[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].
di Rino Cammilleri
Il 18 aprile 1947, a Bratislava dopo un processo di quattro mesi, veniva impiccato Jozef Tiso, presidente della Repubblica slovacca e sacerdote cattolico.
Il suo governo viene generalmente liquidato nei documentari d’informazione storica come uno dei tanti fascismi che pullulavano nell’Europa durante gli anni Trenta e Quaranta. Una pennellata d’antisemitismo e uno spruzzo di filonazismo, nei toni dello speaker di turno, ingenerano nell’ascoltatore il solito senso di “giustizia è fatta”: lo slovacco Tiso come l’inglese Mosley, come i rexisti belgi, come le croci frecciate ungheresi. Criminali contro l’umanità, fanatici; due parole in tutto, poi le scene si spostano su avvenimenti più clamorosi.
La storia di quel che Tiso rappresentò per gli slovacchi, schiacciati tra cechi, ungheresi, russi e tedeschi, rimane per l’europeo medio un “fatto minore” di scarso interesse ai margini della grande storia. La Slovacchia ha solo di recente conseguito la contrastata indipendenza (gennaio 1993), ma soprattutto grazie alle pressioni della Germania, i cui marchi evitarono forse un bagno di sangue “alla balcanica”.
Eppure la vicenda di quel piccolo Paese ha molti tratti in comune con quella italiana. L’unione forzosa della Cecoslovacchia vedeva un Nord ceco, protestante e industrializzato, e un Sud slovacco, povero e cattolico. L’economia slovacca, resa artificialmente dipendente da quella ceca e separata dai suoi sbocchi naturali, regredì come quella del nostro Mezzogiorno all’indomani della piemontesizzazione.
E una cechizzazione pervasiva fu il risultato del collasso dell’impero asburgico dopo la Grande Guerra. Ai vincitori, in particolar modo alla Francia, interessava solo accerchiare strategicamente la Germania: venne creata quell’assurdità storica che fu la Cecoslovacchia.
Evangelizzati nell’863 dai santi Cirillo e Metodio al tempo della grande Moravia, gli slovacchi avevano conosciuto un periodo di prosperità sotto i re d’Ungheria, i quali venivano incoronati nella loro capitale, Bratislava.
Cattolici fedelissimi, costituirono un sicuro argine contro gli eretici hussiti e i luterani fino all’età delle monarchie assolutistiche. Il centralismo asfittico di Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe Il finì con l’attizzare nell’impero multinazionale la difesa dei particolarismi culturali ed etnici.
Una storia tormentata
L’abolizione del latino come lingua ufficiale dello Stato asburgico nel 1788, il nazionalismo e il romanticismo crearono una situazione di conflitto generalizzato, nella quale le etnie maggiori cercavano di fagocitare quelle più piccole. Gli “apostoli” dell’indipendenza e dell’autodeterminazione per la propria nazionalità non ebbero alcun riguardo nei confronti di quelle altrui. Come l’esercito piemontese contro le popolazioni contadine del Sud, così l’eroe dell’irredentismo magiaro,
Lajos Kossuth, incitava a schiacciare gli slovacchi, i quali insorsero nel 1848, ma furono repressi dalle autorità di Budapest. Magiarizzati a forza con l’assenso di Vienna, gli slovacchi presero la via dell’emigrazione negli Usa (quasi metà della popolazione partì). Le scuole slovacche vennero chiuse e furono imposti perfino vescovi ungheresi.
L’intellighenzia slovacca rimase confinata nel basso clero; quest’ultimo andava a studiare nei seminari austriaci o ungheresi per poi tornare tra il suo popolo. La figura più rappresentativa fu monsignor Andrej Hlinka, più volte incarcerato per aver creato una vasta rete di cooperative alla luce dell’enciclica Rerum novarum e per aver difeso i diritti politici degli slovacchi.
Fu addirittura sospeso a divinis dal suo Ordinario e reintegrato solo su pressione di Roma. Nel 1905 fondò il Partito popolare slovacco, di cui assunse la guida nel 1913. Nel 1907 gli fu impedito di entrare nella sua chiesa e la folla che dimostrava a suo favore fu brutalmente caricata. La repressione causò quattordici morti, che indignarono perfino Tolstoj. Allo scoppio della Grande Guerra alcuni intellettuali cechi fuoriusciti in America (tra i quali Masaryk e Beneš ) contattarono loro omologhi slovacchi per la creazione di uno Stato ceco-slovacco paritario (Patto di Cleveland del 1915, poi ribadito nell’Accordo di Pittsburgh del 1918).
I cechi e gli slovacchi d’Europa erano in larghissima maggioranza fedeli all’impero asburgico, ma si trovarono di fronte al fatto compiuto dopo la disfatta delle Potenze centrali. Non solo: l’applicazione dell’Accordo si rivelò difforme dal testo firmato, il quale stranamente sparì. Il nuovo Stato ceco-slovacco fu imposto da Praga agli slovacchi a mano armata, con l’acquiescenza dei vincitori.
Fu perfino dichiarato reato la grafia col trattino (Ceco-Slovacchia) e la nascita dello Stato cecoslovacco avvenne tramite legge marziale. Alla magiarizzazione si sostituì la cechizzazione, invano combattuta dall’effimera Repubblica sovietica slovacca dell’ungherese Bela Kun, che nel 1919 cercò – vanamente – di far accettare agli slovacchi una rimagiarizzazione in chiave comunista.
Hlinka alla Conferenza di pace di Parigi denunciò la frode, ma fu accusato da Beneš di essere un agente degli Asburgo, espulso dalla Francia e condannato a sei mesi di carcere in patria. La Slovacchia, la cui economia era da secoli integrata in quella dell’impero asburgico, dovette cercare sbocchi sul mercato interno e fini colonia di Praga, la qual cosa incremento` i flussi di emigrazione all’estero. Gli uffici pubblici andarono a cechi, tutti ex funzionari della fortissima burocrazia asburgica, e un fitto programma di laicizzazione sottopose a ulteriori angherie il tradizionale cattolicesimo slovacco.
Con Hitler al potere
Ma con la comparsa di Hitler e l’ascesa politica della Germania nazionalsocialista, i Paesi occidentali allentarono i legami con Praga. In sostituzione questa cercò l’alleanza con Mosca nel 1935; la diplomazia germanica rispose sobillando i revanscismi ungherese e polacco, non rassegnati a talune decurtazioni di confine in favore della giovane entità statuale. Il disinteresse dell’Italia finì con l’isolare la Cecoslovacchia, lasciata ormai in balia tedesca con l’Accordo di Monaco del 1938, che vide la resa delle democrazie occidentali alle dittature.
Il presidente Beneš neppure allora volle venire incontro alle richieste slovacche di autonomia. Quando la minaccia nella regione dei Sudeti si fece tangibile, fu costretto a dimettersi e solo in tale frangente Praga concesse il sospirato federalismo. Capo del governo slovacco divenne monsignor Tiso, succeduto a Hlinka (morto nell’ottobre del ’38) alla guida del Partito popolare.
Nel novembre del medesimo anno Praga aveva ceduto agli ungheresi i territori slovacchi più produttivi, e questo diede il destro a Hitler per soffiare sul fuoco: egli intendeva occupare Boemia e Moravia, e offrire Slovacchia e Rutenia subcarpatica a Ungheria e Polonia. Il 9 marzo 1939 Praga occupò militarmente la Slovacchia e depose Tiso. Il 14 la Dieta slovacca proclamò l’indipendenza, ma il giorno dopo il presidente ceco Ernil Haicha firmava la capitolazione a Berlino, in forza della quale Boemia e Moravia divenivano protettorato del Reich.
Difensore della patria
Jozef Tiso, di lontane origini venete, era nato nel 1882 da famiglia contadina, fu discepolo di quel Franz SchindIer che con Karl von Voigelgang aveva fondato tra Ottocento e Novecento la Cristlich-soziale Bewegung, il movimento sociale cristiano nemico dell’assolutismo statale e del centralismo burocratico. Parroco di un piccolo centro, Bainovce, Tiso promosse unioni di credito, di assistenza e consumo per l’attuazione concreta di quel programma sociale già tracciato nelle encicliche di Leone XIII.
Cappellano militare durante la prima guerra mondiale, fondò un giornale patriottico col quale denunciò la forzata cechizzazione della Slovacchia. Ciò gli fruttò due condanne al carcere, ma anche l’elezione a deputato nel 1926. Diversamente da Hlinka, credeva nel dialogo col governo, il quale lo cooptò come ministro nel 1927. Nel 1932 promosse la fusione del Partito popolare con quello nazionale slovacco guidato dal pastore protestante Raizus.
La nuova formazione si denominò Blocco autonomista e, su consiglio del Vaticano, appoggiò la nomina di Beneš a presidente della repubblica. Ma Bene§, una volta eletto, si rimangiò le promesse di autonomia. La crisi dei Sudeti, come si è accennato, portò Tiso al governo della Slovacchia. La sua prima mossa fu l’unificazione dei vari partiti con esclusione di quello comunista.
Rimosso da Haicha nel 1939, tornò alla sua parrocchia, dove fu contattato da emissari di Hitler e invitato per un colloquio a Berlino. Hitler gli ingiunse l’immediata proclamazione dell’indipendenza slovacca; ma Tiso, più favorevole all’autonomia e ostile al paganesimo nazista, rifiutò. La Dieta slovacca invece colse l’occasione al volo e acclamò Tiso capo del nuovo Stato. Da quel momento Hitler cercò in ogni modo di liberarsi di quel prete, che peraltro riuscì a tenere le mani naziste lontane dall’economia slovacca per tutto il conflitto.
Ci fu addirittura un fallito tentativo di colpo di Stato, per il quale Tiso cacciò l’ambasciatore tedesco. Verso la fine della guerra Stalin gli promise il mantenimento alla presidenza in cambio della sovietizzazione della Slovacchia. Naturalmente ne ottenne un secco rifiuto. Avanzando l’Armata rossa, il governo slovacco, rimasto volutamente neutrale durante le ostilità, cercò rifugio in Austria per consegnarsi agli americani.
Ma questi arrestarono Tiso e, dopo averlo tenuto in un campo di concentramento, lo consegnarono alle autorità cecoslovacche. Tiso e i membri dei suo governo furono portati in catene a Praga e processati a Bratislava come criminali di guerra dopo un anno. Il sacerdote pronuncio` un’autodifesa durata ben undici ore, ma venne giustiziato.
La sua esecuzione indigno` profondamente i cattolici e soprattutto gli slovacchi, i quali vi ravvisarono la condanna del loro tentativo di indipendenza. Ancora oggi non sono pochi quelli che ritengono Tiso un martire e il salvatore della Slovacchia dalla tentazione nazista in un momento storico in cui tutto congiurava per spingere il piccolo Paese nelle braccia del Reich.
Nel testamento spirituale, dettato al sacerdote che l’assisteva poco prima della morte, si legge tra l’altro: «Muoio come martire della legge naturale data da Dio a ciascun popolo di promuovere la sua libertà e come difensore della civiltà cristiana contro il comunismo».