Asini post-giacobini

asiniArticolo pubblicato su Il Secolo d’Italia
del 18 aprile 1999

di Alessandro Massobrio

Non si finisce mai d’imparare. La canonizzazione del Beato Marcellino Champagnat, che si svolge oggi, 18 aprile, in piazza San Pietro, ci ha rivelato alcune cose sulla Rivoluzione dell’89, che ancora non sapevamo. Prima fra tutte l’abissale ignoranza in cui era caduta la Francia postgiacobina.

E non stiamo parlando di ignoranza a livello di studi superiori o universitari. La Francia si risveglia all’indomani della Rivoluzione con una istruzione elementare pari a zero, quando soltanto pochi anni prima la monarchia assicurava, attraverso il clero delle campagne, un discreto livello medio di alfabetizzazione.

Con la Rivoluzione, invece, che nasce da premesse illuministiche e col dichiarato proposito di sgombrare il cervello dei fanciulli dalle tenebre dell’oscurantismo ancien régime, la situazione precipita. Al punto che Napoleone, insediatosi al potere col colpo di stato del 18 brumaio, si trova a dover ricostruire sulle macerie.

A parlare chiaro sono soprattutto le relazioni di prefetti, questi solerti strumenti dello Stato accentratore, che per motivi burocratici ci forniscono una fotografia quanto mai nitida della realtà. Scrive, ad esempio, un funzionario del dipartimento della Loira inferiore: «Non esistono scuole elementari nella maggior parte dei comuni rurali, e là dove esistono non producono alcun risultato positivo».

Dalla Charante giungono notizie ancor più tragiche. «L’istruzione, già prima della Rivoluzione, esisteva in pochi paesi, ma la Rivoluzione l’ha fatta scomparire ovunque! Le campagne non hanno alcun mezzo d’insegnamento, né mezzi per introdurlo». Infine, dall’Aisne, ci si incomincia a rendere conto di quanta saggezza sia portatore il buon senso popolare, secondo cui per fare un buon cittadino non occorre solo il gendarme, ma anche il prete. «I ragazzi – osserva infatti un funzionario locale – vivono nell’ozio e nel vagabondaggio, sono senza idea della Divinità, senza la nozione del giusto e dell’ingiusto, quindi con costumi barbari e selvaggi, donde un popolo feroce».

Il bello è che, a questo punto, il governo napoleonico, legittimo erede, a parte alcuni mimetismi di facciata, di quello rivoluzionario – non trova di meglio che ricorrere, ancora una volta, al clero. E buon per lui che la Chiesa non conservi rancori, ma sia sempre pronta a fornire, a chi ne faccia richiesta, operai per la vigna comune.

Uno di questi è Marcellino Champagnat, che – ironia della sorte – nasce proprio in quel 1789, in cui la Rivoluzione, «sbastigliando» Parigi, dà inizio alla sua epopea di barbarie. Rampollo di una modesta famiglia della provincia (le idee giacobine del padre sono compensate dalla solida fede materna) il giovane, dopo un travagliato curriculum di studi, si rende conto della necessità di donare alla Francia un nuovo strumento di apostolato e di civiltà.

Fonda così, nel 1816 (lo stesso anno della sua ordinazione sacerdotale), la Società di Maria, una congregazione di fratelli laici, con lo scopo di imitare nel piccolo certamente, ma non con minore efficacia, quella Compagnia di Gesù grazie alla quale la Chiesa del Concilio di Trento aveva riconquistato buona parte dell’Europa, sottrattale da Lutero.

Ma, a differenza dei gesuiti, i maristi non si propongono di fornire alle future classi dirigenti una cultura universitaria. Il loro scopo si limita – si fa per dire – ai fanciulli dei villaggi e delle borgate, dei quali la Rivoluzione degli «immortali principi» si è talmente dimenticata da privarli anche del principio meno immortale e più umano: quello di saper faticosamente apporre, in calce ad un documento, la propria firma.

E’ un soccorso inatteso quanto provvidenziale. Il clero francese, che dai 40.000 preti di prima della Rivoluzione si è ridotto a non più di 10.000 sacerdoti, vecchi e malandati, può tirare una boccata d’ossigeno. Anche perché i nuovi venuti non esitano a rimboccarsi le maniche e a mettersi subito all’opera. Già nel 1824 nasce Notre Dame de l’Hermitage, la prima casa e la prima scuola dei fratelli maristi, a cui faranno seguito ben 821 istituti, elementari e superiori, diffusi in tutto il mondo.

Poi, nel 1903, nel corso di una di quelle crisi di laicismo che, nella storia di Francia come in quella dell’Italia, ricorrono al modo di malattie esantematiche, il presidente del Consiglio Emile Combes, ex seminarista passato alla massoneria, abolisce l’insegnamento religioso. Poco male. Già a quel tempo i maristi contano ben 250 scuole all’estero ed in quelle, d’ora innanzi, concentreranno i loro sforzi.

Tra i paesi beneficiati vi sarà, in primo luogo, l’Italia, con Genova, dove i fratelli daranno vita non soltanto ad una scuola, ma ad un nuovo metodo pedagogico, basato sullo scoutismo di Baden Powell. Che cosa aggiungere? Quel tanto di malinconia sufficiente a constatare come – per dirla con Vittorio Messori – la Chiesa, o meglio, certi uomini di Chiesa finiscono di essere, sempre e comunque, nell’attuale clima revisionistico, gli attardati, i superstiti, colore che, come gli indovini dell’inferno di Dante, camminano col capo volto all’indietro.

Invitiamo chi non ne sia pienamente convinto a sbirciare due pubblicazioni, che i maristi, nel periodo che ha preceduto la canonizzazione del beato Marcellino, hanno distribuito nelle loro scuole. Nella prima, una storia a fumetti del fondatore della congregazione, leggiamo che «Il 14 luglio cade la Bastiglia, simbolo del potere totalitario» (sic).

Nell’altro, veniamo a sapere che Luigi XVI, che, dunque, di quel potere totalitario fu il supremo rappresentante, come Stalin lo sarebbe stato del bolscevismo ed Hitler del nazionalsocialismo, la mattina del 15 luglio si alza, «sbadiglia, e osserva svagato: “ma questa è una rivolta”. “No sire – risponde il duca (di Liancourt) – questa è una rivoluzione!”».

Peccato che, a questo punto, i buoni fratelli non abbiano introdotto anche Maria Antonietta a sgranocchiare brioches, visto che non c’era pane. Allora il quadro sarebbe stato completo, alla faccia di Gaxotte, Cochin e Furet.