Macellate 3 ragazze. Erano cristiane

Imdonesia_cristianiAvvenire 30 ottobre 2005

ORRORE IN INDONESIA

di Giulio Albanese

Diciamolo subito, con franchezza. L’uccisione di tre giovani cristiane dell’Indonesia, avvenuta ieri, è un fatto davvero sconcertante. Decapitate mentre andavano a scuola. Una quarta compagna è sfuggita al massacro per puro miracolo. Sì, orrore, sgomento e lamento pervadono il cuore e la mente di ogni libera coscienza di fronte a quanto è accaduto a Poso, nella tormentata provincia indonesiana di Sulawesi Centrale.

In un gioco al rialzo della strategia del terrore che oppone non da oggi la maggioranza musulmana alla minoranza cristiana, si è compiuto un misfatto brutale, eseguito nelle forme più primitive. Sembrerebbe infatti cronaca di altri tempi. E, attenzione, che la distanza geografica non ci giochi cattivi scherzi. Non si tratta infatti di popolazioni barbariche, ma di Paesi civili, giustamente in corsa per una piena modernizzazione. Ovvio allora che, se non ci lasciamo neppure sfiorare da istinti di rivalsa, dobbiamo però interrogarci su quel che è accaduto in un punto della Terra che in questo momento sentiamo vicinissimo.

Interrogarci per capire, e vivere da cittadini del mondo niente affatto casuali. Sembra impossibile che in questo primo segmento di terzo millennio, a vertici di progresso mai prima raggiunti, si associno abissi di disumanità e di sconforto così aberranti. D’altronde, basta dare un’occhiata al Rapporto 2005 sulla libertà religiosa nel mondo, edito dall’«Aiuto alla Chiesa che Soffre», benemerita organizzazione fondata dal compianto padre Werenfried Van Straaten, per comprendere che omicidi, minacce e violenze a sfondo religioso non rappresentano affatto una rarità nel mondo e in particolare in quelle terre dell’Estremo Oriente dove migliaia di persone, già nel passato, hanno perso impunemente la vita.

È bene rammentare che circa duemila persone, per la maggior parte cristiani, morirono a Sulawesi durante scontri cruenti, prima della firma del primo accordo di pace nel dicembre del 2001. Da allora, nonostante un secondo trattato di pace, firmato l’anno successivo, è continuato a scorrere sangue innocente. Come, ad esempio nel corso dell’attacco alla chiesa cristiana protestante di Efatah, avvenuto il 18 luglio dello scorso anno, in cui perse la vita un pastore donna che officiava, la 26enne Susianty Tinulele, e quattro fedeli rimasero gravemente feriti.

Il successivo 13 ottobre, in una strada nei pressi del villaggio a maggioranza cristiana di Jono Oge, nel distretto di Donggala, alcuni sconosciuti freddarono a colpi di spada due cristiani rispettivamente di 45 e 54 anni. E la tensione, stando ad autorevoli fonti della società civile autoctona, è ancora alta nella regione, dopo che in maggio due bombe nel mercato della città cristiana di Tentena hanno provocato la morte di 22 persone.

Non v’è dubbio che dietro le quinte vi siano menti diaboliche il cui intento non è solo quello di seminare morte, ma scioccare e spargere terrore, e provocare nella speranza che l’altra parte risponda colpo su colpo. Al che, i più forti possono facilmente prevalere, istallandosi sul territorio come padroni totali. Se esperti della sicurezza hanno con lentezza attribuito la responsabilità dell’attacco di Tentena a elementi dell’islamismo radicale, ieri la polizia si è precipitata a dichiarare – con una rapidità sospetta – di non essere in grado d’individuare i responsabili delle aberranti decapitazioni.

Sovvengono alla mente le sagge parole di padre Werenfried, apostolo della carità: «Dio non piange in cielo, Dio piange sulla terra. E così Dio piange in tutti gli oppressi e i sofferenti del nostro tempo. Non possiamo amarlo senza asciugare le sue lacrime». Per fortuna che sempre ieri il vescovo locale ha tenuto subito a precisare che se vogliono suscitare odio, la gente non abboccherà, la gente non cerca la vendetta. Chiede la convivenza pacifica, come avviene in molte parti del mondo. È un diritto, non una concessione.