L’abolizione del “regime feudale” come specifico politico della Rivovoluzione francese

feudalesimo_abolizionedi Giovanni Cantoni

1. Dal 1789, cioè ormai da duecento anni, la ricorrenza del 14 luglio viene ricordata, in Francia e nel mondo, come data significativa di libertà. Infatti, i termini della tesi che sottende il festeggiamento si possono enunciare così: il 14 luglio 1789 una parte del popolo francese ha conquistato la fortezza della Bastiglia, dando la libertà al popolo tutto.

La ricerca storica ha invano acclarato di che qualità fossero i “vincitori della Bastiglia”, così come la natura della stessa “presa” e dei soggetti liberati: infatti, benché al “gruppo delle 954 persone che, nel 1790, ricevettero il titolo di “vincitore della Bastiglia”” (1) si debbano aggiungere “senz’altro vagabondi, individui loschi, malviventi che non ebbero motivo di rivendicare il titolo di “vincitori”, perché ciò avrebbe potuto metterli alle prese con la polizia” (2); benché, poi, “la sua guarnigione [fosse costituita] di 82 invalides [cioè “invalidi di guerra”], bonari e ben conosciuti nel quartiere Saint-Antoine, […] rinforzata, il 7 luglio, da un distaccamento di 32 soldati svizzeri” (3), ai quali il governatore, marchese Bernard René Jourdan de Launay, aveva imposto “di giurare “che non avrebbero fatto fuoco e non si sarebbero serviti delle loro armi se non li avessero attaccati”. (4).

Benché, infine, il 14 luglio 1789 la fortezza racchiudesse soltanto sette detenuti e, di essi, quattro fossero falsari, due pazzi – uno riteneva di essere Giulio Cesare, san Luigi oppure anche Dio – e uno sospetto di assassinio e come tale accusato dai suoi stessi familiari (5); nonostante tutto questo, nell’immaginario collettivo si è ormai impressa, in modo apparentemente indelebile, appunto l’immagine di un fatto capace di riassumere mirabilmente tutto l’accadimento rivoluzionario dell’Ottantanove, in quanto rappresenta l’apertura di una prigione, simbolo della monarchia d’Ancien Régime, e l’inizio, in libertà, di un “nuovo ordine”.

In quest’ottica – la cui vigenza è facilmente verificabile in chiunque abbia subito la consueta acculturazione nelle scuole non solo francesi e occidentali, ma di tutto il mondo – si può dire che la cosiddetta “presa della Bastiglia”, se è stata risibile e mistificata operazione militare, ha invece rivelato – e continua a rivelare – il genio propagandistico di chi ne ha fatto accadimento simbolico di tutto l’episodio rivoluzionario.

2. Se la ricorrenza del 14 luglio 1789 è oggetto di costanti pratiche celebrative, queste pratiche si fanno più intense quando cadono non solo semplici anniversari, ma addirittura centenari. Felicemente, però, accanto alle celebrazioni, si ripropongono anche le contestazioni, le messe in questione critiche. Così, nell’imminenza del secondo centenario della Rivoluzione detta francese, una schiera cospicua di studiosi, accademici e non, ha ripreso il tema sotto le più diverse angolazioni, da diversi punti di vista attaccando questo oppure quel luogo comune, veicolato da storici di parte e calato nella cultura corrente (6).

Fra queste reazioni merita particolare attenzione quella di Jean Dumont, autore di un consistente studio su La Révolution française ou les prodiges du sacrilège (7), quindi della sua trascrizione in un pamphlet, in un “breve scritto di carattere polemico” antirivoluzionario, Pourquoi nous ne célèbrerons pas 1789 (8). L’opera dello storico francese merita una menzione particolare in quanto non solo attacca documentatamente aspetti di rilievo della “mitologia” rivoluzionaria, ma – soprattutto – perché tenta di rovesciare l’immagine depositata nella cultura collettiva, contrapponendo alla presa della Bastiglia, del 14 luglio 1789, il saccheggio della casa parigina dei Padri Lazzaristi, avvenuta il giorno precedente, il 13 luglio (9).

In questo modo, all’immaginario collettivo viene proposto un accadimento che sintetizza in modo adeguato il senso – secondo Jean Dumont – della Rivoluzione dell’Ottantanove nella sua totalità, cioè l’anticristianesimo (10).

3. Senza assolutamente discutere la tesi avanzata da Jean Dumont relativamente al significato globale della Rivoluzione francese, mi limito a dire che – qualunque sia la portata del fatto rivoluzionario dal punto di vista religioso, e non è certo esigua – la rilevanza politica di tale fatto è enorme.

La evidenzia adeguatamente un interprete ottocentesco della Rivoluzione stessa – ormai divento un classico della storiografia in materia -, Alexis de Tocqueville, secondo cui, addirittura, “la Rivoluzione non è stata fatta, come si è creduto, per distruggere il potere della fede religiosa; ad onta della apparenze, è stata una rivoluzione essenzialmente sociale e politica […]. Quando la separiamo da quegli incidenti che ne mutarono per breve tempo la fisionomia nei diversi tempi e nei diversi paesi, per considerarla in sé stessa, si vede chiaramente che risultato di questa Rivoluzione fu l’abolizione degli istituti politici che, durante parecchi secoli, avevano regnato in modo esclusivo sulla maggior parte dei popoli europei e che ordinariamente si definiscono come istituti feudali, per sostituirvi un ordine sociale e politico più uniforme e semplice, basato sull’eguaglianza delle condizioni”.

Bastava questo per provocare un’immensa rivoluzione; quelle istituzioni antiche, infatti, non soltanto erano ancora mescolate, e come intrecciate a quasi tutte le leggi religiose e politiche d’Europa, ma avevano anche suggerito una quantità di idee, sentimenti, abitudini, costumi che ad esse aderivano. Fu necessaria una spaventosa convulsione per distruggere ed estrarre di colpo, dal corpo sociale, una parte a cui si collegavano così tutti i suoi organi. Perciò la Rivoluzione parve più grande che non fosse; sembrava che distruggesse tutto, perché quanto distruggeva aveva rapporto con ogni cosa e, in certo modo, faceva corpo con tutto.

“[…] essa ha distrutto interamente, o è in via di distruggere (perché dura ancora), tutto quanto nell’antica società derivava dalle istituzioni aristocratiche e feudali, tutto quanto vi si riallacciava in qualche modo, tutto quanto ne portava, fosse pure minima, l’impronta. Del vecchio mondo, ha conservato solo quanto a tali istituzioni era estraneo, o poteva esistere senza di esse” (11).

Questo mutamento politico-sociale si lega a una data decisamente meno nota del 14 luglio, quella del 4 agosto sempre del 1789 (12). Infatti, nella notte del 4 agosto – all’inizio di quella sorta di riunione fiume che si protrae unitariamente fino all’11 agosto – si procede all’abolizione del “regime feudale”.

Perciò questa data costituisce la puntualizzazione cronologica della specificità politica di tutto l’episodio rivoluzionario in quanto non un istituto nella sua singolarità viene abbattuto, ma un regime nella sua globalità. E, anche se il regime feudale era già stato ampiamente modificato nel corso dei secoli d’Ancien Régime propriamente detto, come in altri casi l’opera compiuta dalla Rivoluzione sanziona con intervento giuridico positivo un processo rivoluzionario talora plurisecolare, dando in questo modo il colpo di grazia a realtà da gran tempo aggredite e tendenzialmente vanificate: […] la Rivoluzione è stata tutt’altro che un avvenimento fortuito. Ha colto il mondo alla sprovvista, è vero – nota sempre Alexis de Tocqueville –; ma è il compimento di un lungo lavorio, la conclusione improvvisa e violenta di un’opera, alla quale avevano lavorato dieci generazioni di uomini. Se non fosse avvenuta, il vecchio edificio sociale sarebbe ugualmente caduto, qui più presto, là più tardi; soltanto, avrebbe continuato a cadere pezzo a pezzo, invece di sprofondare di colpo. La Rivoluzione ha compiuto bruscamente, con uno sforzo convulso e doloroso, senza transizione, senza precauzioni né rigurdi, quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da sé e in molto tempo. Fu questa, la sua azione” (13). Infatti, “meno di un anno dopo l’inizio della Rivoluzione, [il marchese Victor Riqueti di] Mirabeau scriveva segretamente al re:”Confrontate il nuovo stato di cose con l’Antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degli atti dell’assemblea nazionale, ed è la parte maggiore, è palesemente favorevole a un Governo monarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamento, senza paesi di Stato, senza gli Ordini del clero, della nobiltà, dei privilegiati? L’idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: questa superficie tutta uguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l’autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione”” (14). Perciò l’opera portata a compimento è sentita sia dai protagonisti che dagli apologeti della Rivoluzione come gesto epocale (15).

E tale è, purché si abbia l’avvertenza di assumere il termine “regime feudale” non soltanto con relazione ai beni, al cosiddetto “beneficio”, ma anzitutto – se non soprattutto – come caratterizzato dalla rilevanza del rapporto personale fra uomini liberi (16), il cui legame va a costituire la “famiglia” in un significato non limitato a quello puramente biologico anche se esemplato su di esso, un significato che appare con straordinaria evidenza dalla storia del termine stesso, che è da famulus (17).

Il presupposto concettuale dell’abolizione del regime feudale si trova sinteticamente ed efficacemente espresso da un attore non secondario dei giorni della Rivoluzione, l’abbé Emmanuel Joseph Siéyès, nel suo scritto – datato fra la fine del 1788 e l’inizio del 1789 – dal titolo Qu’est-ce que le Tiers état? Nel sesto capitolo di questo pamphlet vengono esposte due tesi: la prima afferma che la nazione è “l’assemblage des individus”, “la messa insieme degli individui” (18), la seconda che merita rappresentanza politica soltanto ciò che accomuna gli uomini e non quanto li differenzia (19).

Ebbene, entrambe le tesi – di cui non pretendo certo di indicare neppur sommariamente tutte le possibili conseguenze, cioè la loro “fecondità negativa” – collidono con quelle in cui si possono esprimere, nelle loro grandi linee, le strutture portanti del regime feudale, che — anche nella sua versione “stanca”, se non “terminale”, d’Ancien Régime — sente, quando non esplicitamente definisce, la nazione – cioè la società storica – come “riunione di famiglie” (20) e non come “somma di individui” e fa della famiglia la cellula della società non soltanto retoricamente oppure sociologicamente, ma anche politicamente (21).

Inoltre, l’attenzione alla famiglia – luogo per eccellenza dei rapporti interpersonali, delle differenze feconde e delle complementarità – equivale ad attenzione a quanto nell’individuo è non soltanto comune agli altri uomini, ma anche e soprattutto specifico, differenziante, funzionale, e all’esito dell’esplicitazione storica – e di una storia che supera la vita del singolo e si fa eredità e, quindi, tradizione – delle sue potenzialità (22).

Dunque, si può dire che nella notte del 4 agosto 1789 viene sancito un radicale mutamento politico, ben più radicale dell’abbattimento dell’istituto monarchico, in quanto positivamente cambia il protagonista della vita politica, che non è più la famiglia, ma l’individuo e per quanto ha in comune con gli altri uomini, cioè l’individuo come parte dell’umanità.

E questo mutamento radicale credo si possa ritenere lo specifico politico della Rivoluzione francese: infatti, come la Pseudo-Riforma protestantica ha “cancellato” il sacerdozio ministeriale dalla struttura della società ecclesiastica, la Rivoluzione dell’Ottantanove cancella la famiglia e le differenze interumane come elementi di struttura politicamente rilevanti.