Crisi della famiglia, crisi del soggetto

identità_genereStudi Cattolici n.645 Novembre 2014

La frammentazione del gender

Crisi di genere, crisi della famiglia, crisi di identità. Con l’imporsi della cultura relativista che estremizza l’individualismo nell’affermazione totale dell’io, si sono gravemente compromesse le trame del tessuto sociale, a partire dal nucleo centrale della famiglia.

La frammentazione del tessuto sociale, in quella che il sociologo Baumann ha con efficacia definito la società liquida, oggi passa attraverso il tentativo di legittimazione della teoria del gender, che cancella i due generi naturali maschile e femminile, mostrando a ogni essere umano una presunta autonomia demiurgica di programmazione del proprio essere, che passa anche da nuove forme di convivenza e di adozione.

Fabiana Cristofari, dottore di ricerca in Scienze, Tecnologia & Diritto e docente di Bioetica, addentrandosi con efficacia nella casistica e nella problematica, svela come dietro a questa possibilità manipolatoria ci sia solo un essere decostruito della propria personalità in prospettiva nichilista.

In un contesto, come quello attuale, in cui tutto sembra convergere verso la soddisfazione narcisistica e autoreferenziale dell’io, emerge l’esigenza di approfondire il tema dell’identità a partire da ciò che più propriamente la costituisce: la dimensione relazionale. In tal senso, i due termini identità e relazione non sono se non l’uno speculare all’altro, il che significa che se da una parte è possibile per l’uomo attingere al senso della sua identità solo nell’apertura relazionale, dall’altra l’identità dell’uomo corrisponde in larga parte alla sintesi della qualità delle sue relazioni.

Nelle presenti riflessioni quest’aspetto avrà una sua declinazione specifica a partire dalle provocazioni del gender cui oggi è sottoposta la famiglia quale primo àmbito relazionale di formazione dell’identità individuale. In questo contesto, vorrei poter mettere in luce non solo come il processo d’identificazione dell’io (il processo di formazione dell’identità soggettiva) sia strettamente connesso alle dinamiche relazionali famigliari, ma come ciò valga anche al contrario e come l’erosione della famiglia cui oggi stiamo assistendo vada inquadrata all’interno di un ben più ampio fenomeno.

L’erosione nichilistica

Si tratta dell’erosione nichilistica della stessa identità soggettiva che sembra progressivamente passare dal rifiuto dei vincoli del corpo (e, con esso, dei vincoli di genere) al rifiuto di ogni vincolo in quanto tale, verso orizzonti che richiamano alla dimensione della liquidità (1) più cangiante. Ma se da una parte quest’ultima sembrerebbe far aumentare le possibilità di scelta, dal momento che implica la rinuncia a ogni criterio condizionante, dall’altra questa rinuncia ha un prezzo. Il trionfo dell’ambiguità identitaria (ambiguità dell’ esserci) e, dunque, la rinuncia al ruolo e alle conseguenti responsabilità riduce inevitabilmente la dimensione coniugale (l’esserci-con) all’istante, compromettendo nello stesso tempo la dimensione generativa e oblativa (l’esserci-per) dell’uomo e della donna.

Ecco perché contrastare questa «magnifica progressione» di «pretesa liberazione da ogni vincolo» mantiene oggi più che mai un alto valore, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che consentono l’apertura alla generatività e all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della liquidità che, inevitabilmente, condanna l’uomo alla propria dimensione autoreferenziale (allontanandosi dalla sua verità relazionale).

La crisi dell’esserci (la crisi identitaria) è da tempo attestata su vari livelli, ma mai come oggi era stato avanzato il tentativo programmatico di destrutturare l’identità dall’interno mettendo in discussione il primo dato a partire dal quale ogni soggetto si costituisce nell’io: l’esistere come corpi incarnati che caratterizzano l’io nella differenza dell’essere maschile e femminile.

Oggi, al contrario, parlare di identità maschile e di identità femminile è estremamente contro tendenza lì dove si sta diffondendo, non solo nell’immaginario collettivo ma, ancora di più, all’interno di gran parte dei documenti internazionali e in molti filoni del pensiero filosofico e psicologico, l’idea di un soggetto asessuato in cui ogni differenza biologica sia annullata in vista dell’indifferenziazione sessuale.

Sono le teorizzazioni del pensiero gender, assunto dal femminismo americano, che permeano il linguaggio comune (facendo del concetto «unisex» la parola d’ordine), ogni struttura concettuale e molte decisioni in campo giuridico e politico dove si riscontra, sempre più di frequente, la sottolineatura dell’irrilevanza della differenza sessuale e la cancellazione di qualsiasi riferimento all’uomo e alla donna a favore di un generico riferimento alla categoria del «genere umano» come sessualmente indifferenziato.

A titolo esemplificativo, è interessante notare come il Quebec ha soppresso nel proprio codice civile le categorie di padre e di madre a beneficio della nozione di «fornitore di materiale genetico» (artt. 538 ss. Codice Civile del Quebec) e, nel codice civile spagnolo, la precedente formulazione dell’art. 44, secondo cui «l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio», è diventata «qualunque persona ha diritto a contrarre matrimonio»; l’art. 66 è passato da «il marito e la moglie sono uguali nei dirit­ti e nei doveri» a «i coniugi sono uguali nei diritti e nei doveri» e l’art. 67 infine ha sostituito «il marito e la moglie debbono rispettarsi e aiutarsi reciprocamente» con «i coniugi», ai quali ora questi stessi doveri sono imposti.

Infine, la Svizzera, nel Cantone di Berna, ha addirittura intrapreso una censura del linguaggio con l’intenzione di sopprimere la disuguaglianza tra le parole che suonano troppo maschili o troppo femminili a favore di appellativi più neutri per cui è stato proposto di sostituire l’espressione che in tedesco suona troppo maschile «passaggio per pedoni» (Fussgängerstreifen) con «strisce zebrate» (Zebrastreifen).

Il pensiero gender

Il pensiero «gender» – assunto dalle Conferenze internazionali del Cairo (1994) e di Pechino (1995) -si è fatto promotore di un’efficacissima battaglia ideologica secondo la quale la differenza sessuale è un dato aggirabile: il fatto che nasciamo maschi o femmine è irrilevante dal momento che ciò che conta – secondo il pensiero «gender» – è ciò che diveniamo, e il divenire dipende dalla storia, dalla società, dalla cultura e dalla propria autocomprensione psicologica (da come il soggetto percepisce il proprio Sé indipendentemente dai vincoli del corpo secondo una connotazione volontaristica dell’identità soggettiva).

In tale prospettiva, possiamo essere/nascere donne e divenire donne o essere/nascere uomini e divenire uomini – e in questo senso i ruoli prodotti dalla cultura e dalla società e le scelte psichiche dell’individuo coinciderebbero con la natura -, ma è anche possibile essere/nascere donne e divenire uomini o essere/nascere uomini e divenire donne, nel senso dell’attuazione di comportamenti e dell’identificazione di ruoli sociali, ma anche fino alla completa trasformazione del corpo.

Non esisterebbe, quindi, secondo il pensiero gender, alcun legame tra sesso (differenza biologico-anatomica) e genere (identità sessuale), il quale viene inteso come «ruolo socialmente costruito» (con la conseguente eliminazione del disturbo dell’identità di genere dall’elenco dei disturbi psicologici) (2). Il genere, dunque, non può e non deve essere costretto nel sesso o rispecchiarlo; il dato naturale della differenza sessuale è considerato, secondo la matrice filosofica delle gender theories, una «trappola metafisica» da cui prendere le distanze, in quanto è ritenuta la causa principale della «cultura patriarcale».

È a partire, infatti, dal dato naturale della differenza fisica sessuale che ogni individuo viene «assegnato» socialmente alla categoria maschile o femminile e, in base a ciò, ognuno diviene ciò che la cultura ritiene che sia o debba essere (uomo o donna), pensando falsamente che tale ruolo corrisponda alla sua vera natura. È, dunque, nell’àmbito di tale assegnazione di ruoli sociali che il femminismo di genere individua la distinzione tra il ruolo «privato» (riproduttivo e domestico) assegnato alle donne e il ruolo «pubblico» (politico-economico) assegnato agli uomini, con la conseguente gerarchizzazione dei generi: la superiorità del ruolo maschile e l’inferiorità del ruolo femminile escluso dalla dimensione pubblica.

La differenza sessuale (e dunque la natura) è vista, allora, come un elemento discriminatorio da negare e combattere, in quanto ha creato e continua a determinare la fissazione di ruoli e a costruire gerarchie di potere: la famiglia fondata sul matrimonio e la femminilità – identificata con la maternità e l’accudimento domestico – sono considerate «costruzioni maschiliste» da decostruire.

L’obiettivo del femminismo di genere è quello di compiere una rivoluzione definitiva. Le femministe del gender sono d’accordo con i marxisti che il fine ultimo debba essere quello di giungere all’edificazione di una società senza classi, ma la rivoluzione deve portare alla cancellazione della distinzione in classi sessuali. La chiave per raggiungere ciò è il controllo della riproduzione dal momento che quest’ultima, nel caso della donna, determina la sua subordinazione rispetto all’uomo (3).

In tale contesto, questi obiettivi si declinano nelle campagne per riscrivere le leggi sui diritti umani utilizzando un linguaggio che le renda funzionali alla promozione dell’agenda di genere (4), il cui punto principale è l’inclusione dei diritti sessuali e riproduttivi (cfr Rapporto Estrela, Lunacek e Zuber discussi dal Parlamento Europeo): in questo senso, le femministe del gender considerano parte essenziale della loro agenda la promozione della libera scelta in questioni relative alla riproduzione e allo stile di vita.

«Libera scelta nella riproduzione» è per loro l’espressione chiave per riferirsi all’aborto procurato come diritto umano, mentre «stile di vita» mira a promuovere tutte le altre forme di sessualità (al di là dell’eterosessualità) che in ogni soggetto può mutare anche più volte nel corso della vita. In Australia oggi le persone che si registrano all’anagrafe non sono più obbligate a barrare la casella «maschio» o «femmina». L’abolizione della dichiarazione di sesso è arrivata da una sentenza storica emessa dalla Corte d’appello del Nuovo Galles del Sud (Sidney). La Corte ha accolto il ricorso dell’attivista Norrie May Welby, né uomo né donna, e ha stabilito che è legale non identificare all’anagrafe il proprio sesso al momento della registrazione.

La sentenza del tribunale ha rovesciato un verdetto precedente, secondo cui tutti devono essere registrati all’anagrafe come maschio o come femmina, escludendo la definizione di «sesso non precisato». Questo risultato giurisprudenziale non è altro che la risultante sul piano pratico di quella corrente post-modernista-decostruzionista del pensiero gender teoria queer – che arriva a sfidare la stessa distinzione eterosessuale per la promozione d’identità non fisse ma fluide che non possono essere categorizzate perché non esiste in tal senso alcuna categoria, motivo per cui è stato coniato l’acronimo Lbgt – utilizzato come termine collettivo per riferirsi a persone Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender – indicante l’esistenza di cinque sessi al di là della distinzione «uomo» e «donna»: l’elemento chiave sta nel vedere gli atti sessuali come qualcosa che costruisce da sé la propria realtà piuttosto che riflettere una sessualità biologica predefinita.

Identità & relazioni

Ma, a ben considerare, i presupposti e i propositi del femminismo di genere si rivelano inadeguati dal momento che accantonano l’esperienza che abbiamo del nostro corpo così come ci si rivela. Infatti, con il corpo vivente si realizza quella sfera di ap­partenenza così stretta che non possiamo disfarci del nostro corpo se non suicidandoci. È questa una situazione limite che ci indica come dal nostro corpo non possiamo distanziarci né allontanandoci da esso né allontanandoci da noi stessi: il nostro corpo vivente è il nostro essere e nel momento in cui l’essere umano viene considerato uomo puro e semplice, né maschio né femmina, viene colpito nel pro­fondo del suo essere.

Emblematico è, a tal proposito, il celebre caso di David Reimer, tra i più noti casi clinici dell’Università Americana e che ebbe una notevole risonanza in àmbito scientifico (alla cui situazione ci si riferisce come al «caso di Joan/John»): i suoi esiti furono portati all’attenzione pubblica della Bbc e di diverse note riviste di psicologia e di medicina.

David nacque con i cromosomi XY ma, a diciotto mesi, il suo organo genitale venne accidentalmente bruciato e staccato durante un intervento chirurgico. I genitori, incerti sul da farsi, furono attratti dalle possibilità offerte dalla clinica Johns Hopkins dove il dott. John Money effettuava chirurgia transessuale e intersessuale e sosteneva che se un bambino veniva sottoposto a un intervento chirurgico e iniziava a socializzare con un genere diverso da quello originariamente attribuito alla nascita, poteva svilupparsi normalmente, adattandosi perfettamente bene al nuovo genere e vivere felicemente.

I genitori scrissero al dott. John Money, il quale li invitò a Baltimora e così David venne in seguito esaminato alla Johns Hopkins University dove il dott. John Money consigliò di far crescere David come femmina. I genitori furono d’accordo e così i medici asportarono i testicoli, organizzarono i preliminari dell’intervento chirurgico per creare una vagina, ma decisero di aspettare fino a quando Brenda, nuovo nome del bambino, fosse più grande per poter completare l’intervento.

Brenda è stata cresciuta come una femmina ed è stata spesso esaminata e affidata periodicamente all’Istituto di Identità di Genere di John Money allo scopo di favorire l’adattamento alla nuova condizione. Gli psichiatri e i medici del luogo, convinti che vi fosse stato un errore in questa attribuzione sessuale, intervennero nel caso, che alla fine venne esaminato dal dott. Milton Diamond, un ricercatore in campo sessuale, che sosteneva la natura ormonale dell’identità di genere e che, da parecchi anni, era in aperta discussione accademica con il dott. John Money..

Questo nuovo gruppo di psichiatri e medici offrì a Brenda l’opportunità di cambiare percorso ed ella accettò. Iniziò a vivere come maschio, con il nome di David, all’età di quattordici anni. Al tempo in cui David era Brenda, John Money continuò a pubblicare relazioni che esaltavano il successo di questo caso di riassegnazione sessuale. Il caso fu di enorme rilevanza poiché Brenda aveva un fratello gemello identico e Money poteva così seguire lo sviluppo di entrambi i fratelli e presupporre un’identica costituzione genetica. Egli sosteneva che il loro sviluppo, nei due differenti generi, stava avvenendo normalmente e felicemente.

Ma le sue stesse interviste registrate, per la maggior parte inedite, hanno gettato seri dubbi sulla sua onestà. Brenda non era affatto felice, rifiutava di conformarsi ai cosiddetti comportamenti femminili ed era sconcertata e furiosa per le continue, invadenti interrogazioni del dott. Money. Un caso tra gli altri, che denota la rilevanza della corporeità nella definizione dell’Io. Ciò significa che la differenza tra maschile e femminile non appare solo una diversità anatomica che definisce un’identità sessuale: il corpo non è una realtà accessoria e strumentale di cui è possibile disfarsi, ma è elemento di specificazione che caratterizza la realtà personale dell’essere umano coinvolgendo la sfera somatica, psicologica e spirituale in maniera differente.

La sessualità umana ha, dunque, un contenuto molto più ricco di quello espresso dal termine sessuale, dal momento che dà ragione di diversità di comportamenti in àmbiti anche lontani dalla sfera sessuale che in parte sono dovuti alla cultura, ma che hanno una loro radice naturale. La forma femminile e virile della vita umana – voglio dire questa forma personale – comincia dalla corporeità, perché la realtà umana è intrinsecamente corporea. Così si tratta di una differenza che radica non tanto in ragioni di tipo culturale o primariamente educative, ma in una corporeità che si di­stingue per la finalità secondo cui è strutturata, segno di simboli e significati, a partire dalla quale l’uomo e la donna elaborano l’intera conoscenza, prospettiva e relazione con il mondo.

Ciò non significa che esistano dei tratti psicologici o spirituali attribuibili solo a uno dei due sessi, esistono però caratteristiche che si manifestano con particolare frequenza e in modo più pronunciato negli uomini e nelle donne. Non si riuscirà mai a determinare con esattezza scientifica ciò che è tipicamente maschile o tipicamente femminile, poiché natura e cultura – i due grandi fattori d’influenza – sono strettamente interconnessi.

Dunque, le differenziazioni di genere sono in certa misura variabili tra uomo e donna, ma i margini di variazione e di intercambiabilità hanno dei limiti (per la diversità biologica e in ragione dei compiti da svolgere), motivo per cui rompere con la natura biologica non aiuta né l’uomo né la donna a liberarsi. «A immagine di Dio lo creò» e «maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27).

Uomo e donna non sono un’identità duplicata, sono un’identità diversificata che si traduce a favore di un’uguaglianza ontologica (che richiama alla stessa dignità e, dunque, tutela giuridica, di opportunità ecc.) e di una complementarità relazionale dei coniugi tra loro ed educativa nei confronti dei figli.

Figli & coppie omosessuali

Risulta molto interessante, a questo proposito, la testimonianza di un professore della California State University, Robert Oscar Lopez, bisessuale e cresciuto dalla madre lesbica con la sua campagna. Davanti al Parlamento del Minnesota chiamato a legiferare sul matrimonio omosessuale, ha raccontato la sua esperienza sul Public Discourse (il giornale online del centro di ricerca The Witherspoon Institute dell’Università di Princeton) spiegando di essere bisessuale e dichiarando come i bambini «si sentono scollegati dagli aspetti legati al sesso delle persone intorno a loro, con una certa frequenza provano rabbia verso i loro “genitori” per averli privati del genitore biologico (o, in alcuni casi, di entrambi i genitori biologici), rimpiangono di non aver avuto un modello del sesso opposto, e provano vergogna o senso di colpa per il fatto di sentire un risentimento verso i propri genitori».

Questa testimonianza è rilevante alla luce delle posizioni sostenute da una parte della dottrina la quale ritiene che una legge escludente dall’accesso alla fecondazione assistita le coppie omosessuali o le donne sole sulla base del principio per cui è meglio avere due genitori piuttosto che uno soltanto, in realtà non entra nel merito della capacità educativa dei soggetti che intendono crescere il figlio. Inoltre, a questo proposito c’è chi, a supporto di tale linea di pensiero, fa riferimento ad alcuni studi americani i quali dimostrerebbero che non c’è differenza, in materia di benessere e salute mentale, tra i figli allevati in un contesto famigliare in cui siano presenti entrambe le figure genitoriali e quelli cresciuti in un contesto famigliare in cui una delle due figure sia assente o i genitori siano omosessuali.

Ma un’attenta lettura delle più recenti pubblicazioni americane cui si fa riferimento – la bibliografia disponibile è estremamente ricca e in un lungo articolo di Charlotte Patterson (5) sono elencati una trentina di studi precedenti – non può impedire di indurre, quanto meno, una certa perplessità rispetto alla loro credibilità (campione estremamente limitato, mancanza di gruppi di controllo, questionari comporta-mentalisti e stereotipati, nessuna attenzione alla durata, scelta di situazioni falsate – per esempio, comparazione solo con bambini allevati da una madre o da un padre divorziati -, conclusioni unilaterali ovvero senza alcuna eccezione alla tesi) (6).

Recenti studi di psicopatologia ci confermano la consolidata teoria freudiana che riconosce quanto il bambino deve, per la sua crescita psichica, al gioco sottile delle identificazioni e differenziazioni nei riguardi del padre, in quanto uomo, e della madre, in quanto donna. Se da una parte la figura materna fa da caposaldo nei primi anni dell’esistenza individuale (è nella relazione affettiva con la madre che il bambino impara a percepire il proprio corpo e sé stesso) (7), dall’altra è altrettanto importante che la simbiosi tra madre e figlio abbia fine secondo i tempi e i modi opportuni. Nel caso in cui non si verificasse tale realtà, l’individuo rischierebbe di rimanere fermo nel processo dell’evoluzione sessuale, un «bambino» in perenne ricerca della madre, Soggetto amato» di cui è stato privato.

Freud utilizza il termine «narcisismo» – dal mito di Narciso da cui il concetto di un amore verso l’immagine di sé – per spiegare la scelta d’oggetto negli omosessuali i quali «prendono sé stessi come oggetto sessuale; partono dal narcisismo e cercano dei giovani che rassomiglino a loro per poterli amare come la loro madre ha amato sé stessi», rimanendo fermi alla fase dell’evoluzione sessuale corrispondente a uno stato originario di frazionamento della pulsione sessuale (libido) implicante, quanto al rapporto con l’oggetto, l’assenza di un oggetto totale (Io o persona estranea).

La figura patema è ciò che permette il processo di separazione dalla madre, indispensabile nella maturazione dell’identità psicologica individuale e nell’iniziazione al sociale (sia in campo maschile sia femminile la scomparsa del padre dalle posizioni di formazione e iniziazione al sociale, ha prodotto, nell’uomo, un’interruzione nella trasmissione della cultura materiale e istintuale mascolina, insieme a progressiva perdita della capacità di controllare e utilizzare positivamente la propria aggressività (8), mentre nella donna una profonda insicurezza nell’istaurare la sua relazione con la società) (9).

Non solo Freud, ma l’elaborazione psicoanalitica successiva ha definito incestuose le situazioni in cui nulla separa realmente la madre e il figlio, situazioni angosciose all’interno delle quali, alla violenza dell’attrazione materna, risponde la violenza distruttrice dell’adolescente che vuole affermare la propria differenza (non dimentichiamo che «vita» e violenza» affondano le radici etimologiche nello stesso significato greco originario «bios» o «vios», «vita»).

La presenza di un limite, dunque, si evidenzia come un bisogno sia per la madre sia per il figlio; a entrambi occorre il riferimento a una legge, cioè a una parola normativa che introduca distanza e differenza là dove la madre è fonte di vicinanza e dolcezza. I confini sono mobili, perché ciascuno dei genitori può riunire in sé qualità materne e paterne, ma l’elemento essenziale è il contrasto, la differenziazione.

Dunque, c’è da dire che se da una parte è vero che non esiste una correlazione diretta tra la doppia presenza eterosessuale dei genitori e la loro attitudine educativa, dall’altra bisogna ammettere che ciò che è in gioco è molto più di alcune attitudini soggettive: si tratta di riconoscere il carattere imprescindibile di strutture relazionali costitutive della differenza sessuale, strutture relazionali determinate dall’eterosessuazione (10) (il sessuato rimanda al maschile e al femminile) e dall’eterosessualità (11) dei genitori (il sessuale rimanda a un comportamento, la sessualità).

Gli studi clinici, con riferimento all’eterosessuazione, rilevano in modo chiaro e inequivocabile i danni subiti dalla bambina psicotica, danni imputabili al fatto di trovarsi nell’impossibilità di immaginare sé stessa come scaturita dal corpo del padre, viven­dosi dunque come concepita dal nulla (12). Secondo Dumas occorre rendersi conto di ciò che può significare da parte della madre il silenzio sul ruolo del padre nel concepimento. «Questo silenzio può essere interpretato come la forma più quotidiana dell’incesto», cioè come un modo di salvaguardare la diade madre-bambino: «L’esclusione radicale di ogni rappresentazione sessuale» (13). E solo quando il bambino sperimenta sé stesso come il frutto dell’unione fra due corpi, si percepirà giocoforza come qualcosa di diverso, unico, nuovo.

Necessità di padre & madre

Appare logico pensare che per lo sviluppo psicoemotivo del figlio è necessaria la compresenza dell’uomo e della donna come figure di padre e di madre, con i relativi tratti di mascolinità (14) e femminilità che si offrono come modelli emblematici allo sguardo del bambino (e alla sua affettività in formazione). Quest’ultimo s’identificherà con i genitori attraverso l’affetto che da essi riceve e il modo in cui egli manifesterà loro le sue emozioni (15). Così come è importante che il bambino si consideri derivante dal corpo di un uomo è altrettanto importante che egli, sia di sesso maschile sia femminile, trovi un «ancoraggio nel maschile», in modo particolare durante i suoi primi anni di vita.

Infatti, se una delle principali mediazioni che permettono al ragazzo di sentirsi uomo è la prossimità, l’affinità, la somiglianza con il corpo del padre (16) – «Il fondamento di un’identità, per un individuo, comincia nel corpo che è simile al suo» -, la stessa importanza riveste la presenza di un’identità maschile per la bambina, la quale, come l’osservazione attesta, non si comporta allo stesso modo davanti al padre e alla madre (la bambina, dall’uomo che conta per sua madre si aspetta di essere riconosciuta nella sua femminilità).

E’ dalla prossimità con il familiare diverso che il bambino e la bambina acquisteranno maggiore sicurezza nella propria identità sessuale e la predisposizione all’eterosessualità, dal momento che osservando impareranno le differenze nel comportamento affettivo che singolarizzano il padre e la madre, e il modo in cui si trattano un uomo e una donna quando si amano. Senza vivere questi rapporti, l’educazione sentimentale sarebbe incompleta, a prescindere dai casi in cui i genitori vedovi cerchino di sostituire in maniera naturale la presenza della figura scomparsa (17).

Con un’espressione del filosofo Lacroix si può affermare che per una donna aspettare un bambino da sola o insieme al futuro padre non è la stessa cosa (18), e altrettanto si può dire nel caso delle coppie omosessuali dove, oltre a essere negata l’eterosessuazione dei genitori, non è indifferente che il padre/madre – il procreatore/procreatrice siano o no rivolti verso il femminile e viceversa (verso la per­sona della madre o del padre in particolare), perché il bambino non si riferisce a monadi, a individui dissociati, ma a esseri umani in relazione (19) (oltre al fatto che la situazione sarebbe aggravata dall’effetto pregiudizievole che ha sui bambini l’instabilità delle loro relazioni affettive [20]).

«Lo sviluppo emotivo e psico-affettivo è aperto al mondo circostante, al mondo delle relazioni interpersonali; non è una conseguenza cieca di una determinata configurazione biologica. Questo significa che i modelli di riferimento sociale ai quali è esposto il bambino o la bambina durante lo sviluppo psico-emotivo determinano, o comunque condizionano, in tutti i casi lo sviluppo emotivo della persona» (21).

Il padre reale, per il bambino, è l’uomo di una donna. Dunque, non si tratta solo e anzitutto della relazione verticale di un uomo con un bambino. Il bambino ha un padre reale nella misura in cui quell’uomo è quello che ha fatto di una donna che io chiamo mamma, la causa del suo desiderio e l’oggetto della sua relazione sessuale. La sola garanzia reale della funzione patema è un uomo rivolto verso una donna.

In tal senso, la relazionalità umana nella diversità sessuale non solo garantisce sul piano biologico-naturalistico le condizioni dell’obiettiva apertura alla procreazione nella complementarità fisiologico-sessuale (dimensione mancante strutturalmente nel legame omosessuale, la quale, seppur durevole, è strutturalmente sterile, motivo per cui non può essere considerata equivalente all’unione eterosessuale), ma è la condizione di possibilità dell’identità umana nella complementarità e la condizione di possibilità naturale della socialità.

Da un punto di vista giuridico ciò è denso di conseguenze: la famiglia fondata sull’unione tra un uomo e una donna costituisce il nucleo naturale della società, che attiva sul piano pubblico l’attenzione del diritto, nel senso della difesa, della tutela e della promozione.

Il fatto che tecnicamente sia oggi possibile anche per coppie omosessuali avere figli non può essere usato come un argomento a favore del riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale: sarebbe un modo di usare la tecnologia asservendola ai desideri soggettivi, i quali però entrerebbero in conflitto in modo insanabile con l’interesse del nascituro, che verrebbe al mondo in una situazione famigliare con due madri o due padri (con una parentalità non più distinta in paternità incarnata nel corpo maschile e maternità incarnata nel corpo femminile), strutturalmente orfano o di madre o di padre, a causa di un progetto a priori, non a causa di una fatalità.

Il pericolo è che si neghi al nascituro la possibilità d’identificazione antropologica e sessuale con doppio referente eterosessuale, come le più recenti e accreditate teorie della psicologia evolutiva e della psicoanalisi dimostrano. C’è chi ritiene che esistano altre forme di socializzazione (o etero-socializzazione) che consentano un’identificazione anche senza madre o padre: ma lo stesso fatto che si ammetta che per la propria identificazione il bambino possa ricorrere a figure extrafamiliari di sesso opposto ai genitori è una prova quanto meno d’incompletezza dell’identificazione intrafamigliare omosessuale; inoltre si tratta di un argomento che può avere una valenza statistico-fattuale, ma dal quale non si possono indurre né considerazioni assiologiche né indicazioni giuridiche.

Affermare che la relazionalità eterosessuale sia rilevante sul piano normativo e dunque debba avere una priorità e un riconoscimento pubblico rispetto ad altre forme relazionali non significa discriminare le altre forme di relazione; significa semmai ri­conoscerne la valenza sul piano privato pre-giuridico ed extra-giuridico, seppure eticamente discutibile, ma non sul piano pubblico (giuridico-politico). Infatti, il ruolo del diritto nella società è quello di tutelare il carattere simmetrico dei rapporti, che verrebbe leso nella misura in cui non si ponesse l’attenzione sui bisogni del bambino, come prioritari rispetto ad altre rivendicazioni.

Dinanzi al dibattito sulle gender teories emerge l’urgenza di acquisire una consapevolezza critica ragionata lì dove la discussione giuridica che deriva da tali teorie mette in gioco il senso dell’uomo, della società e del diritto.

Si profila una duplice alternativa che non trova soluzioni intermedie: o «il diritto come asservitore estrinseco e formale della volontà pulsionale individuale o il diritto come tutela oggettiva, sostanziale e intrinseca della relazione interpersonale tra uomo e donna» (22) aperta all’ordine delle generazioni. «Tale alternativa rispecchia il modo diverso di intendere il rapporto interpersonale: o il rapporto inteso quale espressione delle soggettività che s’incontrano per la soddisfazione, anche temporanea, di interessi nella privatezza individuale oppure inteso come legame strutturalmente relazionale, duraturo nell’impegno a tutela e promozione delle soggettività» (23).

Oggi il diritto positivo sta scegliendo la prima strada, che potrebbe portare ad accogliere, sulle medesime basi teoriche, altri «nuovi modelli di famiglia» in quanto esigenze sociali, dimenticando che l’impegno del giurista, lungi dal limitarsi a registrare la prassi sociale, dovrebbe essere quello di cercare una paziente e continua traduzione positiva, normativa e istituzionale delle esigenze strutturali coesistenziali radicate nell’ humanum. Il diritto è chiamato a difendere alcuni valori costitutivi, intrinseci alla giuridicità, senza i quali il senso stesso del diritto nella società viene meno: il valore della dignità umana (ritenendo che ogni essere umano ha uguali diritti [24]) e della convivenza sociale, quali condizioni di possibilità dell’esistenza e della coesistenza.

In tale orizzonte di pensiero, il diritto non è chiamato a legalizzare desideri, istanze, affetti, ma è chiamato a difendere istituzionalmente le strutture fondanti obiettive dell’essere umano, dunque la famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio.

L’ossessiva pretesa di rifiutare qualsiasi limite, qualsiasi cosa sia altro da sé, il rifiuto dell’alterità del corpo, del genere e del generare, «nasconde una forma sottile di nichilismo. È un nichilismo psicoanalitico, la dissoluzione narcisistica di tutto ciò che non sia riconducibile all’io, che tende a divenire nichilismo giuridico, quando i diritti dell’uomo sembrano costruiti in funzione di questo potenziamento illimitato della volontà» (25).

L’erosione della famiglia come un aspetto di un più ampio fenomeno di erosione nichilistica della stessa identità soggettiva sembra «progressivamente passare dal rifiuto dei vincoli del corpo, e con essi dei vincoli di genere, al rifiuto del vincolo in quanto tale» (26).

____________________

1) Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 20016.

2) Sulla base di queste premesse, l’omosessualità viene sempre più spesso presentata come una variante della sessualità umana rispetto all’orientamento eterosessuale fino alla soppressione graduale della voce «omosessualità» dai manuali psichiatrici. In particolare, il cambiamento radicale nell’approccio psicoanalitico all’omosessualità ha avuto come protagonista I’Apa, l’Associazione Psichiatrica Americana.

3) Cfr S. Firestone, La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica (1970), Guaraldi, Firenze 1971.

4) In questa linea, il Comitato latinoamericano e dei Carabi per la difesa dei diritti delle Donne (la Clasdem) ha fatto circolare una Proposta per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo secondo una prospettiva di genere chiedendo una modifica del testo della precedente dichiarazione: «Tutti hanno diritto a un’educazione sessuale libera e responsabile che garantisca il diritto alla sessualità. Tutti hanno diritto al proprio orientamento sessuale che include la decisione di prendere o non prendere dei partner affettivi e/o sessuali che siano dello stesso sesso oppure no. Tutte le donne e gli uomini dovrebbero aver garantito il diritto al pieno potere sulle loro autonome decisioni in relazione alle funzioni riproduttive».

5) Charlotte J. Patterson, Children of Lesbian and Gay Parents, «Child development», 1992, 63, pp. 1025-1042.

6) Per il confronto di tali rilievi consiglio di fare riferimento ad alcuni testi particolarmente significativi di Xavier Lacroix il quale ha studiato e consultato larga parte degli studi menzionati. In particolar modo cfr X. Lacroix, Homoparentalité, les de­rives d’une argomentation, in «Études» 3993 (2003); versione integrale: Le terme homoparentalité a-t-il un sens?, in «Revue d’éthique et de théologie morale» 225 (2003)

7) Cfr C. Risé, Il padre, l’assente inaccettabile, San Paolo, Milano 2004, p. 17.

8) Cfr R. Bly, La società degli eterni adolescenti, Red, Como 2000.

9) Cfr C. Risé, op. cit., pp. 61-65; cap. V, Patologia della società senza padre.

10) X. Lacroix, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 73, cit.

11) Cfr ivi, p. 75.

12) Didier Dumas, Sans pére et sans parole, Hachette, Paris 1999, p. 67.

13) Ivi, p. 196.

14) Per l’importanza del ruolo del padre come «trasmettitore di mascolinità» cfr gli studi dello psicoterapeuta C. Risé, Il padre, l’assente inaccettabile, San Paolo, Milano 2004.

15) «I rapporti tra il padre e la madre costituiscono il primo scenario dell’educazione sentimentale», intervista riportata da A. Polaino, in www.fides.org/ita/approfondire/2005/leggi2 Jamiglia06.html.

16) G Comeau, Pére manquant, fìls manqué, Ed. de l’Homme, Montréal 1989, p. 71. Cfr anche p. 27.

17) «È facile che l’attrazione sessuale si assembli con caratteristiche analoghe a quelle che sono proprie della sua peculiare differenziazione affettiva sessuale, evitando così l’insorgere di problemi riguardo alla propria identità sessuale e personale». Intervista riportata da A. Polaino in www.fidesorg/ita/approfondire/2005/leggi2_famiglia06.html , cit.

18) X. Lacroix, Passatori di vita, ivi, pp. 91 ss.

19) Cfr ivi, p. 114.

20) Per l’instabilità delle relazioni omosessuali cfr Gerard J. M. van den Aardweg, Omosessualità & speranza, Edizioni Ares, Milano 1995. Per quanto riguarda l’osservazione del comportamento dei genitori omosessuali e dello sviluppo della vita emotiva e della personalità dei loro figli, cfr ld., Vivere da figlia con un padre omosessuale, in «Studi cattolici» 566, aprile 2008, pp. 269- 272; D. Stefanowicz, Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay (Edizioni Ares, Milano 2012).

21) A. Polaino (professore di psicopatologia presso l’Università Complutense, Spagna) in occasione di un discorso presentato al Senato il 20 giugno 2005.

22) L. Palazzani, Studi in onore di Giovanni Giacobbe, a cura di G. Dalla Torre, Giuffrè, Milano, p. 693.

23) Ibidem.

24) Cfr Documento Congregazione per la Dottrina della Fede (3 giugno 2003), Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persona omosessuali: «Non è vera l’argomentazione secondo la quale il riconoscimento legale delle unioni omosessuali sarebbe necessario per evitare che i conviventi omosessuali perdano, per il semplice fatto della loro convivenza, l’effettivo riconoscimento dei diritti comuni che essi hanno in quanto persone e in quanto cittadini. In realtà, essi possono sempre ricorrere – come tutti i cittadini e a partire dalla loro autonomia privata – al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse. Costituisce invece una grave ingiustizia sacrificare il bene comune e il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere dei beni che possono e debbono essere garantiti per vie non nocive per la generalità del corpo sociale». Infatti, i rapporti tra i conviventi omosessuali possono e devono trovare la propria regolazione nell’àmbito delle possibilità concesse dal diritto privato. Tutti quei diritti generalmente invocati dai partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre per via legislativa nuovi istituti. Cfr G. Amato, Unioni gay: hanno già tutti i diritti, in www.lanuovabq.it/it/articoli-unioni-gay-hanno-gi-tutti-i-diritti-6370.htm .

25) S. Amato, op. cit., pp. 153-4.

26) Ivi, p. 154, cit.