Fine di un tabù (titolo redazionale)

partigianiRubrica Vivaio su Avvenire
 22 novembre 1992

di Vittorio Messori

E così anche l’ultimo tabù se ne è andato. Qualche tempo fa , presso il Mulino (dunque una casa editrice dalla solida tradizione “democratica” e “antifascista”), usciva il libro di Claudio Pavone – ex partigiano: qualifica, qui, non irrilevante – dal titolo Una guerra civile. Per la prima volta non erano gli sconfitti a definire la Resistenza come guerra civile: appellativo che era sempre stato rifiutato con sdegno da una cultura egemone che (seppure gestita spesso da ex fascisti subitaneamente convertiti al sinistrismo) imponeva di credere che, nel terribile biennio tra il 1943 e 1945, c’era una stragrande maggioranza dei buoni da una parte, tutti eroicamente impegnati contro il nazifascismo, e, dall’altra parte, un’infima minoranza di mostri in camicia nera indegni persino della condizione umana.

Non lo mostrò forse, tra l’altro lo slogan che per anni accompagnò tutti i cortei sedicenti “proletari” e che campeggiò su tutti i muri: «La Resistenza ormai ce l’ha insegnato / Uccidere un fascista non è un reato»? Se così stavano le cose, come osare profanare le cose sacre, scambiando per “guerra civile” quella che non era stata altro che una sorta di disinfestazione di ratti? Pavone, invece, mostrava – con la forza dei documenti – che “dall’altra parte”, quella dei “neri” (assieme, come sempre avviene in guerra, ad autentici delinquenti) c’erano pure giovani e meno giovani che seguivano un loro ideale, per quanto discutibile sia apparso, seppure col senno di poi.

Naturalmente, si alzarono lamenti minacciosi da parte delle ultime vestali del mito ma questa volta non fu possibile far finta di niente, vista l’autorità sia dell’autore che dell’editore. Ma il peggio doveva venire ancora. Ed è arrivato, in effetti, all’inizio di questo autunno: l’editore, stavolta, è nientemeno che Rizzoli.

Quanto all’autore, il caso è ancor più “scandaloso” per i timorati e i benpensanti politici: si tratta di uno storico torinese , Romolo Gobbi, che, non appartenendo alla “nuova generazione” (ha 55 anni) ha un preciso passato alle sue spalle. E’ stato, infatti, ideologo tra i più fanatizzati del Movimento sessantottardo: uno che dava del “fascista” a tutti quelli che non erano comunisti “alla albanese” o “alla cinese”, uno che ha fatto parte della redazione di riviste dal nome sinistro (è il caso di dirlo…) per chi ha vissuto quegli anni come Quaderni rossi e Classe operaia.

Ebbene, proprio questo Gobbi già gruppettaro , il suo pamphlet rizzoliano lo ha intitolato Il mito della Resistenza. La tesi, per dirla subito, è così riassunta: «tutti i popoli hanno bisogno di miti. Nel dopoguerra l’Italia ufficiale ha dato corpo al mito della Resistenza per ricostruire un’identità nazionale e per assolvere i suoi cittadini dalla colpa di essere stati in larghissima maggioranza fascisti e di essere scesi in guerra al fianco della Germania hitleriana». Continua, implacabile, questo “pentito”: il «mito della Resistenza e dell’unità antifascista è durato sino al crollo del comunismo e, con l’invenzione dell’arco costituzionale, ha impedito il formarsi di una corretta dialettica tra maggioranza e opposizione».

In poco più di 100 pagine, ma dense di documentazione storica, Gobbi smonta uno per uno gli elementi del “mito” ormai cinquantennale. In realtà, si sapeva bene (ma si osava soltanto sussurrarlo) che compito principale dei ben 60 “Istituti per la storia della guerra di liberazione” non era stabilire come fossero andate le cose; ma, al contrario, rafforzare una leggenda lucrosa per tanti (e soprattutto per i comunisti); e, spesso, far sparire o manipolare documenti compromettenti.

Così, già il comunista “duro e puro” Romolo Gobbi ci mostra che gli scioperi nelle fabbriche del Nord, esaltati da sempre dai cantastorie della sinistra come manifestazioni della ferrea volontà antifascista della classe operaia, non furono in realtà politici, ma salariali, determinati non dalla ideologia ma dalla ben più concreta fame.

Ci mostra, il nostro, quanto pochi siano stati coloro che si diedero alla macchia per motivazioni ideali: in gran maggioranza furono giovani che cercavano soltanto un nascondiglio per sfuggire ai bandi di leva della Repubblica di Salò. Così, se Mussolini fosse stato più avveduto e avesse fatto appello ai volontari, astenendosi dalla leva di massa, avrebbe quasi svuotato le montagne dei giovani che vi erano saliti più per celarsi che per combattere.

Stando sempre all’impietosa ricostruzione di Gobbi , se scarso e non di massa (come hanno voluto farci credere i comunisti) fu l’apporto della classe operaia alla resistenza, quasi nullo fu l’appoggio dei contadini.

Checché ne dicano le storie oleografiche, nelle campagne i partigiani furono visti con diffidenza e paura: depredavano provviste e raccolti, consegnando in cambio ricevute senza valore e, in più, attiravano su paesi e cascine rappresaglie che colpivano poi soltanto gli inermi e gli innocenti, mentre gli “eroi” se la davano a gambe lasciando agli altri il salatissimo conto da pagare. Addirittura, si ricorda che i pochi contadini che entrarono nelle bande partigiane lo fecero quasi sempre per cercare di proteggere i parenti dai saccheggi dei “patrioti” con un fazzoletto rosso al collo.

Ma proprio nulla lascia in piedi il Gobbi. Qualcuno aveva già cominciato ad ammettere che, sul piano militare, la Resistenza fu ben poca cosa; e, fosse stato per i partigiani, i tedeschi sarebbero ancora sugli Appennini. Ma almeno, si diceva, il ruolo positivo della Resistenza si manifestò alla fine, quando l’insurrezione popolare del 25 aprile salvò gli impianti industriali dalla distruzione dei nazisti in ritirata. Io stesso, lo ammetto, cresciuto nelle scuole e poi negli ambienti editoriali e giornalistici della Torino “di Gramsci e di Godetti” (come si diceva quasi parlando dei santi Cirillo e Metodio, Cosma e Damiano) avevo creduto in un qualche ruolo partigiano nella salvaguardia delle fabbriche.

Il guaio è che – come Il mito della Resistenza amaramente ci rivela – sinora gli “storici” (non dimentichiamo i 60 istituti ad hoc!) ci avevano nascosto che il generale delle SS Karl Wolff, plenipotenziario militare tedesco in Italia, l’8 marzo del 1945 si incontrò a Zurigo con Allen Dulles, capo del servizio segreto americano, e concordò con lui la resa delle truppe in Italia. Come prova di buona volontà, il 6 aprile «Wolf comunicò a tutti i comandi tedeschi che sarebbero stati responsabili di ogni danno alle fabbriche, alle istallazioni industriali, alle infrastrutture italiane».

A che servì dunque la mitica “insurrezione” del 25 aprile, visto che i nazisti se ne andarono da soli o si arresero senza fare danni? Servì, risponde Gobbi, «ai partiti del Cln per spartirsi le cariche pubbliche prima dell’arrivo degli Alleati: così a Torino il sindaco toccò ai comunisti, il prefetto ai socialisti, il questore agli azionisti e il presidente della provincia ai democristiani». Così, mentre dei guai finivano, altri ne cominciavano, come oggi ben sappiamo. (556)