La morale tra “pubblico” e “privato”

moralitàIl Timone n.138 dicembre 2014

È diffusa la convinzione che l’agire privato sia insindacabile. Purché non danneggi nessuno, per la vita privata non ci sarebbero criteri morali. È una idea sbagliata

di Giacomo Samek Lodovici

Sul “Timone” del mese scorso abbiamo discusso una tesi tipica della prospettiva liberale dominante, quella della neutralità etica dello Stato. Questo mese ci dedichiamo all’analisi di un’altra tesi tipicamente liberale, professata non solo da diversi autori appartenenti a questa corrente, ma anche assai diffusa nel senso comune: la tesi della distinzione tra sfera pubblica e privata dell’agire e la correlata affermazione secondo cui l’ambito privato dell’agire sarebbe moralmente insindacabile perché – così si dice – l’importante è non danneggiare gli altri, dopo di che per la vita privata non ci sono criteri morali.

Rapporto tra privato e pubblico

Ora, certamente una distinzione tra questi due ambiti esiste, ma non è così rigida come la intendono alcuni autori: infatti, ad eccezione dei casi in cui uno muore poco dopo aver compiuto un certo atto o in cui vive come eremita, ogni azione umana ha successivamente qualche (magari minimo) effetto pubblico. Tanto per incominciare, come diceva già Aristotele, mediante il nostro agire noi trasformiamo continuamente noi stessi, mediante la ripetizione di atti dello stesso genere noi acquisiamo i vizi o le virtù corrispondenti agli atti che abbiamo compiuto e le virtù e vizi si riverberano prima o poi nelle relazioni con gli altri.

Tutti i nostri atti costituiscono in noi (ovviamente in modo più o meno cospicuo) delle propensioni virtuose/viziose, comportano una qualche trasformazione di noi stessi, hanno un effetto retroattivo. Ora, queste propensioni incidono – presto o tardi e in modi diversi – su altre persone: le propensioni che acquisiamo ci influenzano quando poi ci troviamo a vivere in mezzo agli altri. Ogni nostro atto può potenzialmente essere, in qualche modo, “pubblico”, ed ogni propensione virtuosa/viziosa può potenzialmente avere un aspetto relazionale. Un soggetto che è invidioso, pigro, mentitore, avido, ecc. nella vita “privata”, lo sarà facilmente anche nella sfera pubblica.

Ancora, per un nume tutelare del liberalismo come Mill, da un lato «il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano»; d’altro canto, a ben vedere, anche per Mill tutte le azioni possiedono un certo impatto pubblico. Per esempio, egli dice efficacemente che «Se un uomo lede le sue proprietà, danneggia chi direttamente o indirettamente ne traeva sostentamento, e generalmente diminuisce in maggiore o minore misura le risorse complessive della comunità. Se deteriora le sue facoltà fisiche o mentali, non solo fa del male a coloro la cui felicità dipendeva, in misura maggiore o minore, da lui, ma si pone nell’incapacità di rendere [o rendere nel miglior modo a lui possibile, aggiungiamo noi] i servizi di cui è in generale debitore al suoi simili».

Un altro rilievo pubblico dei nostri atti risiede nel fatto che essi, come minimo, rallegrano/ rattristano le persone che hanno a cuore il nostro bene morale. Come ha scritto il filosofo Maurice Nédoncelle, «la mia soddisfazione è il tuo [essere all’altezza del tuo] valore. La mia tristezza il tuo rifiuto di attuare il valore che era in te e che il mio amore vuol aiutarti a far trionfare». Così, non solo tutte le nostre virtù e tutti i nostri vizi hanno potenzialmente un aspetto relazionale, ma, inoltre, dato che viviamo insieme, rallegrano/rattristano coloro che hanno dei legami con noi: pensiamo in particolare ai genitori, che si compiacciono/amareggiano circa le qualità/difetti morali dei figli. Ma le azioni umane rallegrano/rattristano anche alcune persone che non hanno alcun tipo di legame con i soggetti che le compiono, e tuttavia si rallegrano/dolgono per il fatto che nel mondo avvengono atti buoni/ingiusti e tanto più essi sono numerosi.

L’effetto emulativo

E come il bene è (per i classici) diffusivum sui, cioè tende a diffondersi se risplende e se viene percepito come bene, similmente lo è anche il male: infatti, secondo un modo di ragionare molto diffuso, «se X lo fanno gli altri, che male c’è?», oppure «se X lo fanno gli altri, sarà pur moralmente sbagliato, ma perché non dovrei farlo anche io?»: perciò, anche il male che un soggetto arreca solo a se stesso o ad altri soggetti consenzienti è di per sé diffusivo, in quanto è potenzialmente oggetto di emulazione.

Come esemplifica Tommaso Scandroglio (La Teoria Neoclassica della legge naturale in Germain Grisez e John Finnis, Giappichelli 2012, p. 438), il drogato, il porno dipendente, chi chiede l’eutanasia, il consumatore di droga, ecc. possono influenzare negativamente anche altri soggetti. Infatti, ogni nostra azione, a meno che non resti assolutamente ignota, «è potenzialmente oggetto di emulazione da parte di altri» e «alcuni atti immorali, pensiamo all’uso di sostanze stupefacenti, foraggiano un mercato il quale, a sua volta, attirerà altri consumatori».

Quando poi la tesi della separazione tra sfera pubblica e sfera privata porta ulteriormente con sé l’affermazione dell’equivalenza morale di tutte le scelte e condotte private, si cade in un cortocircuito molto serio. Infatti, sulle azioni di questa sfera vengono pronunciati non di rado giudizi tra loro contraddittori: «l’azione A di Tizio è buona», «l’azione A di Tizio è malvagia». Ora, fatto salvo che, a volte, può essere difficile, talora impossibile, comprendere quale delle due tesi sia vera, nondimeno «l’azione A di Tizio è buona» e «l’azione A di Tizio è malvagia» sono due tesi che non possono essere entrambe vere, «per la contraddizion che noi consente» (per dirla con Dante).

La moralità dell’uomo politico

Inoltre, anche recependo in modo solo minimale la dottrina classica dell’unità delle virtù, si può constatare come l’uomo politico che si comporta moralmente male nella vita “privata” rischi di farlo anche in quella pubblica. Per esempio, può accadere che qualcuno commetta un’azione disonesta svolgendo il suo pubblico ufficio per desiderio di piacere, per avarizia, per pigrizia, per invidia, per vendetta. Ancora, un uomo politico che vive abitualmente nella lussuria può essere ordinariamente giusto nell’esercizio del suo ruolo ma, a causa della sua concupiscenza disordinata, può arrivare a violare la giustizia stessa nello svolgimento del suo Incarico pubblico: la storia registra innumerevoli variazioni (più o meno gravi) della vi­cenda di David, della sua (orrenda) ingiustizia verso Uria, a causa della sua passione per Betsabea.

Dopodiché, in fase di voto, se e quando non è possibile appoggiare un politico X che sia moralmente buono e che inoltre promuova leggi giuste, è doveroso votare un politico Y che è eticamente criticabile nella condotta “privata” ma che promuove leggi giuste, piuttosto che il politico Z che è moralmente irreprensibile nella condotta “privata” ma poi promuove leggi ingiuste, specialmente se queste leggi attentano alla vita dell’innocente, se favoriscono la dissoluzione della famiglia, se ledono la libertà religiosa, ecc. Infatti, le leggi del politico Z danneggiano in modo vasto, diretto e grave il bene comune.

Lo Stato e la promozione culturale delle virtù

Ciò detto, per quanto riguarda la coercizione dello Stato (e i suoi divieti), come abbiamo detto il mese scorso, essa deve avvenire solo quando un’azione umana danneggia direttamente e gravemente il bene comune. Ma ciò non toglie che lo Stato – che non è la fonte del bene/male, e non è mai eticamente neutrale, nemmeno quando se lo prefigge, come abbiamo visto un mese fa – dovrebbe culturalmente promuovere presso i cittadini la ricerca della vita buona in tutti gli ambiti della condotta, invece che limitarsi solo ad esigere il rispetto delle regole che riguardano la vita sociale intersoggettiva. In particolare, dovrebbe sostenere in molti modi (culturalmente, ma anche economicamente) tutte quelle forme di comunità in cui le virtù possono essere maggiormente mostrate con l’esempio, insegnate, rinforzate, ecc. Esempio eminente è la comunità famigliare.

Ricorda

«Anche se una persona non danneggia direttamente gli altri coi suoi vizi o follie, tuttavia è dannosa con l’esempio». «Ammetto incondizionatamente che il male fatto a noi stessi può colpire gravemente, sia negli affetti sia negli interessi, le persone che ci sono strettamente legate e, in misura minore, la società in generale». (John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, 1981, pp. 92-94).