Europa sotto assedio

immigrazione_rottePubblicato da New York Sun
18 ottobre 2005

Daniel Pipes

Titolo in lingua originale inglese: Europe under Siege

Due recenti fatti di cronaca illustrano in modo clamoroso il problema dell’incalzante immigrazione che investe l’Europa. Il primo riguarda una banda di trafficanti che si valuta abbia trasportato in Gran Bretagna 100.000 immigranti clandestini, principalmente curdi turchi. Questi emigrati economici hanno pagato tra le 3.000 e le 5.000 sterline per il trasporto avvenuto attraverso un percorso complesso e pericoloso.

L‘Independent spiega: “I loro viaggi durano settimane ed essi vengono ben nascosti in camion dotati di scomparti segreti e, in alcuni casi, vengono imbarcati su voli clandestini diretti nei campi di aviazione nel sud-est”.

Un’autorevole fonte della polizia britannica ha così commentato “È un viaggio tortuoso pieno di insidie e disagi, ma essi sono determinati ad affrontarlo, data la particolare attrattiva che offre la comunità turca di Londra”. E i turchi non sono affatto i soli a voler aver accesso all’Europa. Il secondo fatto di cronaca riguarda le orde umane di poveri africani dell’area sub-sahariana che prendono d’assalto e si aprono un varco nelle recinzioni che circondano le due piccole enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, ubicate lungo la costa mediterranea del Marocco.

Fino a poco tempo fa, queste vestigia iberiche risalenti all’epoca delle Crociate sembravano essere i singolari resti di un’epoca passata. Oggi, però, esse rappresentano (insieme a Lampedusa, le Canarie e Mayotte) i punti di accesso dell’Unione europea maggiormente isolati e vulnerabili, i guadi attraverso i quali gli immigranti clandestini penetrano nell’Unione europea.

Melilla è una città di 60.000 abitanti a 6 miglia (12 km) dal confine con il Marocco, protetta da guarnigioni della Legione spagnola e della Guardia civile marocchina, provvista di alte recinzioni circondate da filo spinato e dotate della tecnologia antiuomo più all’avanguardia (sensori, rivelatori di movimento, faretti e telecamere a infrarossi).

Il tipico emigrante africano attraversa il deserto del Sahara per raggiungere la costa mediterranea dove rimane in attesa del momento giusto per correre verso il territorio spagnolo. “Eravamo stanchi di vivere nella foresta”, ha spiegato un giovane uomo della Guinea-Bissau. “Non c’era nulla da mangiare, niente da bere”.

A metà settembre, gli africani hanno iniziato ad assalire in massa il confine. Utilizzando delle scale rudimentali fatte con rami d’albero, hanno scavalcato le recinzioni. Come ha detto uno di loro “Ci muoviamo in gruppo e ci lanciamo tutti insieme. Siamo consapevoli che qualcuno riuscirà a passare, che altri rimarranno feriti e che altri ancora potrebbero morire, ma dobbiamo farlo, costi quel che costi”. La tattica funziona.

Delle oltre 1.000 persone che hanno tentato di entrare a Melilla tutte insieme, solo 300 ci sono riuscite. Ai primi di ottobre, 650 persone si sono lanciate contro la recinzione e si dice che 350 ce l’abbiano fatta. “Eravamo in troppi per essere fermati tutti”, ha osservato un cittadino del Mali. Oltre 30.000 africani aspettano il loro turno.

La si può paragonare a una lotta all’ultimo sangue. Gli africani lanciano sassi contro le forze di sicurezza, che reagiscono sparando colpi di baionetta, di fucili da caccia e proiettili di gomma. Nel corso degli assalti decine e decine di africani hanno perso la vita, alcuni calpestati nella ressa in territorio spagnolo, altri sotto il fuoco delle armi della polizia marocchina.

Alla fine è stata Madrid ad avere la meglio su Rabat, usando la mano pesante sui rimanenti africani lì in attesa, 2.000 dei quali sono stati costretti a tornare nei loro paesi di origine e altri 1.000 sono stati espulsi nel deserto meridionale del Marocco, lungi dalle enclavi spagnole. Le procedure di rimozione sono state effettuate in modo alquanto brutale, abbandonando gli africani a se stessi e lasciandoli soli, pressoché senza fornire loro alcun aiuto. Ma l’importuno segnale è stato recepito. Adesso tornerò indietro”, ha detto in lacrime un altro cittadino del Mali. “Non cercherò di ritornare qua. Sono sfinito”.

I moderni mezzi di comunicazione e di trasporto esortano sempre più i turchi a lasciare le loro case. I cittadini africani ed altri (come i messicani) per lasciare i loro paesi d’origini sono disposti ad affrontare rischi estremi, se necessario, per raggiungere il vicino paradiso occidentale. Gli europei reagiscono mostrando i denti, mettendo da parte le pietas multiculturali, come quanto asserito da Kofi Annan “Ciò che importa è che non tentiamo inutilmente di evitare che la gente attraversi i confini. Non funzionerà”.

Ma evitarlo è all’ordine del giorno; probabilmente sarà solo una questione di tempo perché altri paesi occidentali seguano gli esempi di Spagna e Australia e ricorrano all’uso della forza militare.

Colossali giri di contrabbando e orde umane che dilagano in roccaforti rappresentano le manifestazioni più crude di dilemmi profondi e crescenti: di come isole di pace e benessere sopravvivano in un oceano di guerra e depravazioni, di come una popolazione europea in calo demografico conservi la propria cultura storica e di come paesi che vanno dalla Turchia a Mali e al Messico risolvano i loro problemi piuttosto che esportarli. Se non vi sono delle soluzioni in vista, bisognerà aspettarsi un deterioramento di questi problemi.