Insurrezione rinviata causa maltempo

Articolo pubblicato su L’Italia Settimanale

del 29 settembre 1993

Le “quattro giornate” di Napoli non ci furono. Lo dimostra Enzo Erra in un volume, tra pochi giorni in libreria, del quale anticipiamo alcuni brani significativi

di Enzo Erra

«Perché», si chiede Alfredo Parente uno dei protagonisti dei fatti, «i patrioti attaccarono il 28 settembre, attesero cioè il giorno in cui i tedeschi offrirono palesi segni che stessero abbandonando Napoli, per attaccarli? La domanda avrebbe lo stesso valore di quest’altra: perché un drappello di uomini, armati unicamente di bastoni e sassi, non decide di demolire le torri di Castel Nuovo? E’ chiaro che i patrioti non potessero cominciare a muoversi apertamente prima che i tedeschi lasciassero trapelare l’idea di sguarnire il presidio di Napoli».

In altre parole, non si poteva insorgere fino a quando in città c’era qualcuno contro cui insorgere. E si può anche capirlo, perché la prudenza non è mai troppa. Tuttavia, nella storia dei popoli qualche torre demolita a colpi di pietre e bastoni c’è pure stata, e in quella napoletana in particolare le sommosse contro un potere che non aveva alcuna intenzione di sloggiare non sono mancate.

Nel valutare quello che avvenne a Napoli negli ultimi giorni di settembre, e nel misurarne le dimensioni reali, non si può fare a meno di tenerlo presente. All’alba del 28 una parte del presidio tedesco aveva già lasciato Napoli. Difficile dire, a questo punto, quanti fossero i rimasti.

Caudana e Assante affermano che fin dal giorno precedente il loro numero complessivo era «superiore ai 200 uomini, ma certamente inferiore ai 250». Fonti tedesche parlano di 250-300 soldati, e il Tamaro le cita mostrando di ritenerle attendibili.

Altri autori però lo contestano, come l’Artieri che lo accusa di scarsa obiettività, o come il De Antonellis che lo definisce «poco credibile» perché «da parte tedesca furono lasciati sul campo più di 500 caduti».

versione questa ancor meno credibile, perché le perdite tedesche, in questo caso, sarebbero state quasi il triplo di quelle accertate fra i napoletani che li attaccarono, e a cui venne riconosciuta la qualifica di partigiani. In realtà, anche se in assenza di documenti certi la cifra esatta non si può e forse non si potrà mai stabilire, non sembra che ci si possa discostare dalle 2-3 centinaia.

In quasi tutti gli scontri narrati dai protagonisti, infatti, i tedeschi coinvolti vanno da un paio di unità alla decina, e solo in pochissimi casi sono più di venti. Non si comprende, del resto, perché i tedeschi avrebbero dovuto impegnare un numero rilevante di uomini in una città che ormai si trovava oltre le loro linee, già stabilizzate sulle nuove posizioni, anche se l’armata nemica non le aveva ancora investite.

Fin dalle ore del mattino, i tedeschi abbandonarono, e in parte demolirono, anche gli edifici e i locali di cui si erano serviti. Villa Lucia, sede di alcuni loro uffici, era chiusa e vuota fin dal giorno precedente. Anche gli altri comandi, entro la mattinata, restarono deserti e alcuni alberghi che erano stati usati come alloggi vennero evacuati e resi inutilizzabili.

Faceva eccezione solo l’albergo Parco, dove c’erano ancora, tranquilli e senza apparenti problemi, Scholl e il suo comando, evidentemente destinati ad uscire per ultimi dalla città. Anche nei punti di raccolta dei giovani che erano stati fermati e concentrati nei giorni precedenti non c’era più nessuno.

Alle 11 – secondo De Jaco – i rastrellamenti cessarono, e poco dopo un’ultima colonna di deportati si avviò da piazza Dante per via Santa Teresa: uno dei nuclei di armati che cominciavano ad affacciarsi per via, la vide ma non l’attaccò «per la sproporzione delle forze».

Questo gruppo non era il solo. Un occhio alle navi angloamericane che erano apparse di nuovo e ancora più numerose tra Capri e Sorrento, un occhio alle file di autocarri tedeschi che uscivano dalla città salendo verso Capodimonte o verso Capodichino, non pochi tra i clandestini armati cominciarono a sperare che, se fossero venuti allo scoperto, non sarebbero andati incontro a nuove, pericolose delusioni, e non avrebbero dovuto attaccare le torri coi bastoni.

L’ora sembrava (e questa volta era) davvero vicina. Già nella notte precedente, secondo la relazione di uno dei protagonisti, era stata piazzata una mitragliatrice di fronte all’officina Borghese occupata dai tedeschi, un’altra all’angolo di via Pisa e una terza sul terrazzo dello stabile al numero 82 di piazza Nazionale, così da bloccare i passaggi da Poggioreale al vasto.

In una corsia dell’ospedale degli Incurabili si erano nascosti dal pomeriggio del 26 una ventina di ex confinati politici, che avevano occultato nella camera mortuaria un buon numero di fucili e di bombe a mano, e persino tre mitragliatrici. Il gruppo, che si era guardato bene dal muoversi in seguito al «falso allarme» del 27, scese in città verso via Duomo.

Qui, secondo alcuni racconti non del tutto ineccepibili, vennero erette le prime barricate, all’angolo di via Tribunali, e all’imbocco di via Foria, e un motociclista tedesco di passaggio venne ucciso. Fin dalle prime ore, un gruppo si sarebbe appostato sulle scale dell’Orto Botanico, da cui avrebbe controllato piazza Carlo III.

Sparatorie sarebbero avvenute all’Arenella e alla Speranzella. Alfredo Parente, dal palazzo di Santa Teresa degli scalzi in cui si era rifugiato, notò «un notevole afflusso di automezzi» con molte macchine targate Roma che uscivano verso Capodimonte, e vide alcuni giovani che, «rasentando cautamente il muro» o appostati all’angolo delle vie Santa Teresa e Materdei avevano aperto il fuoco contro gli autocarri tedeschi che andavano verso la salita.

Come si vede, anche accettando tutto per buono, siamo ben lontani dall’immagine di una «giornata» insurrezionale.

Che in città non stesse accadendo nulla di speciale ebbe modo di accorgersi anche Antonio Tarsia, che nelle prime ore del mattino scese dal Vomero in centro «per prendere contatto con i patrioti delle sezioni S. Ferdinando e Chiaia», ma non ne ricavò molto, tanto che nei suoi ricordi tace del tutto sui risultati della spedizione.

Tornando verso casa su una delle poche linee tranviarie rimaste in funzione (unico esempio nella storia universale di un «campo di battaglia» attraversato in tram) si avvide invece che qualcosa stava accadendo perché approssimandosi al Vomero «si udiva, abbastanza vicino, il crepitio di mitragliatrici».

Quando Tarsia scese dal tram, si avvide che «il numero dei giovani che volevano battersi superava di poco la trentina», e fra essi notò «operai, studenti, contadini, soldati e ufficiali di complemento» (a occhio e croce, dunque, due o tre per categoria, un buon assortimento).

Intanto, non essendo riusciti a sollevare il popolo, tre armati scesero dalla camionetta in via Cimarosa, e insieme ad altri due, avendo visto sulla porta della federazione fascista «due giovanissimi militi armati di moschetto» si divisero, colsero «alle spalle» (precisa accuratamente Tarsia) le sentinelle, le spogliarono e le «massacrarono di botte».

Le mitragliatrici tedesche piazzate in via Luca Giordano erano ben difese, e i tentativi di falle tacere fallirono. La sparatoria durò a lungo, sembra cinque o sei ore, bloccando la vita del quartiere, disperdendo le file delle donne dinnanzi al panettiere, provocando panico e sgomento, ma senza che il fuoco delle mitragliatrici venisse neutralizzato.

Gli uomini di Tarsia, che nel frattempo aveva preso il comando delle operazioni, riuscirono ad avvicinarsi alle postazioni tedesche, ma non a investirle. Il numero dei partecipanti non aumentò: sempre una trentina da un lato, al massimo una ventina dall’altro.

Poi, intorno alle 18 (è questo il solo punto su cui tutti i racconti concordano), un violento acquazzone investì e disperse i guerriglieri che, evidentemente, erano forniti di armi ma non di ombrelli. L’insurrezione, causa maltempo, venne rinviata al mattino seguente.

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MA I TEDESCHI SI ERANO GIA’ RITIRATI

Così il suo libro vuol dimostrare che i napoletani non spararono contro i tedeschi?

«Il libro non si propone certo di dimostrare che a Napoli nessuno sparò contro i tedeschi, bensì accertare “quanti” furono i napoletani che spararono, “quando spararono”, contro “chi” spararono»

E che ne risulta?

«Ne risulta che a sparare davvero furono poche centinaia, forse un migliaio di napoletani su un milione circa di cittadini, che gli scontri durarono al massimo per un giorno e mezzo dal pomeriggio del 28 alla sera del 29 settembre, che in quei giorni l’armata tedesca si era già ritirata da Salerno al Volturno, ed a Napoli c’erano solo le ultime pattuglie di retroguardia che stavano uscendo dalla città»

Nessuna insurrezione, dunque? I tedeschi non furono cacciati?

«Non si insorge contro chi si ritira, non si caccia chi in sostanza se n’è già andato»

Tuttavia, come lei stesso dice, qualcuno sparò

«Certo, ma solo qualcuno. E non l’intera città, come si afferma persino nella motivazione della medaglia d’Oro. La stragrande maggioranza dei napoletani, affamati e stremati, speravano solo che la tragedia finisse presto. Alcuni si illusero, sparando, di affrettare la fine»

Si illusero?

«S’illusero, perché i tedeschi non lasciarono la città nemmeno un minuto dopo di quando avevano deciso di uscirne. E poi, ma questo è un altro argomento, la vera tragedia della Napoli corrotta e violenta doveva ancora venire»

Questa nuova tragedia fu conseguenza delle “giornate”?

«Certamente no. Gli angloamericani sarebbero comunque entrati in città, né un minuto prima né un minuto dopo di quando vi entrarono».

Le “giornate”, insomma, non ebbero conseguenze?

«Non ne ebbero alcuna, né in bene né in male. Il mito delle “giornate” invece ne ebbe e ne ha, perché ha contribuito e contribuisce tuttora a coprire la realtà dei fatti, a porre tutto quello che avvenne in una prospettiva falsa e ideologica»

Il libro, allora, si propone di sfatare questo mito?

«Non di sfatarlo ma di rettificarlo, riportando i fatti alle loro reali, modestissime dimensioni, e confutando quindi la tesi ideologica che, ingigantendoli, si è voluta legittimare».

E questa tesi in che consiste?

«Nel sostenere che gli italiani – nel caso specifico i napoletani – non “sentirono” mai gli angloamericani come nemici, mentre non cessarono mai di considerare i tedeschi come “nemici ereditari”, e appena poterono insorsero per cacciarli».

E non è vero?

«Non è vero. Il libro tende proprio a ribaltare questa prospettiva. Si apre rievocando la lotta che tutti i napoletani condussero per tre anni contro gli angloamericani, affrontando senza vacillare un’offensiva aerea massacrante, disseminando di incredibili atti di eroismo tutti i campi di battaglia. Si chiude narrando che ciò che alcuni napoletani fecero per qualche ora contro i tedeschi. Dal raffronto emerge la realtà».

Ma i tedeschi avevano occupato Napoli. Non dovevano essere considerati invasori?

«I tedeschi scesero in massa in Italia solo dopo il 25 luglio, per parare il prevedibile voltafaccia italiano, che avrebbe portato la guerra alle porte di casa loro. ma anche gli angloamericani si orientarono a proseguire l’offensiva contro l’Italia con uno sbarco sulla Penisola solo quando ne videro imminente il crollo, e presero la decisione ultima solo dopo la caduta di Mussolini»

E da questo che si deduce?

«Che non fu la guerra, ma la smania di uscirne, che portò lo scontro in Italia, e ne fece un campo di battaglia tra eserciti stranieri. la diretta responsabilità di questo scempio non ricade sul regime, ma su chi lo rimosse, premeditando e poi attuando un voltafaccia in piena guerra, con le conseguenze che non potevano non derivarne. Con i primi capitoli del libro credo di averlo oggettivamente dimostrato»

E quale morale ha tratto?

«Che quando si fa una guerra, la cosa migliore è farla fino in fondo, altrimenti si provocano guasti e rovine assai maggiori di quelle che si sarebbero subiti facendola»

F.C