Jus primae noctis

jus_primae_noctisTratto da:  Pensare la storia,
San Paolo, Milano 1992, p. 504.

di Vittorio Messori

“Jus primae noctis: di fronte a certe interpretazioni aberranti, basate su giochi di parole e delle quali questo presunto “diritto” è un esempio clamoroso, c’è da domandarsi se il Medio Evo non sia stato vittima di un vero e proprio complotto di storici”. Così scrive – in un suo dizionarietto sui luoghi comuni (e quasi sempre falsi) relativi all’Età di Mezzo – Régine Pernoud.

In realtà, è indubbio che un “complotto” c’è stato, nel senso almeno di presentare sotto la luce più sfavorevole possibile un periodo aborrito sia dagli illuministi, in quanto contrassegnato dalle “tenebre della superstizione religiosa” e non dalla Ragione; sia dai protestanti, che vi scorgevano l’epoca del trionfo di una Chiesa cattolica in cui identificavano l’Anticristo stesso. Per fermarci, stavolta, su uno degli aspetti più singolari di quella diffamazione: in che cosa consistette veramente quello jus primae noctis, quel “diritto della prima notte”, che moltissimi sono ancor oggi convinti fosse in vigore nell’Europa “cristiana”?

Con l’appoggio magari dei manuali leggiucchiati a scuola, si erede che consistesse nella facoltà del feudatario di “iniziare”, la notte stessa del matrimonio, le giovani che si sposavano nei territori nei quali era signore. I poveri villani, i miseri servi della gleba, avrebbero dunque dovuto sottostare all’estrema umiliazione di accompagnare al castello la sposina perché, sino al mattino seguente, conoscesse il letto del lubrico padrone.

Non mancano romanzi popolari – ma, ahimè, anche testi cosiddetti “storici” – in cui si fa credere che l’uso di un tale diritto fosse preteso persino dai vescovi, quando ad essi appartenevano le terre. In ogni caso, anche se la “consumazione” del matrimonio altrui era perpetrata da un feudatario laico, la Chiesa – che pur aveva il potere di impedire lo scempio non si sarebbe opposta o avrebbe tollerato, complice.

Tutto questo è completamente falso, almeno per quanto riguarda la christianitas dell’Europa occidentale, cattolica. Precisiamo “occidentale” perché in quella orientale, di tradizione greco-slava (anche se, va detto con chiarezza, con l’opposizione decisa ma impotente della Chiesa ortodossa) pare che sino al XVII secolo i grandi latifondisti abbiano preteso davvero dai loro servi un simile “diritto”. Il quale era riconosciuto anche alle caste sacerdotali di alcune religioni non cristiane; vigeva, inoltre, presso certe tribù africane e, soprattutto, nell’America precolombiana.

Quello jus sessuale fu praticato anche dal clero buddista di zone asiatiche come la Birmania. Non ce ne è invece nessuna traccia per quanto riguarda l’Europa cattolica. Ma, allora, come ha potuto sorgere una leggenda ancora oggi tenacemente creduta? Per capire, dobbiamo ricordare che cosa fosse un cosiddetto “servo della gleba”: l’espressione è spesso pronunciata con orrore, quasi si trattasse del proseguimento della schiavitù antica. Non è affatto cosi. i servi della gleba” erano contadini che ottenevano in concessione da un signore, da un feudatario, un appezzamento di terreno sufficiente per il mantenimento loro e delle loro famiglie.

L’uso del suolo era compensato dal contadino con una quota del raccolto, talvolta con un pagamento in denaro e con prestazioni varie sulle altre terre del signore (le celebri corvées, spesso però – malgrado la diffamazione che ne farà la propaganda rivoluzionaria – di carattere sociale, a beneficio di tutti, come la costruzione e la manutenzione di ponti e strade e la bonifica di terreni paludosi).

Come dice ancora la Pernoud: “Il termine “servo” è stato spesso frainteso, poiché si è confusa la servitù del Medio Evo con la schiavitù che fu il fondamento delle società antiche e di cui non si trova nessuna traccia nella società medievale. La condizione del servo è completamente diversa da quella dell’antico schiavo: lo schiavo è un oggetto, non una persona; è sotto la potestà assoluta del padrone che ha su di lui diritto di vita e di morte; gli è preclusa ogni attività personale; non ha famiglia, né sposa, né beni”.

Continua la studiosa francese: “Il servo medievale è una persona, non un oggetto: ha una famiglia, una casa, dei campi e quando ha pagato ciò che egli deve non ha più obblighi verso il signore. Egli non è sottomesso a un padrone, è vincolato a una terra: il che non è affatto una servitù personale, ma una servitù reale. L’unica restrizione alla sua libertà è che non può lasciare la terra che coltiva. Ma, è da notare, questa limitazione non è priva di vantaggi poiché, se non può lasciare il fondo che ha in godimento, questo non gli può neppure essere tolto.

Il contadino dell’Europa occidentale di oggi deve la sua prosperità proprio al fatto che i suoi antenati erano “servi della gleba”: nessuna istituzione ha contribuito tanto alla fortuna, per esempio, degli agricoltori francesi. Tenuto per secoli sullo stesso fondo, senza responsabilità civili, senza quegli obblighi militari che le campagne conobbero per la prima volta con le leve di massa imposte dalla Rivoluzione, il contadino francese è diventato il vero padrone della terra.

Solo la servitù medievale poteva realizzare un vincolo così intimo dell’uomo con la campagna, fare dell’antico servo il padrone del suolo. Se la situazione del contadino nell’Europa orientale è rimasta tanto miserevole, è proprio perché non vi fu il vincolo protettore della servitù: il piccolo proprietario, abbandonato a se stesso responsabile della sua terra che non poteva difendere, conobbe le peggiori vessazioni che facilitarono la costituzione di immensi latifondi”.

Sono spunti che, tra l’altro, dovrebbero indurre a una maggiore prudenza coloro i quali, in base a schemi ideologici o alla suggestione delle parole (servus glebae, feudo, feudatario…) non colgono il volto positivo di istituzioni tanto poco aborrite dagli interessati che si verificarono sì rivolte dei servi della gleba ma quando, su istigazione della monarchia, si impose di affrancarli…

È proprio da questo radicamento, socialmente benefico, sul suolo, che nasce il preteso jus primae noctis. All’inizio del feudalesimo, al contadino era vietato contrarre matrimonio al dì fuori del feudo perché ciò causava un indebolimento demografico in zone e in tempi in cui il problema era la mancanza di popolazione.

Pernoud: “Ma la Chiesa non smise di protestare contro questa violazione dei diritti familiari che, infatti, dal X secolo in avanti andò attenuandosi. Si stabilì in sua vece l’usanza di reclamare un’indennità pecuniaria dal servo che lasciasse il feudo per sposarsi in un altro. Nacque così lo jus prirnae noctis sul quale si sono dette tante sciocchezze: ma era soltanto il diritto ad autorizzare il matrimonio fuori dal feudo dei contadini. Siccome nel Medio Evo tutto si traduceva in una cerimonia, tale diritto diede luogo a gesti simbolici come, ad esempio, posare una mano o una gamba sul letto coniugale, con impiego di particolari termini giuridici che hanno suscitato maliziose o astiose interpretazioni, completamente erronee”.

Niente a che vedere, insomma, con un preteso “diritto” a spulzellare la villanella. E niente a che fare, a maggior ragione, con la completa licenza sessuale che, nell’antichità pagana, il padrone aveva su schiavi e schiave, visti come puri e semplici oggetti o di lavoro o di piacere.

Per cui, secondo la battuta veritiera di uno storico: “La servitù della gleba medievale ha suscitato vive proteste: ma quelle dei servi stessi quando li si è voluti “liberare”, esponendoli così alla perdita di sicurezza di un terreno da coltivare per loro e per i loro discendenti; mettendoli in balia, senza più la difesa degli armati del signore, delle incursioni dei predoni; facendoli cadere nelle mani dei ricchi latifondisti e degli strozzini; esponendoli al servizio militare e agli agenti del fisco dell’autorità statale”.