, tirannidi, stragi e ogni sorta d’atrocità.

Ma non possiamo dire che c’è stato sempre il totalitarismo, il quale invece è una forma peculiare di tirannide e presuppone la società di massa. Ciò significa anzitutto l’irruzione delle masse sulla scena della storia, la nascita dei movimenti e partiti di massa e il trionfo dei mezzi di comunicazione di massa (e quindi delle tecniche pubblicitarie). Questo è un tratto essenziale del fenomeno totalitario.

La seconda ipotesi interpretativa è che fu la prima guerra mondiale, con il grande macello di popoli, a generare i regimi totalitari. La terza premessa generale è che il totalitarismo va considerato soprattutto – potremmo anzi dire esclusivamente – un fenomeno europeo del periodo tra le due guerre mondiali.

Proviamo dunque a procedere come in matematica, partendo da alcuni presupposti e cercando poi di dimostrarli. Quali regimi dobbiamo considerare totalitari? Io non chiamerei totalitario un regime come quello di Pinochet, nonostante la sua grandissima ferocia. Persino la Cambogia di Pol Pot, che è stato forse il regime più sanguinario del ventesimo secolo, non andrebbe definita totalitaria; meno che mai la Spagna di Franco.

Il totalitarismo sta allora diventando un fantasma evanescente? No. Più semplicemente, il fenomeno totalitario si restringe a pochissimi casi: senz’altro, la Germania nazista e l’URSS di Stalin (quindi, non tutta la storia sovietica). Soltanto il periodo staliniano – ossia i venticinque anni che vanno dalla fine degli anni Venti alla morte di Stalin – costituiscono, secondo me, la fase totalitaria della storia sovietica. Ciò non vuol dire, beninteso, che il regime sovietico non sia stato sempre oppressivo e tirannico. Per quanto riguarda l’Italia fascista, il discorso diventa ancor più complesso perché solo nell’ultimo periodo, cioè nella seconda metà degli anni Trenta, si ebbe una svolta totalitaria.

Fuori dai confini europei, il fenomeno totalitario lambì la Cina di Mao ma, per così dire, di riflesso: infatti, il maoismo può essere considerato un regime totalitario solo nella misura in cui imitò il modello sovietico. Forse, ma non ne sono del tutto sicuro, anche l’Iran di Khomeini potrebbe esser definito totalitario. Non sono soltanto la ferocia e la brutalità a caratterizzare un regime totalitario; occorrono molti altri elementi ben precisi.

Queste sono le tesi generali che provo adesso a dimostrare e concretizzare. Procederò secondo il metodo storico-comparativo, come ho già detto. Prenderemo in esame prima la Germania nazista, poi l’URSS di Stalin e, infine, se resterà un po’ di tempo, l’Italia fascista. Partiamo dal nazismo, che è la realtà totalitaria relativamente più semplice. In che senso? Innanzi tutto, perché esiste una generale concordia nel formulare un giudizio negativo sull’esperimento nazista.

Non c’è persona di normale moralità e intelligenza che non condanni senza mezzi termini Hitler e il nazismo. Senza dubbio, un tale unanime giudizio di valore facilita il compito degli studiosi. Inoltre, come vedremo, il regime hitleriano fu assai più omogeneo di altri. Infine, possediamo tanti studi seri sulla Germania nazista.

Se devo consigliare a un mio studente qualche buon libro su tale argomento, non ho difficoltà, mentre invece non saprei suggerire una bella e chiara sintesi sul fascismo italiano, un libro cioè che faccia capire cos’è stato il fascismo italiano e qual è il suo posto nella storia d’Italia. Per non parlare del comunismo sovietico, sul quale esistono istruttivi studi parziali relativi a singoli aspetti, ma mancano sintesi intelligenti e attendibili. Un’analoga considerazione vale per le fonti.

Il materiale documentario sull’Unione sovietica è solo da poco copioso e accessibile; fino ad una dozzina d’anni fa ci si doveva avventurare nel campo delle ipotesi. Invece, per quanto riguarda la Germania nazista, dopo la sconfitta del 1945 gli storici avuto accesso all’intera documentazione, il che ha permesso loro di rivelare tutte le malefatte del regime.

Anche il progetto totalitario del nazismo fu, come dirò subito, abbastanza semplice; e l’intera parabola storica della Germania hitleriana fu improntata ad una sinistra linearità. Non fu così per il fascismo italiano, assai più camaleontico e proteiforme. Lo stesso comunismo sovietico sfugge ad una catalogazione semplicistica. Ciò non significa che, anche riguardo al nazismo, non vi siano controversie storiografiche.

Ad esempio, si discute se il nazismo abbia avuto radici nella storia tedesca di lungo periodo o sia stato invece un fenomeno recente. Non meno controverso è il ruolo avuto da Hitler nella crescita del movimento nazionalsocialista e, soprattutto, nell’edificazione del regime nazista. Qualcuno ha addirittura definito Hitler un «dittatore debole». Partiamo proprio dalla personalità di Hitler. Ciò ci consentirà d’esaminare un primo importante aspetto del totalitarismo, la presenza cioè d’una personalità di spicco che diviene capo carismatico.

Hitler senza dubbio lo fu. Possiamo seguire la sua carriera, i suoi sogni sinistri e la sua visione del mondo attraverso un testo che ce li svela: è la sua celebre autobiografia Mein Kampf. Quasi nessuno l’ha letta integralmente, perché è prolissa e noiosa (oltre che raccapricciante): settecento pagine cupe e sinistre.

Ma chi trova la forza di studiarla dalla prima all’ultima riga, capisce la mentalità e l’universo ideologico di questo personaggio storico, che tanto ha influito sugli eventi del XX secolo.  Conosce altresì le esperienze di Hitler, avvenute nella bellissima e civilissima Vienna degl’inizi del Novecento (dove si avevano anche fenomeni inquietanti come il razzismo e l’antisemitismo, dove operavano gruppuscoli che stampavano una rivista – «Ostara» – dall’eloquente sottotitolo «Rivista per biondi»). Hitler leggeva avidamente i fascicoli di «Ostara», che erano tra le fonti del suo pensiero (oltre al pangermanismo tedesco e austriaco).

Nel pensiero del futuro Führer non troviamo elementi originali: egli assimilò la sottocultura che esisteva allora in Europa e che, pur essendo ai margini della grande cultura, sarebbe diventata sempre più agguerrita e invadente. A Vienna Hitler ebbe anche modo d’osservare la grande forza organizzata della socialdemocrazia austriaca, che incuteva paura ad un piccolo borghese come lui: ne studiò la struttura organizzativa, la capacità d’azione e le tecniche di propaganda.

Vi fu poi l’esperienza decisiva della prima guerra mondiale. Hitler dice nel Mein Kampf che è un vero uomo solo colui che ha fatto il servizio militare ed è stato in guerra. Egli partì volontario e combatté per tutta la durata della guerra, fu un soldato modello temprato dalla vita di trincea. Nel dopoguerra, a Monaco di Baviera, Hitler scoprì d’essere un uomo politico e, tenendo i primi comizi – lo racconterà nell’autobiografia – si accorse di saper parlare e incantare le folle.

A questo punto un partitino (il partito operaio tedesco, DAP), che non poteva sperare in grandi successi, venne da lui trasformato nel terribile partito nazionalsocialista (NSDAP). La DAP era un partito dal programma confuso e pasticciato; ma, nelle mani di Hitler, bravissimo politico, si trasformò sul piano politico e organizzativo.

In Hitler scopriamo una doppia personalità: da un lato egli fu ossessionato per tutta la vita dai miti più macabri (razzismo, antisemitismo, pangermanismo, eugenetica). Dall’altro lato, almeno fino agli ultimi mesi, quando perse del tutto il contatto con la realtà, egli ebbe un fiuto acutissimo, nonché una grande capacità di comunicare e trasmettere la sua volontà, di scegliere i collaboratori. Un uomo abilissimo e volitivo, che si giovò delle sue grandi doti politiche per attuare un programma fosco e surreale: ciò spiega come abbia potuto prodursi l’orrore storico che ci riempie di sgomento.

Cerchiamo, a questo punto, di enucleare i primi tratti caratterizzanti del totalitarismo. E’ facile individuare, nel Mein Kampf, un ben preciso progetto totalitario. Il progetto totalitario non è un programma politico, cioè una serie di concrete e specifiche misure che un gruppo di uomini, riuniti in partito o comunque tra loro associati, si propone di mettere in atto. Nel Mein Kampf troviamo una complessiva visione del mondo.

Hitler espone la sua interpretazione della storia umana, della natura, perfino dei rapporti tra i sessi e del ruolo della donna nella società. Il programma politico, globale e totalizzante, discende da una siffatta visione. Questo è il progetto totalitario, che è anche il primo presupposto del totalitarismo. Occorre cioè un progetto generale e globale di trasformazione della realtà politica e sociale (che, nel caso dei bolscevichi, sarà anche di dominio dell’uomo sulla natura).

Hitler non si propose di mutare la realtà naturale, ma di plasmare e soggiogare gli uomini: cambiare la società, eliminare gli elementi deboli, gli zingari, gli ebrei, ecc. E’ un progetto folle ma globale. Nella vita di tutti giorni può capitare di incontrare un mentecatto che ha strane e farneticanti visioni; ma non per questo parliamo di totalitarismo. Insomma, si può avere una visione totalitaria; ma ciò non basta; occorre anche un contesto storico adatto perché essa possa tradursi in fatti concreti e realizzarsi.

Se oggi qualcuno sognasse, ad esempio, di riportare l’Italia all’anno Mille, cioè in pieno Medioevo, con tutta la sua capacità e forza di volontà non riuscirebbe a mettere in atto tale programma. Perché un progetto totalitario trionfi, sono necessari sia un contesto storico favorevole sia la capacità di realizzarlo: capacità politica e organizzativa, capacità di scegliere i collaboratori che fanno alla bisogna, capacità di mobilitare la gente.

Hitler aveva tali doti. Per fare almeno un nome, Goebbels, il genio della propaganda nazista, all’inizio era filocomunista (anche se non sempre ciò viene ricordato). All’inizio del 1926, quando faceva parte dell’ala sinistra della NSDAP, scriveva nel suo diario: «Perché noi nazionalisti dobbiamo combattere i comunisti?», «meglio il bolscevismo della schiavitù capitalistica».

Ecco cosa pensava allora del futuro Führer: «Ma che specie di Hitler è mai questo? Un reazionario?». Eppure, Hitler riuscì ad ammaliarlo e tirarlo dalla sua parte. Nell’estate 1926 Goebbels definiva il capo del partito «un genio», annotando nel suo diario: «Di fronte a lui io mi sento come paralizzato. Hitler è così: come un bambino, amabile, buono, misericordioso. Come un gatto, scaltro, furbo, abile; come un leone, grandiosamente ruggente e gigantesco. Insomma, un vero uomo».

Joseph Goebbels, laureatosi in filosofia nella prestigiosa università di Heidelberg, era l’unico intellettuale tra i gerarchi del partito nazionalsocialista. Hitler aveva assoluto bisogno di lui, essendo tutti gli altri suoi collaboratori e compagni d’arme rozzi e quasi illetterati. Se Hitler non l’avesse conquistato politicamente, Goebbels sarebbe rimasto nell’ala sinistra del partito (quella che sarà poi eliminata nella «notte dei lunghi coltelli»). Goebbels ebbe un ruolo importante, perché fu lui a inventare le formule e le tecniche propagandistiche di maggior successo, che tanto contribuirono all’ascesa del nazionalsocialismo e al consolidamento del regime.

Già prima dell’ascesa al potere, durante le campagne elettorali, Hitler giungeva dall’alto, in aereo, nella località dove avrebbe arringato la folla. Fu coniato lo slogan Hitler über Deutschland (Hitler sopra la Germania). L’inno del partito era Deutschland über alles (la Germania sopra tutto); di qui la formula e l’immagine di Hitler sovrastante la Germania, anche fisicamente. Possiamo vederlo in alcuni documentari e nel film di Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà: Hiter arriva a Norimberga in aereo, planando lentamente, come un Dio che scende dall’alto. Per immaginare tutto ciò e inventare una così raffinata tecnica pubblicitaria, ci voleva un propagandista sveglio e scaltro come Goebbels.

Nella moderna società di massa le tecniche pubblicitarie occupano un posto importante. Hitler seppe cogliere questo aspetto essenziale del mondo contemporaneo, descritto sin dalla fine dell’Ottocento da sociologi e psicologi. Ricordo qui almeno un pensatore, Gustave Le Bon, perché il suo libro La psicologia delle folle (1895) ebbe grande influenza su Hitler (il quale, senza citarlo, lo parafraserà e scopiazzerà in un capitolo del Mein Kampf).

Secondo Le Bon, sul piano psicologico la folla non rappresenta la somma degl’individui che la compongono, perché in essa «la personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità si orientano nella medesima direzione»: «si forma così un’anima collettiva, senza dubbio transitoria, ma con caratteristiche molto precise».

L’anima irrazionale della folla (cioè della massa), descritta da Le Bon, attirò Hitler; così come l’attirò il rapporto tra il capo e le masse (analizzato anch’esso da Le Bon), che sarà un elemento essenziale del regime totalitario. Hitler seppe cogliere la novità della società contemporanea che, essendo una società di massa, si fonda sull’uso dei mezzi di comunicazione di massa (fino all’avvento della televisione, soprattutto giornali, radio, comizi, adunate collettive) per coinvolgere e mobilitare la gente.

Il totalitarismo, lungi dall’essere soltanto un regime feroce e sanguinario, presuppone l’adesione e il coinvolgimento emotivo di larghi strati della popolazione; presuppone altresì la capacità del capo di trasmettere la sua volontà alle masse servendosi dei più moderni e raffinati mezzi di propaganda. Hitler non improvvisava, ma studiava con cura i gesti e le pose da assumere in pubblico.

Nella scalata al potere Hitler commise senza dubbio degli errori grossolani, come il fallito putsch di Monaco del 1923. Grande ammiratore di Mussolini, un anno dopo la marcia su Roma egli volle tentare la marcia su Berlino partendo da Monaco. Dopo l’insuccesso, capì che non era quella la strada per giungere al potere.

Un altro, magari, sarebbe uscito con le ossa rotte dopo il fallimento del tentativo insurrezionale. Hitler, invece, imparò la lezione e assunse una tattica legalitaria. Da allora egli decise di mostrarsi in doppiopetto, pur mantenendo l’apparato paramilitare del suo partito (le SA e le SS). Esibizione di forza nello scontro con socialdemocratici e comunisti, ma allo stesso tempo professione di fede legalitaria di fronte ai nazionalisti e ai conservatori: fu questa la strategia da lui adottata e che risulterà efficace.

In effetti Hitler andò al potere per vie legali, vincendo le elezioni. Hitler fu dunque un politico abile e scaltro, non un pazzoide qualsiasi. Come avrebbe fatto altrimenti a mettere nel sacco la diplomazia europea per tanti anni? Salito al potere, Hitler riuscì ad abbindolare le cancellerie europee con mosse abilissime, realizzando un po’ alla volta il suo programma di riarmo e d’espansione territoriale della Germania: dopo ogni violazione del trattato di Versailles, si professava uomo di pace dichiarando di non voler altro.

Una siffatta tattica, usata quando la Germania era ancora debole, gli permetteva d’evitare la guerra; e quasi tutti gli credevano, anche perché nessuno voleva un altro conflitto europeo. Alla fine, però, la corda si spezzò e scoppiò la seconda guerra mondiale. Il regime nazista durò a lungo, perché era solido e godeva d’un largo consenso popolare.

Quando Hitler salì al potere, la NSDAP aveva già messo radici in Germania conquistandosi le simpatie soprattutto dei giovani (ragazzi e ragazze). Ciò spiega perché i soldati tedeschi per tanti anni abbiano combattuto lealmente, senza ribellarsi neppure quando la guerra volgeva male per la Germania. Una tale fedeltà non è da attribuire solo alla mentalità tedesca.

Hitler non riuscì a far breccia tra gli operai, molti dei quali nel 1933 erano socialdemocratici o comunisti, ma trascinò dalla sua parte altri strati sociali e soprattutto i giovani, ai quali la Hitlerjugend (l’organizzazione giovanile del partito) faceva ammalianti promesse. Ebbene, questa è senz’altro abilità politica.

Solo alla fine, a causa della sua megalomania, Hitler perse ogni contatto con la realtà interna e internazionale rifugiandosi nel suo mondo di perverse visioni. Spero che, dopo quanto detto finora, comincino ad emergere i tratti fondamentali e caratterizzanti del totalitarismo:

· progetto totalitario
· moderna società di massa
· presenza d’un capo carismatico
· rapporto tra il capo e le folle
· ricorso ai più sofisticati mezzi di propaganda

Per realizzare un progetto totalitario non ci vuole solo la forza più brutale, ma occorre altresì la mobilitazione ed il consenso di larghi strati della popolazione. E’ necessario un lungo lavoro di preparazione e di propaganda. Semplificando, potremmo dire che nella Germania nazista la ferocia fu rivolta soprattutto verso l’esterno, perché all’interno il regime godeva d’un ampio consenso. Il consenso popolare permise al regime hitleriano di consolidarsi e di reggere a lungo. Ciò non significa che non vi sia stata un’opposizione interna (aperta o sotterranea) e che lo Stato nazionalsocialista non abbia creato un temibile e capillare apparato repressivo.

Tuttavia, in Germania furono arrestate o fucilate solo poche migliaia di persone: niente di paragonabile, insomma, agli orrori dello stalinismo. Se il programma nazista mirava a sterminare gli ebrei e ad espandersi fuori dei confini tedeschi per realizzare il «nuovo ordine europeo», bisognava usare la più ferina violenza, perché tali obiettivi avrebbero suscitato la resistenza delle vittime e dei popoli sottomessi.

Quando le truppe tedesche occupavano altri paesi, usavano i mezzi più barbari per domare l’inevitabile ribellione delle popolazioni locali. Il consenso e la repressione sono ambedue strumenti essenziali del regime totalitario.

*  *  *

Passiamo ora ad esaminare il caso sovietico, che comincia ad essere assai più complicato. Anche qui dobbiamo trovare una personalità carismatica, un progetto totalitario, la volontà e capacità di realizzarlo, e via dicendo. Il regime è durato in Russia settant’anni; ma chi deve esserne considerata la persona più eminente? Lenin o Stalin?

Se entrambi, come pare fuor di dubbio, bisogna analizzare il rapporto tra i due: vi fu continuità o di rottura tra la politica di Lenin e quella di Stalin? E che ruolo ebbero gli altri protagonisti tutt’altro che secondari, come Tockij e Bucharin? Trockij, ad esempio, fu un personaggio di primissimo piano. Fu lui il vero artefice della rivoluzione d’Ottobre e il creatore dell’armata rossa.

Dobbiamo annoverare anche lui, che negli anni ’30 definì «totalitario» il regime di Stalin, tra i fondatori del totalitarismo sovietico? Per quanto riguarda il progetto totalitario, il programma del partito bolscevico prima del 1917 era molto simile a quello di molti partiti socialisti europei e, quindi, non era totalitario. Possiamo magari definirlo, per certi versi, dottrinario; sarebbe tuttavia improprio ed esagerato chiamarlo totalitario. Era un ambizioso programma di trasformazione della società, diviso in una parte minima da realizzare a breve scadenza (nell’ambito cioè della società borghese) e una parte massima (da attuare dopo la vittoria della rivoluzione proletaria).

Quando e perché cambiò il programma bolscevico? Anzitutto, per effetto della guerra mondiale, che produsse una metamorfosi nel bolscevismo. Fino al 1914 Lenin non era certo un democratico, come noi l’intendiamo, ma accettava la repubblica parlamentare borghese come primo passo nel cammino verso il socialismo.

Lenin ammirava la grande forza organizzata e le conquiste della socialdemocrazia tedesca e si augurava che la Russia zarista, autocratica e arretrata, raggiungesse il livello politico-sociale ed economico della più progredita Europa. Questa era la sua visione fino al 1914. Solo dopo lo scoppio della grande guerra Lenin si prefiggerà l’obiettivo di distruggere la civiltà politica dell’occidente democratico, da lui apprezzata negli anni giovanili. Che cosa significarono quei cinque anni di guerra generale e ininterrotta?

Uno storico ha parlato di «brutalizzazione della vita» per spiegare le terribili conseguenze, anzitutto antropologiche, della prima guerra mondiale. Quei lunghi anni, che milioni di uomini trascorsero in trincea a uccidere e a morire, rischiarono di sommergere l’intera civiltà europea. Non è esagerato parlare di profonda mutazione antropologica.

Milioni di ex combattenti non s’adattarono facilmente alla vita civile, dopo la terribile esperienza bellica. Ciò spiega il clima di violenza e di guerra civile che si respirò un po’ dappertutto in Europa, con i frequenti omicidi politici e i reiterati tentativi insurrezionali, insomma con il generale ricorso alla forza nei conflitti politici e sociali. Fu questo il terreno di coltura del totalitarismo.

In molti paesi europei ebbero luogo, nel dopoguerra, tentativi di putch e conati rivoluzionari. In un siffatto clima di generale violenza, prodotto dalla guerra, maturò anche la metamorfosi del bolscevismo. Il leninismo, tuttavia, non va considerato un fenomeno semplice e facile da spiegare, né può essere etichettato come «totalitario». Il partito di Lenin diede prova della più spaventosa ferocia, ma fu anche il frutto della grande violenza della prima guerra mondiale. Può far comodo definire totalitario il «leninismo».

Ma dobbiamo domandarci: quale Lenin? Il giovane marxista impegnato nella polemica contro i populisti russi? L’ammiratore di Kautsky e della Seconda Internazionale? Il giacobino promotore dell’insurrezione d’ottobre? Il rivoluzionario anarchico che esaltava la creatività delle masse e vagheggiava la distruzione dell’apparato statale? Lo spietato creatore della tirannide sovietica?

Lenin fu un pensatore e un uomo d’azione proteiforme e, per certi versi, inafferrabile. Se l’analizziamo con cura, scopriamo nel «leninismo» diversi e contrapposti strati. Un compagno d’arme del supremo capo bolscevico parlò del suo «geniale opportunismo». E’ un giudizio azzeccato, che coglie un aspetto fondamentale della complessa personalità politica del fondatore del bolscevismo.

Fu, quella di Lenin, solo doppiezza tattica? In realtà, nella sua battaglia politica Lenin assimilava, di volta in volta, la dottrina che meglio si confaceva alle necessità del momento, cercando di dare ad essa dignità teorica. Questi diversi e persino contradditori ingredienti sono tutti parte integrante del leninismo; ciascuno di essi veniva tirato fuori e utilizzato al momento opportuno, per esser poi accantonato (ma quasi mai ripudiato) quando non serviva più.

In ogni caso, dopo il 1914 Lenin ripudiò il marxismo della Seconda Internazionale, che ravvisava nella repubblica democratica una fase necessaria nella lotta per il socialismo. Per lui la democrazia parlamentare e borghese non poteva più esser considerata un’autentica democrazia: quest’ultima doveva essere diretta e proletaria, basata sui soviet (anche se il partito restava lo strumento principe della rivoluzione e dell’edificazione socialista).

Bisogna individuare e analizzare con attenzione i non pochi mutamenti, grandi e piccoli, nella visione politica e nella strategia di Lenin. Mentre la carriera politica di Hitler, al di là delle repentine svolte tattiche, fu contraddistinta da una sinistra coerenza dall’inizio alla fine, nel bolscevismo e nel comunismo sovietico notiamo invece una serie di profonde metamorfosi.

Negli anni del cosiddetto «comunismo di guerra», nel periodo cioè che va dalla primavera 1918 all’inizio del 1921, emerse il primo progetto totalitario nella storia dell’Unione sovietica. Cosa fu e cosa si proponeva il comunismo di guerra? I bolscevichi intendevano attuare una celere e globale trasformazione dell’intero ordinamento economico-sociale e politico, nazionalizzando tutti i mezzi di produzione e instaurando la dittatura del partito.

Il progetto fallì, perché in Russia v’erano decine di milioni di contadini, ossia di piccoli produttori indipendenti. La cosiddetta guerra civile russa fu soprattutto una guerra tra il partito comunista, che mirava a statalizzare anche il settore agricolo, e i contadini, che intendevano disporre liberamente della terra e dei suoi prodotti. La guerra tra «bianchi» e «rossi», che ha sempre attirato l’attenzione degli storici, fu meno importante e decisiva.

E’ lecito parlare di realtà totalitaria in questa fase parte della storia sovietica? A me sembra di no, perché allora nel partito bolscevico v’erano ancora correnti e fazioni in competizione l’una con l’altra. I più eminenti intellettuali bolscevichi erano sì fanatici e dottrinari ma, essendo d’estrazione piccolo-borghese, avevano un buon livello d’istruzione, erano abituati alle dispute interne e conoscevano l’Europa occidentale per avervi soggiornato.

Pur compatti e uniti contro i nemici (veri o presunti), i comunisti russi polemizzavano all’interno del partito e, nei congressi, presentano mozioni diverse e contrapposte. Ciò non accade in un regime totalitario, dove regna un capo indiscusso (o, in ogni caso, le tensioni e le dispute tra i massimi gerarchi non sono rese pubbliche). Lenin cominciava già allora ad esser venerato dai suoi seguaci; ma, pur godendo d’indiscussa autorità morale, non esercitava un’incontrastata supremazia politica e poteva anche esser messo in minoranza nelle votazioni.

Il comunismo di guerra ebbe termine senza che fossero stati realizzati tutti i suoi obiettivi. Anzi, la «nuova politica economica» (NEP), introdotta dopo la primavera 1921, dovette fare non poche concessioni ai contadini e smantellare il comunismo di caserma costruito negli anni precedenti. Geniale è la definizione che della NEP diede Pasternak nel romanzo Il dottor Živago: «il periodo più falso e ambiguo nella storia dell’URSS».

In effetti, la NEP fu caratterizzata da un embrionale pluralismo economico e sociale, che ridava spazio agli agricoltori indipendenti e tollerava la piccola e media industria non statale, lasciando allo Stato le grandi aziende e il commercio con l’estero. Nello stesso tempo, diveniva sempre più rigido il monopolio politico del partito comunista il quale, oltretutto, andava trasformandosi in una mastodontica organizzazione di massa retta da apparato burocratico e gerarchico

Il massimo artefice di tale processo di burocratizzazione fu Stalin, il quale comprese meglio di tutti il ruolo del partito in una moderna società di massa. Lenin e Trockij erano, in fondo, dei rivoluzionari ottocenteschi, che non si rendevano conto dei tratti peculiari della società contemporanea. Stalin, invece, al pari di Hitler e Mussolini, grazie al suo formidabile intuito capì cosa fosse e come andasse guidata la società di massa.

Nelle note scritte da Stalin all’inizio degli anni Venti leggiamo: «Per attuare praticamente la direzione dell’avanguardia della classe, vale a dire del partito, è indispensabile che il partito si circondi di una larga rete di organismi di massa non di partito, i quali sono nelle sue mani le antenne con le quali esso trasmette la sua volontà alla classe operaia, mentre la classe operaia si trasforma da massa dispersa in esercito del partito».

Quali sono queste «cinghie di trasmissione che uniscono il partito alla classe»? Sono i sindacati, le cooperative, le associazioni della gioventù, le scuole politiche per la preparazione dei quadri, la stampa (che «è lo strumento più forte mediante il quale il partito quotidianamente, ora per ora, parla con la classe operaia»), l’esercito (visto come «centro di raccolta degli operai e dei contadini»).

Trockij, Bucharin, Zinov’ev e gli altri bolscevichi della vecchia guardia intellettuale rimasero dei tribuni rivoluzionari, mentre fu Stalin a intuire la fondamentale importanza di moderni apparati che trasmettessero la volontà del partito dall’alto verso il basso. Negli anni della sua segreteria vennero create le scuole di partito, che dovevano indottrinare i militanti bolscevichi spiegando loro i canoni del «materialismo dialettico» e del «materialismo storico». In tal modo, chi aderiva al partito, non ne accettava solo il programma politico, ma abbracciava altresì una visione generale del mondo e della storia umana.

La NEP fu una parentesi ambigua nella storia dell’URSS, perché il rudimentale pluralismo economico e sociale di quegli anni fu promosso e gestito da un partito che veniva sempre più irrigidendosi e assumendo tratti totalitari. Comunque, neppure nel periodo della NEP riusciamo a scorgere, chiare e distinte, le stimmate del totalitarismo. Il totalitarismo sovietico s’affermò a partire dalla fine degli anni Venti, quando il partito bolscevico pose termine all’esperimento della NEP e diede l’avvio ai piani quinquennali e alla collettivizzazione forzata.

Stalin fu il grande artefice di tutto ciò. Fu lui a creare il regime totalitario. Lenin e Trockij non ne erano capaci perché, pur mostrandosi spietati con gli avversari politici, non sapevano organizzare e mobilitare le masse in senso totalitario. Certo, con la sua brillante e travolgente oratoria Trockij poteva elettrizzare le folle di seguaci bolscevichi; e con la sua abilità e ferocia aveva saputo mantenere la disciplina nell’armata rossa. Ma tali doti non bastano a creare un regime totalitario.

Abbattendo la NEP ed eliminando i piccoli produttori indipendenti, Stalin forgiò nel giro di pochissimi anni la società sovietica creando le strutture del regime totalitario. Forse non tutti sanno che Trockij era fautore del mercato perché convinto che, almeno per un certo periodo, la pianificazione socialista non avrebbe potuto farne a meno. Stalin e i suoi seguaci, invece, volevano abolire di colpo il mercato e sottomettere tutti i piccoli produttori indipendenti, anche se ciò comportava una durissima guerra contro decine e decine di milioni di contadini.

Per realizzare un così audace e barbaro progetto, che comportava la lotta senza quartiere contro gli abitanti delle campagne, occorrevano la più incrollabile determinazione e il ricorso alla più selvaggia violenza. Ci voleva, certo, anche il fanatico entusiasmo di giovani militanti comunisti, convinti di combattere contro il «nemico di classe».

Nel complesso, solo pochi strati sociali – membri della gioventù comunista e operai indottrinati – aderirono con passione a quella che la propaganda del partito chiamava pomposamente l’«edificazione del socialismo». Il grosso della popolazione subì, ora con la resistenza passiva ora con l’aperta ribellione, la forsennata offensiva scatenata dal partito comunista contro l’intera società.

L’attacco fu condotto in grande stile e con tutti i mezzi: pressioni economiche, arresti e deportazioni in massa, fucilazioni sommarie. I contadini – i quali, in Russia come altrove, erano legati alla loro terra e al loro bestiame, nonché al proprio modo di lavorare e di produrre – non potevano accettare supinamente la violenza abbattutasi su di loro. Entrando nelle fattorie collettive, avrebbero perso ogni identità, oltre ai loro piccoli ma preziosi beni materiali. Resistettero come poterono, prima di soccombere nella guerra contro lo Stato bolscevico.

La guerra fu totale. Dopo aver sperimentato tutti i mezzi, il regime comunista non arretrò dinanzi alla misura più crudele e raccapricciante: per domare l’opposizione contadina, Stalin e i massimi gerarchi comunisti decisero di far morire di fame milioni di contadini. Il sistema sovietico si formò in un brevissimo lasso di tempo, tra la fine degli anni ’20 e la metà degli anni ’30, con la violenta collettivizzazione e con i primi due piani quinquennali.

Il sistema economico-sociale così creato resterà pressocché immutato, salvo alcuni ritocchi, fino alla sua dissoluzione nel periodo gorbacioviano. Proviamo ad immaginare decine di milioni di persone, che da un giorno all’altro vedono cambiare la loro vita, il loro modo di produrre, le loro relazioni umane e sociali. La resistenza non può essere che accanitissima; e, per domarla, occorre l’uso della forza più bruta. Così, con il ferro e con il sangue, venne forgiato il sistema sovietico.

Ma se la violenza ne fu l’ingrediente principale, il totalitarismo comunista conobbe anche un certo grado di consenso: non all’interno del paese, dove solo esigui strati della popolazione sostennero fanaticamente la barbara avventura della collettivizzazione e della completa statalizzazione dell’economia. Il maggior consenso il comunismo sovietico l’ottenne fuori dai confini dell’URSS, tra molti lavoratori e tra l’opinione pubblica «progressista» del mondo occidentale.

Il mito dell’URSS, il più grandioso e fascinoso mito sociale del XX secolo, ebbe un ruolo fondamentale nel consolidamento e nella crescita del comunismo sovietico. Il fatto che tanti lavoratori e intellettuali dei paesi capitalistici credessero nelle favole della propaganda comunista, chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà, si rivelò per il regime di Stalin un potente surrogato del debolissimo consenso interno.

Quando crollò il mito dell’URSS? Dopo il patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, molti simpatizzanti del comunismo sovietico in occidente apparvero delusi e smarriti. Persino Trockij, il quale viveva in esilio all’estero, condannò duramente la collaborazione tra la Germania nazista e l’URSS di Stalin.

I comunisti francesi, il cui paese era in guerra contro i tedeschi, si trovarono in difficoltà e furono malvisti dall’opinione pubblica; per giustificarsi, essi dovettero blaterare che anche la Francia era una potenza imperialistica al pari della Germania. Ebbe allora inizio la decomposizione del movimento comunista internazionale. Ma poi accadde un miracolo insperato. Attaccando l’Unione Sovietica, Hitler salvò Stalin e il comunismo, che apparvero così agli occhi del mondo intero vittime del nazismo e difensori dell’umana civiltà.

L’«operazione Barbarossa» (come fu chiamata la campagna militare tedesca contro l’URSS) consolidò l’impopolare e pericolante regime comunista, mantenendolo in vita per mezzo secolo. I contadini sovietici – soprattutto ucraini –, i quali speravano in una liberazione da parte dei tedeschi, s’accorsero presto che gli occupanti nazisti li consideravano appartenenti ad una razza inferiore e da schiavizzare.

Fu per loro giocoforza concludere che, quasi quasi, il regime di Stalin era meno odioso e bestiale di quello nazista e che il suolo patrio andava difeso contro l’aggressore. Ciò nonostante, non furono pochi gli episodi di collaborazionismo con il nemico, spiegabili con l’impopolarità del regime comunista.

Il mito dell’URSS assunse dimensioni spettacolari dopo la vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale: l’Unione Sovietica fu magnificata dai comunisti e dai «progressisti» come il paese del socialismo, che aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista.

Quel mito è duro a morire talché, ancor oggi, quando un comunista non sa più quale argomento tirar fuori in difesa dell’URSS, se ne esce dicendo che Stalin ebbe almeno il merito di distruggere Hitler e il nazismo (dimenticando i due anni di stretta collaborazione tra la Germania e l’Unione Sovietica e ignorando che Stalin metteva sullo stesso piano le democrazie occidentali e la Germania nazista). Quel mito, in ogni caso, si rivelò efficacissimo e costruì un grande consenso intorno all’URSS.

Dopo il 1945 il mito di Stalin contagiò anche i russi i quali, pur vivendo male e patendo la fame, si sentivano padroni del mondo. Il soldato russo che marciava su Berlino e poteva vendicarsi dell’aggressione nazista al suo paese, stuprando le belle Fräulein tedesche, provava una grande soddisfazione personale e sciovinistica.

Invece i popoli non russi dell’Unione sovietica, come lituani o ucraini, continuarono a detestare il regime comunista che, oltretutto, perpetuava il predominio dell’etnia granrussa nell’Unione Sovietica. Il mito dell’Urss grandeggiò fino alla morte di Stalin, poi andò pian piano scemando. Le crepe, che dapprima sembravano piccole e limitate, portarono alla fine al crollo del sistema.

L’URSS si dissolse non per l’esaurimento della «spinta propulsiva» (che in realtà fu attiva solo nella fervida immaginazione dei propagandisti e degli ammiratori del comunismo sovietico), ma perché sin dalla sua nascita il sistema era oppressivo e bacato.

Quello che Gorbaciov si trovò a gestire quando salì al potere era un sistema putrescente, che non aveva neppure più il consenso dell’opinione pubblica «progressista» del mondo occidentale. Persino i partiti comunisti cominciavano a prendere le distanze dall’Unione sovietica. Senza che gli osservatori se ne avvedessero, abbagliati com’erano dalla potenza militare dell’URSS e dall’apparente stabilità interna, il sistema sovietico entrò in una lunghissima e quasi interminabile agonia dopo la morte di Stalin, che segnò anche la fine del periodo totalitario nella storia del comunismo.

Incrinatosi il mito di Stalin in seguito alla denuncia dei suoi crimini da parte di Krusciov, nessuno dei suoi successori seppe rincollare i cocci rotti dell’abbagliante leggenda politico-sociale, che aveva costituito la maggior forza d’attrazione del comunismo sovietico. Sebbene persistesse ancora a lungo, tenuto in vita dalla propaganda comunista in Russia e in occidente, il mito dell’URSS non fu più in grado di ridare alla «patria del socialismo» il prestigio e il consenso, di cui essa aveva goduto all’epoca dello stalinismo trionfante.

Man mano che s’indeboliva e si esauriva il suo mito fondante, il comunismo sovietico sembrava sempre più orbo e monco mostrando le crepe interne e i difetti strutturali: debolezza economica, penuria di beni di consumo, odiosi privilegi sociali, mancanza di libertà, malcontento delle nazionalità non russe.

Il regime, pur non essendo più totalitario, restava oppressivo e dittatoriale. Venuto meno il consenso, interno e internazionale, la Russia comunista era destinata a crollare o a liquefarsi. Per una serie di ragioni, che non posso ora ricordare, il processo di dissoluzione dell’URSS e del comunismo avvenne in forme pacifiche, senza guerre esterne né convulsioni interne.

Il mostro che, da vivo, aveva richiesto uno spaventoso tributo di sangue umano, al momento dell’agonia non pretese – per fortuna – ulteriori vittime sacrificali.