Lo schiavismo presenta il conto. Ma chi paga?

schiavituArticolo pubblicato su Avvenire
 06 Settembre 2001

Le contraddizioni dei gruppi africani che pretendono un risarcimento per la tratta di tre secoli fa

di Claudio Moffa

Quanti sono stati gli schiavi neri deportati nel Nuovo mondo dagli Europei fra il XV e il XX secolo? Trenta milioni come sosteneva padre Rinchon nel 1929? O 100, come proponeva De Bosschère nell’età della decolonizzazione? O 70, come per M.L. Diop? E fino a che punto è definitiva la ben più modesta cifra calcolata sulla base di fonti d’archivio da Philip Curtin, nel suo classico The Atlantic Slave Trade: a Census: 12 milioni circa di persone? Non avrà ragione Ikinori a criticarla, elevandola del 40%? E i morti durante la traversata aumentano il numero complessivo delle persone sottratte all’Africa del 500%, come sosteneva il panafricanista DuBois, o del 13% come ha scritto ancora Curtin?

Bastano questi pochi interrogativi per capire quanto assurda – e pericolosa per la libertà di ricerca storica – sia la richiesta di risarcimento monetario che circola da alcuni anni ad opera di taluni gruppi e rappresentanti africani, per punire quello che comunque fu un crimine dell’Europa ai danni del continente nero. Se le cifre sono così diverse, su quali basi scientifiche sono stati calcolati i 777 trilioni di dollari (!!) richiesti dalla African World Reparations and Repatriation Truth Commission di Accra nel 1999?

La tratta atlantica degli schiavi è come ogni fenomeno storico realtà complessa, da indagare attraverso un salutare processo di revisione storica continuamente capace di correggere errori e carenze senza interferenze “politiche” esterne. Sono troppe le incognite e le variabili di quello che Coquery Vidrovitch ha definito il dibattito fra “massimalisti” e “minimalisti”: al ribasso, gli schiavisti potevano avere interesse – un po’ come gli evasori fiscali di oggi – a nascondere una parte dei deportati per pagare meno dazi doganali; al rialzo, ci possono essere state le cifre eventualmente esagerate della pur sacrosanta propaganda antischiavista di fine Settecento.

Anche allora – come oggi nel balletto delle cifre sulle fosse comuni di ogni colore, o sul numero degli immigrati, o sugli ebrei sterminati – c’era chi spingeva in un senso o nell’altro, e non c’è nulla di scandaloso nel prenderne atto.

Sul piano storico non è difficile solo il calcolo assoluto degli schiavi neri ma anche quello relativo, il prezzo demografico (e dunque economico) pagato dagli africani per le deportazioni di massa. Quanti abitanti aveva il continente nero agli inizi dell’età moderna? Come calcolare la sua popolazione, in assenza di documenti scritti paragonabili agli “Stati delle anime” dell’Europa cristiana?

Quanto alla dimensione politica, è chiaro che il “risarcimento” può attivare una spirale di follia rivendicazionista a tutto campo: alla tratta schiavista ha partecipato non solo “tutta” l’Europa – ivi compresi gli ebrei, come ricordano con l’esempio di Sao Tomé e del “Rotschild della costa occidentale” Pedro Blanco, storici autorevoli del calibro di John Fage e Hubert Deschamps – ma anche gli arabi, nei lunghi secoli che corrono dall’epoca medievale all’Ottocento del Sudan di Gordon e del Mahdi; e anche i latinoamericani, con le piantagioni brasiliane o caraibiche. E i neri: grandi e piccoli regni africani si arricchirono grazie al traffico schiavista.

E allora? Se le “responsabilità” storiche vengono fatte risalire ad una “lunga durata” che azzera completamente rivolgimenti e diversità di regimi e di intere culture, il rischio – un rischio perfettamente “logico”, nell’illogicità dell’operazione – è che si attivino giochi geopolitici ambigui, magari di segno opposto a quello desiderato: regimi africani corrotti risarciti dalla Cuba di Castro, ostacoli insormontabili al dialogo afro-arabo, o magari – nonostante siano gli Stati Uniti i più decisamente contrari alla richiesta – a quello euro-africano.

Di fronte a tentazioni come quelle che circolano nella Conferenza di Durban converrebbe piuttosto compiere una operazione molto semplice: primo, separare nettamente il campo della ricerca storica – chiunque vi si impegni, e non solo gli storici di professione – dalle legittime differenti opzioni ideologiche e politiche.

Non è possibile sottostare ai ricatti psicologici di chi, sia pure in buona fede, esagera cifre e dimensioni del fenomeno. Secondo, spostare l’attenzione dall’ormai remoto passato di tre secoli fa, ai grandi problemi dell’oggi che attanagliano il Sud del pianeta nella morsa dello sfruttamento internazionale, del sottosviluppo, e del “nuovo” razzismo: azzeramento del debito, difesa delle sovranità violate, creazione di un ordine economico internazionale “giusto”, sviluppo della democrazia.

Ecco alcuni punti all’ordine del giorno “seri” e per i quali ha senso discutere e battersi senza la necessità di aggrapparsi alla condanna – del resto ovvia – della tratta schiavista del XVIII secolo.