Pansa: la Resistenza lavi i panni sporchi

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Giampaolo Pansa

Articolo pubblicato su Avvenire del 17 ottobre 2003

Un giornalista di sinistra scrive un bestseller sugli eccidi dei partigiani e scoppia la polemica L’autore risponde alle accuse e contrattacca: «Non si trattò solo di punire gli ex fascisti, ma di omicidi preventivi»

«Il mio è “completismo”: riempio i buchi della storia. Non fu guerra civile in guanti bianchi: morirono in 20 mila pure per vendetta personale o tattica politica comunista»

di Roberto Beretta

L’aveva detto fin da pagina 22, per bocca dell’unico personaggio immaginario del volume: «Il libro che lei vuole scrivere le attirerà una tempesta di critiche. L’accuseranno di rivalutare i fascisti. Le rinfacceranno il suo scarso senso dell’opportunità, perché fa il gioco della destra. La incolperanno di voler aprire porte che devono restare sbarrate, per non aggiungere legna al fuoco del revisionismo».

>Detto fatto. Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, pp. 380, euro 17), l’ultima opera di Giampaolo Pansa – giornalista di molte battaglie, parecchie delle quali sul fronte antifascista e della sinistra, oggi condirettore de L’Espresso – in appena una settimana ha collezionato tre edizioni e una montagna di polemiche (vedi box). Colpa dell’argomento scottante – gli eccidi partigiani del dopoguerra -, ma anche di un irrisolto tabù che galleggia da sessant’anni sul passato della sinistra. E qui l’autore reagisce al dibattito.

Pansa, si offende se chiamano la sua un’operazione di revisionismo?

«Ah ah ah. Revisionismo? Ma io sono un revisionista, lo sono sempre stato, per me non è un’offesa… Tuttavia stavolta, piuttosto che del revisionismo, ho fatto del “completismo”: ovvero ho cercato di riempire i vuoti della storia, sono andato oltre il 25 aprile per sapere che cosa è successo anche il 26, il 27, o il 18 agosto 1945».

Colpisce che i suoi avversari le rivolgano tutti obiezioni sul metodo, accuse di essere «inopportuno»: questo libro proprio adesso che al governo c’è la destra, eccetera. Nessuno che eccepisca sui contenuti, sui fatti che lei ha radunato.

«Ma chi stabilisce se e quando un libro – un articolo – è “opportuno”? Dobbiamo rimettere in piedi il Minculpop, il ministero dell’informazione? Mi rifiuto: i partigiani hanno combattuto appunto per la libertà, anche quella di espressione».

Del resto, se non è «opportuno» oggi parlare dei misfatti della Resistenza, la sinistra ha avuto 60 anni di tempo per gestire quelle informazioni nel modo più adatto, no?

«Appunto. Ma il problema è che non volevano dire che il dopoguerra è stato una continua violenta punizione dei vinti, per mesi e per anni; non volevano dirle queste cose che gettano un’ombra sulle bandiere della Resistenza che garriscono nelle piazze… E si tenga presente come anche per me il mito giovanile è sempre stato il partigiano che liberava la mia città, Casale Monferrato, e che nel 1959 sono stato il primo studente italiano a laurearsi con una tesi sulla Resistenza. Lo sa qual è il vero difetto del mio libro? Che è incompleto, perché già ora mi arrivano fax e lettere che m’informano di uccisioni che non conoscevo o che non ho potuto raccontare per non rovesciare sul lettore una dose eccessiva di orrore. Le vittime (o i loro discendenti) hanno taciuto, ma la loro piaga non si è mai rimarginata».

Lei accusa la storiografia antifascista di «opportunismo partitico o faziosità ideologica». Finora abbiamo dunque vissuto in un regime?

«Ma no. Intanto ci sono storici – cito Massimo Storchi, Mirco Dondi, Gianni Oliva, Guido Crainz e in genere la storiografia di destra che nell’ultimo decennio ha prodotto lavori l’impeccabili – che hanno raccontato queste cose meglio di me, anche se con impatto minore. Io stesso della Repubblica Sociale mi occupo e parlo da decenni. Il vero regime è stato il conformismo, che ancora continua: gli unici attori della Resistenza devono apparire i comunisti, che condussero quella guerra civile in guanti bianchi, senza commettere alcuno degli orrori compiuti da fascisti o nazisti».

Lei parla dell’incontro che Togliatti ebbe a fine settembre 1946 a Reggio Emilia con alcuni dirigenti del Pci, quando diede l’alt al «verminaio» degli assassinii politici. Ma non è meglio dire che la guerra civile terminò solo alle elezioni del 18 aprile 1948?

«Perfetto: la guerra civile finì quando, per nostra fortuna, la Dc di De Gasperi prese il potere. Infatti fino al 1948 si verificarono uccisioni politiche, pur se in misura minore che negli anni precedenti».

Un’altra obiezione che le muovono: la violenza partigiana fu la reazione a vent’anni di dittatura, a due di feroce occupazione militare tedesca.

«Questa è solo la prima motivazione degli eccidi. Ma sono cinque secondo me i moventi di quelle esecuzioni senza processo. La seconda è che ci fu una quantità di vendette private rivestite di panni politici: a Schio una donna fu assassinata dall’inquilino moroso che era diventato partigiano e al quale lei aveva osato chiedere il dovuto. Terzo: la convinzione (oggi rivelatasi quanto mai fallace) che più fascisti si uccidevano, più difficilmente sarebbe tornato il regime. Quarto: la strategia politica generale dei comunisti di annichilire chiunque poteva ostacolare la famosa “spallata finale” per arrivare al potere, uccidendo o terrorizzando con la tattica che poi avrebbero usato anche le Br: “colpirne uno per educarne cento”. Quinto: il tentativo di sostituire una classe dirigente con un’altra proveniente dal Pci».

Cominciamo dalle prime tre cause: possono essere non dico giustificate, ma almeno capite, in un contesto di guerra civile…

«C’è anche chi ha scritto che – in fondo – 20 mila morti per una situazione come quella del dopoguerra italiano sono persino pochi… Io invece dico di no. Perché chi vince dev’essere così ingeneroso, crudele? Perché infierire in quel modo? E poi proprio chi aveva sbandierato di combattere per la libertà e la democrazia».

Le ultime due cause, invece, sono ben lungi dal configurare una vendetta consumata «a caldo» e delineano piuttosto un lucido piano. «Il Pci si serviva di quel clima», lei ha scritto. Distruggendo così l’immacolatezza di Togliatti.

«Io racconto la storia com’è stata. Ed è evidente, da molti fatti, che a un certo punto non si trattò più di punizioni sugli esponenti del passato regime, bensì di omicidi preventivi. Si uccidevano il parroco, il sindaco, il possidente che potevano dar fastidio nella marcia comunista verso il potere. Quanto a Togliatti, si scopre l’acqua calda: persino la storiografia comunista, ormai, seppure con le massime cautele, sta mettendo in luce le colpe del Migliore».

Lei ritiene che alcuni mali dell’Italia attuale dipendano da quelle ferite mai rimarginate

«La nostra è sempre stata una democrazia imperfetta. Se il Pci, invece di cominciare a distanziarsi (e molto timidamente) da Stalin dopo il 1956, avesse rotto con l’Urss subito dopo la guerra, indirizzandosi come in altre nazioni verso il laburismo o una socialdemocrazia…».

I cattolici. Sono stati vittime designate, in quegli eccidi?

«Molti preti furono assassinati durante la guerra civile, sia dai fascisti sia dai partigiani, perché facevano il loro dovere di aiutare le persone senza guardare da che parte stavano. Sì, essere cattolici combattivi, in certe zone dove si era soli a tener testa al potere totalizzante dei comunisti, significava rischiare la vita».