Senza cultura nè stato nè uomo

Giovanni_PaoloPubblicato su Avvenire il 2 giugno 2005

PARIGI. A 25 anni dalla visita di Giovanni Paolo II all’Unesco, il cardinale Tauran ricorda il suo discorso: uno dei più alti del secolo breve

di  Jean-Louis Tauran

«Sì, l’avvenire dell’uomo dipende dalla cultura!». Non è senza una certa emozione che faccio qui risuonare queste parole pronunciate dal rimpianto papa Giovanni Paolo II, già 25 anni fa. Il discorso presso la sede dell’Unesco rimane senza dubbio uno dei più significativi del suo pontificato. Coloro che lo udirono ebbero subito coscienza di aver ascoltato una grande lezione di spiritualità e di umanesimo.

L’ambasciatore Jean-Bernard Raimond, che fu Ministro degli esteri e ambasciatore presso la Santa Sede, si esprime così nella sua opera Un Papa nel cuore della storia: «Giovanni Paolo II, con l’aura che gli davano la sede di Pietro e la sua azione incessante al servizio dell’Uomo, alle porte dell’anno 2000, a partire dal 20° anniversario della sua elezione, aveva già il suo posto nella storia come uno dei più grandi uomini politici della seconda metà del XX secolo. Nel 1980, a Parigi, all’Unesco, provai un’emozione profonda udendo uno dei più grandi discorsi del dopoguerra» (p. 27).

Per 13 anni, nella mia qualità di segretario per i rapporti con gli Stati, ho incontrato Giovanni Paolo II ogni settimana per informarlo sulla situazione internazionale, le relazioni della Chiesa con gli Stati e ricevere le sue istruzioni. Molto spesso, i nostri incontri si concludevano su considerazioni relative alla cultura francese che il Pontefice conosceva così bene. Mi giunge il ricordo di una sera in cui il Papa mi parlò del Discorso sul metodo, che egli considerava come l’opera che ha aperto la via alla filosofia moderna: cogito ergo sum, commentò, dunque Dio diventa un «argomento» del pensiero umano. L’uomo pretende di decidere da solo, senza Dio, ciò che è bene e ciò che è male. Evocò subito i totalitarismi del secolo passato.

Lasciando l’appartamento pontificio, giunta la notte, mi ricordavo del discorso all’Unesco di cui questo Papa polacco era l’illustrazione concreta: Dio, l’uomo, la memoria e la cultura! La cultura è innanzitutto la memoria. Noi apparteniamo a una famiglia, a una nazione, a una Chiesa con la loro storia che ereditiamo e che, in un certo modo, ci plasma. La memoria rafforza l’identità. Essa si perpetua nella nazione, questa «grande comunità degli uomini che sono uniti da legami diversi, ma soprattutto… dalla cultura. La Nazione esiste “attraverso” la cultura e “per” la cultura… essa è questa comunità che possiede una storia superando la storia dell’individuo e della famiglia» (n. 14).

Qui, a Parigi, si può pensare alla celebre lezione di Renan alla Sorbona, «Cos’è una nazione?» (1882); rispose: un voler vivere comune. Giovanni Paolo II, nella sua lezione all’Unesco, preferisce un elemento obiettivo, più identificabile: la cultura. E riferendosi alla storia tragica della Polonia, il Papa precisava che il suo Paese d’origine ha conservato, malgrado le spartizioni e le occupazioni straniere di cui è stato vittima varie volte, la sua identità e la sovranità nazionale «non appoggiandosi sulle risorse della forza fisica, ma unicamente appoggiandosi sulla sua cultura». E «questa cultura si è rivelata, in questo caso, di una potenza più grande di tutte le altre forze».

Da qui, l’importanza della famiglia e della scuola per la sua conservazione e la sua trasmissione. A questo proposito, è interessante osservare che di fronte al pericolo dell’uniformazione che veicolano i mass media o i circuiti economici che pretendono di imporre programmi e modelli uniformi – in una parola, quello che chiamiamo la globalizzazione -, il Papa invita a una sorta di resistenza. All’epoca dei continenti organizzati, Giovanni Paolo II ricorda il dovere di rispettare la «sovranità» degli Stati, questa «sovranità che esiste e che trae la sua origine dalla cultura propria della Nazione e della società, dal primato della famiglia nell’opera dell’educazione e infine dalla dignità personale di ogni uomo» (n. 16). Per lui, è in queste comunità naturali che l’identità espressa dalla cultura trova la sua libertà.

Ma la cultura è anche speranza. L’uomo «è il fatto primordiale e fondamentale della cultura» (n. 8). È «il suo unico oggetto e il suo termine» (n. 7). Ciò ha per conseguenza che egli deve sottomettere l’elemento materiale alle forze spirituali e che la cultura deve contribuire al suo essere prima di accrescere il suo avere: «La cultura è ciò attraverso cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’”essere”. È qui anche che si fonda la distinzione capitale tra l’essere e l’avere» (n. 7). Si può dire che, grazie alla cultura, l’uomo può divenire sempre più uomo e imparare ad essere di più non solo «con gli altri», ma anche «per gli altri» (n. 11). Questo discorso è un inno alla persona umana, alla sua dignità e alle sue potenzialità.

In ciò esso è portatore di speranza! L’uomo vi appare dotato di un valore particolare e autonomo: «Soggetto portatore della trascendenza della persona» (n. 14). Questo farà dire al Papa: «Occorre affermare l’uomo per se stesso». Quando tratterà dei diritti dell’uomo, Giovanni Paolo II li collegherà al «primato dello spirituale» (n. 4), ricordando all’occorrenza che l’Unesco ha per finalità il servizio dell’uomo e dell’umanità o, più precisamente, dell’uomo nella sua umanità, cioè dell’uomo dotato di intelligenza e di volontà. Trattando della scienza, il Papa non manca di rendere omaggio al lavoro degli scienziati e di offrire fiducia all’intelligenza dell’uomo protesa verso «la conoscenza disinteressata della verità». Ma egli mette in guardia contro le deviazioni possibili della ricerca scientifica. E menziona i totalitarismi del dopoguerra, la minaccia nucleare e il superarmamento.

Nondimeno, egli esprime fiducia all’uomo, interpella la sua responsabilità per dirgli che Dio gli ha dato la possibilità di dominare la natura e che dunque può e deve domare la scienza. Ecco perché, verso la fine del suo intervento, il Santo Padre, rivolgendosi agli uomini e alle donne di cultura e di scienza, non esita a dir loro: «Tutti assieme siete una potenza enorme: la potenza delle intelligenze e delle coscienze» e fissa loro tre priorità: priorità all’etica sulla tecnica; primato della persona sulle cose; superiorità dello spirito sulla materia. Questo programma non è un’utopia. È realizzabile grazie a una «cultura morale» che è il requisito proprio dell’uomo «spiritualmente maturo; l’uomo capace di educarsi da solo e di educare gli altri» (n. 14).

Rileggendo questo testo ispirato, sono stato colpito dalla felicità e dalla familiarità con cui Giovanni Paolo II ha trattato le questioni affrontate. Questo è forse dovuto alla sua cultura, alla sua esperienza di insegnante e alla sua spiritualità fuori dal comune. Ma si deve anche al ruolo d’avanguardia della Chiesa non solo nella diffusione della cultura ma anche nella sua stessa formazione. A ragione, d’altronde, il testo afferma il «legame organico e costitutivo che esiste con la religione in generale e il cristianesimo in particolare da una parte, e la cultura dall’altra» (n. 9).

In proposito, il Papa fa una menzione speciale dell’Europa – dall’Atlantico agli Urali -, cioè nella sua pienezza culturale e spirituale la cui influenza si è diffusa nel mondo intero. Il 25 gennaio 1979 Giovanni Paolo II, in occasione del suo primo viaggio internazionale, a Puebla, aveva già affermato : «La verità che dobbiamo all’uomo è, prima di tutto, una verità sull’uomo stesso. In quanto testimoni di Gesù Cristo, noi siamo… portavoce e servitori di questa verità che non possiamo ridurre ai principi di un sistema filosofico o a una pura attività politica… Forse, una delle debolezze più manifeste della civiltà attuale risiede in una visione inesatta dell’uomo».

Ebbene! Un anno dopo, all’Unesco, lo stesso Papa è venuto a dire la sua verità all’uomo e a esprimergli la sua fiducia: «Voglio proclamare la mia ammirazione davanti alla ricchezza creatrice dello spirito umano, davanti ai suoi sforzi incessanti per conoscere e affermare l’identità dell’uomo: di quest’uomo che è presente sempre in tutte le forme particolari di cultura» (n. 9).

Egli si è presentato davanti a un’Istituzione «destinata a servire la pace e il progresso dell’umanità sull’insieme del globo», convinta della «necessità dell’unione delle nazioni, del rispetto reciproco e della cooperazione internazionale» (n. 2). È giunto come Vescovo di Roma, certo, ma anche… più curiosamente, come «figlio dell’umanità» (n. 22). È forse per questo che i rappresentanti delle nazioni l’hanno ascoltato con un’attenzione poco comune. Ma se queste parole hanno toccato il loro cuore è perché in effetti questo «figlio dell’umanità» aveva parlato loro da vero discepolo del «Figlio dell’uomo». La sua memoria nutrirà ancora a lungo la nostra speranza!